Mimì
Mimì apre la
raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Vendeva il latte in una
stanza bassa, priva di finestre e dall'intonaco sporco, macchiato d'umidità.
Questo locale era servito in precedenza ad un
macellaio perciò aveva ancora grossi ganci semilunati e arrugginiti fissati
torno torno alle pareti poco sotto il soffitto; i
quali conferivano all'ambiente qualcosa di sinistro. Oltre a quei ganci c'era
solo un bancone di legno grezzo quasi addossato alla parete di fronte alla
porta, che sosteneva il supporto rovesciabile per il bidone del latte. Vicino a
questo le due misure di lamiera, semplici cilindri muniti di manico, il mezzo
litro e il quarto di litro più un imbuto di latta completavano
l'arredamento.
Mimì non era la
proprietaria di questa latteria sui generis essendo essa comunale, ma soltanto
la gerente. Non avendo altra merce da vendere bastava che tenesse aperto il locale un paio di ore di prima mattina ed altrettanto verso
sera. Per lo meno fino ad esaurimento del latte a
disposizione. In quel breve lasso di tempo i clienti
codificavano fin fuori dalla porta, ciascuno con il proprio recipiente vuoto:
pentolini o bottiglie di varie fogge e misure. Donne nere nei loro scialli di
lana frangiati, uomini anziani puzzolenti e catarrosi, intabarrati in stinti
mantelli a mezza ruota, raramente a ruota intera, ragazzini zoccolati e
mocciosi. Questo durante l'inverno in cui il latte era più richiesto. Nella
bella stagione tutto era meno oscuro e pareva meno miserabile.
Mimì era una donna di
mezza età, né grassa né magra e di statura media; i lineamenti del volto,
squadrati e duri, completamente statici e il suo portamento, decisamente
mascolino ne rendevano piuttosto sgradevole l'aspetto. Sgradevole ma non
antipatico. Non miglioravano la situazione i capelli
ormai grigioferro, che portava molto corti e
incollati al cranio, non certo l’ultimo grido della moda in fatto di
acconciature femminili, né i vestiti di taglio rigido, fatti apposta per
piallarle la figura. Per i meno sprovveduti, quindi quasi per tutto il paese,
il suo atteggiamento era inequivocabile.
Può darsi che lei lo
volesse accentuare, sfidante per dimostrare che riteneva suo prezioso diritto
essere accettata senza discriminazioni di sorta. Ma se per tutti il
suo atteggiamento era inequivocabile, senza, per questo mancandole di rispetto,
almeno in modo palese nonostante i tempi tanto acerbi, per me lei era
semplicemente una donna strana, a volte inquietante, con una gestualità che me
la scostava maggiormente. Una gestualità parsimoniosa, direi. Mimì infatti muoveva le braccia mantenendo i gomiti attaccati ai
fianchi sì che ogni suo movimento risultava impacciato. Teneva inoltre le mani
accartocciate; se le capitava di volgere le palme all'insù, anche quando, nella foga del discorso,
sarebbe stato logico allargarle, ella le chiudeva quasi del tutto, a coppa, con
il mignolo spostato verso il pollice in maniera innaturale. E questo dava
l'idea che tutto in lei fosse involuto, sottinteso, così come lo era il suo
eloquio: frasi a doppio senso solo raramente capite, le quali
mi imbarazzavano che mai.
Di tanto in tanto la
donna buttava là una cristonata ma con cautela,
essendo credente (o fingendo di esserlo, non l'ho mai saputo) ed avendo padre e fratello impiegati al municipio, quindi
con un certo decoro da travet da salvaguardare.
– Ehi, Cristo! non buttatemi per aria il banco e non fatemi perdere la
sinderesi, sacramento, altrimenti vi spezzo i capelli. –
Avveniva quando la gente
pressava per paura di rimanere senza latte.
Sinderesi. Un vocabolo straordinario e affascinante. Solo che a sentirlo uscire
dalla sua bocca, la prima volta, vi legai un significato osceno. Invece no.
Quando consultai il dizionario mi accorsi che era
tutto a posto; ossia, niente oscenità e piazzamento giusto del vocabolo.
Mimì era una di quelle.
Questo lo sapevo anch'io. Ce n'erano altre tre o quattro in paese che avevano
trascorso il loro tempo verde e fruttuoso passando da un bordello all'altro, ed ora si davano da fare in proprio per quel poco che
potevano ricavare. Nessuna, tuttavia aveva quel qualcosa di indefinibile
che, in lei, mi sbilanciava. Diciamo un'ex prostituta sui generis.
Io il latte andavo
sempre di sera a comprarlo; e Mimì, da una settimana circa, aveva preso il
vezzo di non servirmi quando era il mio turno. Le prime volte allungavo timidamente la bottiglia: un litro, per favore. Ma
quella mi ignorava completamente come nemmeno avessi
parlato, come nemmeno esistessi, anzi. Intanto serviva a destra, a sinistra,
dietro di me senza mai guardarmi. Provai a protestare:
– Scusi, toccava a
me. –
– Assì? – e basta. Intanto continuava imperterrita a
servire tutti gli altri.
La situazione si faceva
sempre più pesante perché i presenti mi guardavano trattenendo o non
trattenendo sorrisetti saputi che mi mettevano addosso una
gran voglia di sprofondare. Il fatto di non capirne la causa, poi, accendeva in
me una furiosa rabbia impotente; inoltre non dimentichiamo il freddo intenso
aggravato dall’umidità malandrina. Anche quello, sì, perché si era in dicembre
quando accadde, con un frego di neve per terra, il pavimento bagnato da
guazzarci e la porta spalancata perché tanto era inutile chiuderla. Decisamente, senza indugi, dovevo proprio trovare il modo di
porre fine ad una situazione ormai insostenibile, visto che il latte mi era
indispensabile e soltanto lì l’avrei trovato.
