Artemisio
Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Quando potei rendermi
conto di aver soltanto sognato spalancai gli occhi e pensai a "loro",
sicura che erano la causa di quello strampalatissimo sogno. Sappiamo che si
sogna ciò che si desidera, ciò che si teme, ciò che ci ha colpito in modo
traumatico. Si dice che i sogni siano pulsioni dell'inconscio che finalmente si
sfoga quando il super-io non può più essere attento a tenerlo in pastoie; i
sogni infine possono anche essere premonizioni, anticipazioni per chi ci crede
e li vuole interpretare in tal senso. Magari il mio sogno ha dentro un pizzico
di tutto e forse tanto strampalato non è. Infatti esso, dopo analizzato,
presenta una logica che tiene conto di una mia realtà passata e di una mia
realtà presente. D'accordo: esse sono state concatenate in modo bizzarro, ed
anche deformate, magari, ma da un sogno non si possono pretendere nessi molto
rigorosi.
È notte e dormo
tranquillamente; cioè a dire: non ho mangiato troppo prima di coricarmi, non ho
preoccupazioni toglifiato, non ho commesso reati tali
da farmi temere la giustizia umana. Ad un tratto un cigolìo
proveniente dall'armadio mi sveglia. Alla poca luce di plenilunio che penetra
dalle stecche mezze rotte delle persiane, ne vedo l'anta aprirsi per lasciar
uscire qualcosa di informe. Questo qualcosa prende d'infilata la strada più
breve per giungermi di fianco al letto e assume forma velocemente; ora è ben
definita: un essere umano che però non rientra nelle mie conoscenze vive o
defunte.
Da quello che si vocifera in famiglia i miei
antenati son tutti morti in grazia di Dio; quindi, in questo preciso momento
dovrebbero occupare un angolo del paradiso; e, per quanto nulla si sappia, pare
lecito credere che a nessuno verrebbe in mente di lasciare quei posti per
tornare negli armadi terreni.
Be', forse tutti quanti
salvi i miei antenati non sono. Nei ricordi tramandati da padre in figlio
risulta che nel mio ceppo (come in tutti i ceppi fino ad Adamo ed Eva che hanno
lasciato gran cattivo retaggio, brutti incoscienti a dir niente) qualcuno
dilapidò fior di bigliettoni con donne dal decubito facile o si impinguò alle
spalle altrui o tolse l'onore, con la propria linguaccia malefica, a famiglie
intere. Ma pare anche che basti pentirsi un attimo prima di morire per avere la
salvezza eterna in tasca. Il problema sta nel provare che un'anima appena appena ante mortem, è passata attraverso l'attimo redentore. Un bel
ginepraio dal quale, credo, non riuscirò mai a districarmi. Lasciamo fare al
destino, penso rassegnata, cercando nel frattempo di tenere a freno quel secco
e continuo rumore dei denti che provocano quando battono sopra-sotto.
Quand'ecco il lampo. Ma certo! né dal paradiso
né dall'inferno si torna, credo, ma dal purgatorio sì. Costei allora – è
chiaro che di femmina d'uomo trattasi – è la mia trisavola, la quale
apparteneva ad una delle famiglie più aristocratiche dell'Urbe per nobile
prosapia e per pecunia. Scalogna nera: non si va ad innamorare del mio
trisavolo, ardente e bell'amatore, ma peggio d'un sanquintino?
Donna Giacoma Romana Barbara Galeazzi fu
irremovibile: o er bullo o la clausura. Il nobile
padre conte Fausto Tommaso Maria Galeazzi decretò con altrettanta fermezza:
clausura.
Al che, con encomiabile
sottomissione filiale, la mia antenata rispose senza esitare: Grazie padre,
scelgo er bullo. E fu sposa devota e fedele fino alla
fine dei suoi giorni.
Che tipo, eh? Un
coraggio, ma un coraggio! Oh quanto ammiro io la gente coraggiosa, in base a quella
legge del più e del meno che si attraggono. Certo, perché sono un giunco: flectar non frangar.
