La stella polare

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

Iside scolò l'ultimo goccio di grappa che era rima­sto nel bicchiere e, golosamente, si leccò le labbra con lento muovere di lingua: aveva i "riflessi imbastarditi". L'espressione era sua.

Si sentiva molto leggera felice e buona; soprattutto questo: buona. Era come se, campasse mill'anni, un sentimento che non fosse stato di assoluta generosità e tolleranza verso gli altri non avesse più potuto sfiorarla. E dal momento che si sentiva buona verso tutti fece un piccolo sforzo per includere anche suo marito tra i beneficiari di questa scoppiettante bontà onnicomprensiva. Dalla brevissima lotta uscì facilmen­te vittoriosa in modo che l'odio per il suo uomo in un amen si tramutò in tenero affetto. Non solo si sentiva di accettare suo marito, poveretto, ma si sentiva di capirlo, addirittura di giustificarlo. Ecco l'intuizio­ne solare, quella che avrebbe avuto il potere di aiutarla a vivere d'ora in poi. Federico non era malvagio; tutto quanto le aveva fatto patire non era premeditato; diciamo che era da imputare, caso mai, ad una lunga indemagliabile catena di circostanze tutte sfavorevoli di cui la principale vittima era proprio lui.

Iside guardò la bottiglia semivuota posata sul marmo nudo del tavolo. Al diavolo il bicchiere! pensò afferrandola per bere a garganella. Ebbe la tentazione di vuotarla in un colpo solo ma, nonostante la sbronza, capì che sarebbe stato un suicidio. Suicidio? Che or­ribile parola.

Sentendosi molto virtuosa ne bevve solo un paio di sorsate; quindi posò il vetro accanto a sé con grande cura, misurando i gesti scoordinati.

Per qualche minuto restò con i gomiti appoggiati al tavolo e la testa tra me mani: voleva assaporare il più a lungo possibile la sua felicità; ma alla fine decise che ne avrebbe bevuto un altro goccio. Ma sì, un sorsetto, giusto per festeggiare questo stato di grazia conosciuto per la prima volta, circa un anno addietro, e che lei cercava sempre più spesso.

Di là dai vetri chiusi della grande finestra, schermati da leggere tendine bianche, il grosso fico protendeva i suoi rami ancora nudi e cenerognoli. Ad Iside sembrò di vederlo per la prima volta e lo contemplò a lungo, con tenerezza, lasciandosi andare ad uno di quelli sfoghi logorroici propri degli ubriachi, intercalato da secchi colpi di singhiozzo.

Si svegliò con le braccia intorpidite ed un terribi­le mal di testa. Non avrebbe saputo dire quanto tempo aveva passato così, sprofondata in un sonno bruto.

C'era cascata un'altra volta, dunque! Nausea e sconforto la sommersero. Sconforto che ormai si poteva chiamare disperazione: la disperazione delle situazioni insostenibili senza possibile scampo.

Non poterne uscire. Non poterne uscire … Ecco il ri­tornello che si fa maglio scandendo con lugubri colpi ogni respiro.

La donna afferrò automaticamente la bottiglia da cui assunse una generosa sorsata. Il liquore forte le sce­se nello stomaco vuoto bruciandola. Un lungo brivido la scos­se in tutta la persona, ma non cercò nemmeno di trovare una scusa per questa nuova concessione. L'ultimo barlume della dignità di sé che le era rimasto faceva in modo di farle aborrire il ricorrere a scuse malcucite. Vizio. Dove c'e vizio c'è colpa. Dove c'è colpa c'è debolezza. Eppure quante attenuanti, quanti motivi accettabili e credibili dietro tutto questo! Motivi onorevoli addirittura – forse caso limite il suo: voler capire per perdonare e sopportare. Pur sem­pre sospesa tra lucidità e stato confusionale Iside aveva mantenuto chiaro dentro di sé questo concetto; ne aveva fatto la stella polare pronta a dare l'orientamento; la fiaccola, stando bene attenta che non fi­nisse sotto il moggio; anche se forse aveva valore so­lo per se stessa; anche se la fiaccola ardeva ancora sull'or­lo ma lei era già in fondo al baratro.

La poverina ricordò tutte le volte che aveva rifiutato le effusioni del marito nei suoi approcci d'avvinazzato. Egli se ne risentiva, diventava violento: forse l'aveva veramente amata; ma lei non po­teva capire allora. Rabbrividì al pensiero di quelle scene disgustose nelle quali non c'era più nulla di accettabile. Solo una puttana avrebbe potuto soggiacervi con indifferenza.

Ora invece sapeva. Anche lei si sentiva sincera quan­do, dopo alcuni bicchieri, avrebbe voluto abbracciare tutti, fondere il genere umano in un unico abbraccio fraterno. E se gli altri, mentre fosse stata intenta ad esternare la piena di questi sentimenti, l'avessero respinta con disgusto? La donna ebbe la visione di se stessa ridotta a rottame, schivata da tutti, derisa persino da coloro che avrebbero continuato ad accettare i suoi soldi per versarle da bere.

Santi numi!, la grande decisione in un solo attimo tragico, in cui tutto il male del mondo, passato e fu­turo, ottenebra l'intelletto e avvolge l'essere in un amplesso satanico.

L'infelice si alzò di scatto. I suoi movimenti erano febbrili e incredibilmente coordinati. Si diresse verso la camera da letto dove si accertò che il lampadario fosse abbastanza resistente, aprì l'armadio e ne tolse tutte le cravatte di Federico iniziando ad annodarle con calma e diligenza.