Pensa che ti penso, l’unica soluzione possibile era di ritardare la
mia entrata, ma non troppo, per non rischiare di giungere a latte finito.
È chiaro che non era un
capolavoro, ma fu l’unica tattica che mi riuscì di
escogitare.
– Ciao, –
salutò lei non appena sgusciai dentro felpata come un ladro.
– Buona
sera, – e abbassai gli occhi immediatamente: non mi riusciva proprio di
guardare le sue brune capocchie a chiodi di garofano che ci aveva al posto
dell’iride più pupilla. E mentre le allungavo la bottiglia
quella sferrò imprevedibilmente l'attacco. Senza ritirare il vetro, che per
fortuna non si ruppe, cadendo sul bancone, uscì da dietro quest'ultimo,
mi si parò di fronte, mani sui fianchi, aggressiva e congestionata, dicendo
allora. Proprio così; un vocabolo soltanto, ma con tanto
significato da travolgere e pieno zeppo di punti interrogativi ed esclamativi.
Io, poveraccia, nebbia. Intanto lei a furia di passettini mi aveva fatto
rinculare fino ad incollarmi contro la parete gelida,
allungando contemporaneamente le sue sconce mani verso i miei seni.
Con un guizzo mi salvai
di lato. Quella, che non era stupida, capì subito che non avevo capito niente. Così ora, di volti sbalorditi ce n'erano due:
il mio e il suo.
– Perdio! non mi vorrai dare a bere che non hai capito, vero? Alla tua
età!? alla tua età!? –
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi afflosciata e
tanto amareggiata da impietosire.
– Massignore… massignore… –
andava ripetendo incredula scuotendo la testa come un pendolo che cammini a
trentacinque ore al giorno.
Io mi torturavo meningi
e fibbia della cintura in un guazzabuglio incredibile di pensieri.
Mimì alla fine
stabilizzò il suo pendolo in modo da inchiodarmi in faccia quelle sferette
brune che teneva al posto degli occhi. Tremavo come
una foglia e dentro di me invocavo la buona sorte a tutto vapore.
Le mani della mia
nemica, che non avevo mai perso di vista, unico pensiero lucido nel
guazzabuglio, erano rimaste ciondoloni lungo i fianchi, mentre la proprietaria
ora aveva preso a mugolare come un cane ferito. Un mugolìo
che si fece ben presto distinto in un fiume di sconcezze. Alcune delle quali
erano:
– Possibile?! Come si fa a essere così freddi, perdìo.
Proprio non senti nulla? Capisci che io ho bisogno di un po' di carne fresca e
pulita? –
Il suo tono di voce era
salito paurosamente di pari passo con il mio mal di testa a furia di roteare
gli occhi dalle sue manacce alla porta spalancata. Fuori era buio fitto. Solo
un rettangolo di luce giallastra, che dalla porta si proiettava sulla neve
pesticciata della via molto fuori mano. Non anima viva che entrasse nel mio
campo visivo.
La seconda guerra
mondiale era finita da qualche mese così che si provava sempre una grande gioia
quando si realizzava che non c’era più bisogno di
oscuramento per difendersi dal famigerato “Pippo”.
Mimì frattanto
continuava il suo sproloquio:
– Sono stufa, stufa marcia di quella brutta puttana che vive con me.
Quella è una vacca che non fa altro che cornificarmi non appena giro la testa e
parlarmi della notte che passò con Mussolini. Se è vero, poi. E tu niente. Tu
te ne freghi di vedermi soffrire. Vatteneee. Vatteneee!… –
Oddio, stava proprio
gridando di andarmene, riuscii a mettere a fuoco.
– Vattene, perdìo!, hai capito?, altrimenti
stasera commetto uno sproposito, qui, in mezzo alla strada, mandando a dar via
il culo tutti quanti. –
Mentre guadagnavo
l'uscita con un balzo riuscii a vederle il viso così
rosso da far senso.
Solo a casa mi resi
conto che per quella sera avremmo dovuto rinunciare al prezioso latte. Prezioso
perché ancora per molto tempo chi non poteva fruire della famigerata “borsa
nera” avrebbe dovuto fare i conti con il drastico
razionamento del cibo.
Naturalmente mia madre
volle sapere e io, conscia di non avere alcuna
scappatoia, al colmo dell'imbarazzo e scoppiate di disgusto per quella
spudorata, raccontai tutto alla genitrice; la quale ascoltò molto concentrata
fino alla fine poi chiese: - Tu sai vero cos'é Mimì? –
- Be', sì, ha sempre
fatto la vita. Lo sanno tutti. –
- Esatto. Perciò vuoi
conoscere la mia opinione? Secondo me in città ha qualche grosso giro di
prostitute giovani e cerca di tirarti dentro. Perciò stai bene attenta; evitala
il più possibile e fatti servire con grinta quando è
il tuo turno. D'accordo? Se ti comporterai così non
potrà capitarti nulla di male. –
Trovai la spiegazione
del tutto plausibile e la sera dopo, sia pure con un gran batticuore, entrai
nella tana del lupo dove stavano già quattro o cinque
persone.
Mimì non volse lo sguardo dalla mia parte e mi servì puntualmente quando
fu il mio turno sempre evitando di guardarmi dritto in faccia. Pagai col denaro
già contato, mormorai un buonasera generico che andava
bene per tutti; alla fine uscii con la bottiglia piena del prezioso liquido e
mentre camminavo nella neve in poltiglia con le calzature inadatte, pensavo che
dopotutto l'inverno non era così rigido come mi era parso fino a qualche decina
di minuti prima.