Per tornare alla
contessina purtroppo anche i nobili genitori erano pieni di fegato, così non
seppero che farsene di un altro atto di coraggio; quello, loro, lo buttavano ai
cani. Ne furono anzi schifati per saturazione. Perciò, senza suspicioni,
scacciarono la fedifraga appiccicandole maledizione tanta e ghelli
niente. Né allora né mai.
È senz'altro così ed io
mi butto fuori dal letto per abbracciare la mia cara estinta; nel farlo
griderò: Oh, nonna, qual gioia!; o similari. Ma un urlo mi agghiaccia bloccando
la gamba a penzoloni:
– Non toccarmi,
deficiente. Non sono la tua antenata che sta purgando il suo peccato di
disubbidienza da novantasette anni e ne ha ancora per centocinquanta. Io sono
la signorina Rubicania. Anche se non mi hai mai
conosciuto da viva dovrai interessarti a me ora che non appartengo più al
vostro mondo. –
Come esordio non mi pare
gran che morbido e nemmeno chiarificatore. Il perché io, pacifica cittadina che
paga le tasse e che non esercita la professione di beccamorti, debba occuparmi
di lei come defunta, non capisco. Perciò armata di quel sacro diritto dei
popoli democratici che è la libertà di parola, tento di protestare. Ma, a quanto
pare, la legge dei popoli vivi non coincide con quella dei popoli morti: la
signorina Rubicania, con un gesto imperioso della
mano, m'impone il silenzio per continuare con una voce che tanto d'oltretomba
non mi sembra visto che tocca volentieri i toni alti, striduli addirittura.
– Tu appartieni ad
una cricca di giovinastri la quale cricca voi chiamate Nobile Accademia
Metafisica. E credete che gli spiriti dei trapassati abbiano così buontempo da
accorrere ad ogni vostra chiamata: Napoleone, Carlomagno,
nonna Gerolama, zio Luigi… –
Mentre parla noto che
divarica pollice e indice delle due mani come a formare un cerchio, e le muove
dal basso all'alto e viceversa, a ritmo lento, convincente. Io conosco un solo
triviale significato per questo gesto. Evidentemente ne deve avere più di uno
se anche costei lo usa. Ma ecco che ora gonfia le guance facendo poi uscire
tutto il fiato d'un colpo solo, dalle labbra semichiuse: sibilo o pernacchia?
Oh, cielo! che rivoluzione nei miei pensieri. Sibilo (= che rottura!) o pernacchia
(= scherno) che sia non si può dire che il tutto abbia consistenza celestiale.
Comunque la bella (si fa per dire) evidentemente soddisfatta della sua
sottolineatura da piazzaiola, continua:
– Tutti i chiamati
dovrebbero accorrere perché qualche gonzo si riunisce intorno ad un
tavolino – chissà perché – con tre gambe. La faccenda si ripete un
po' ovunque e più spesso di quanto tu non creda; ma la tua Accademia del cacchiolone ha superato ogni limite; per questo sono stata
mandata a por fine, una volta per tutte, a tali eccessi. Pian piano mi
presenterò ad ogni rompiscatole (parte merli e parte furbacchioni disonesti che
ne approfittano) affinché i vivi si occupino di questa loro Terra che,
poverina, ne ha un gran bisogno, e non cerchino di penetrare misteri
inaccessibili alle loro menti. –
– Ma a te, scusa,
chi ti manda? – Finalmente ce l'ho fatta ad incuneare la mia voce, molto
sicura mi accorgo con orgoglio, in una breve pausa della logorroica valchiria.
Purtroppo ella non risponde; con un grido corre verso la finestra chiusa
attraverso la quale sparisce. Confesso che rabbrividisco da capo a piedi, ma mi
guardo in giro ugualmente: la stanza è veramente vuota. Faccio appena a tempo a
rendermene conto che un secondo grido, uguale a quello lanciato dalla signorina
Rubicania, stavolta mi sveglia.
Che atterraggio, gente!
Mi accorgo subito che si tratta di quello stupidotto
di gallo livornese che vive nel cortile di sotto. Accendo la luce pensando che
sia l'alba; invece la sveglia dice che sono appena le due e mezza. Bisogna che
mi ricordi di dire al padrone del pennuto che gli dia una regolata: corre
troppo.
Credo che ormai non
riuscirò più a riaddormentarmi. Quel babbeo! (penso al gallo). Quel farabutto!
(penso ad Artemisio). Solo che pensando al primo sorrido
di tenerezza, pensando al secondo invece tremo d'indignazione.
Artemisio infatti è il Capo Sublime della Nobile Accademia
Metafisica. Un nome assai pomposo che venne creato per scherzarci sopra,
proprio come scherzavamo con il tavolino a tre gambe. Solo che ora la faccenda
è cambiata. E lo è da quando, proprio lui, il Capo, abbandonò i sentieri del
passatempo innocente per inoltrarsi in quelli più pericolosi dell'imbroglio.
Iniziò con dosi minime, dapprima. Che so: penso proprio che questo che noi riteniamo
un gioco sia invece qualcosa di molto serio. Oppure: non vorrei che mi
giudicaste male ma sono certo di possedere un fluido speciale. Ancora: sono
convinto che noi siamo in grado di scatenare forze straordinarie. E via
discorrendo.
Artemisio è piccolo, brutto, con il tipico colorito
giallognolo dei nottambuli che si lavano poco e male; ma è estremamente
intelligente e piuttosto simpatico. Uno che lo conosca solo in modo
superficiale può sentirsi subito preso da un senso di pena e di affetto per quello
sgorbio di natura. Tuttavia basta poco per scoprire che la natura con lui è
stata veramente poco generosa, ma non nel senso che si è detto, bensì per il
fatto che gli ha messo sul gobbo una tal laborfobia
da rovinarlo irrimediabilmente. E ciò viene complicato dal fatto che l'amico
ama con vera passione tutti i piaceri, dai più raffinati ai più grossolani, che
il denaro può procurare; e che inoltre ha un fisico che certo non gli apre le
porte delle tardone disposte ad avere il mantenuto.
Tentò di tutto. Tentò
persino lavori onesti che non duravano più di due settimane ad andar bene; ma
poi, esasperato perché il colpo gobbo non arrivava mai, eccolo ripiegare sullo
spiritismo.
Avrebbe incominciato con
il gruppetto dei fedelissimi, nel quale rimasi con la segreta speranza di
poterlo, prima o poi, teatralmente smascherare. Il gruppetto fedele chiamerò umo; e per Artemisio non era che
tale; fertile umo ma con un grande difetto:
quantitativamente irrilevante; del tutto insufficiente per i suoi sogni
grandiosi. Tuttavia il nostro sapeva accontentarsi scaltramente dell'uovo di
oggi in attesa della gallina di domani; così iniziò a gettare seme nel suo pugnetto di terra; a stiparvi seme, anzi, miscelato a
concime, sicuro che in seguito avrebbe potuto piantare in zona più ampia, più
acconcia le piantine che ne sarebbero spuntate.
Quella sera ci si doveva
riunire come facevamo regolarmente due volte per settimana. Riunioni alle quali
partecipavo con ostinato donchisciottismo sempre sperando che mi si presentasse
l'occasione di trarre in salvo quella manica di grulli. E quella sera stessa
dovetti accorgermi che la situazione mi stava sfuggendo di mano; gli eventi
precipitavano contro ogni previsione. Che avesse subodorato qualcosa il
gaglioffo? Forse sì perché stava abbandonando la sua tattica di ragno paziente ma
che, a mio avviso, ancora non gli conveniva. Difatti, appena ci fummo tutti, Artemisio entrò in argomento senza preamboli:
– Sarete d'accordo
con me, spero, che non si ottiene nulla a questo mondo, senza rischi. Chi si
sente di correr l'alea deve fare una cosa sola: abbracciare la nostra causa
incondizionatamente e pensarla sempre con la C maiuscola. –
Il bel mobile, piccolo
come abbiamo visto, dapprima pensò che, per tenere il discorsetto, fosse
sufficiente alzarsi sulla punta dei piedi, ma subito capì che non bastava. Un
attimo in forse se arrischiare la mossa; che poi arrischiò. Salì su una sedia,
allungò il collo come un galletto e riprese a parlare. Ah, il marpione m'aveva
preso in contropiede!
– Con questo intendo
dire che, una volta dichiarata la vostra fiducia nei miei confronti, il mio
agire sarà insindacabile. Anche se a voi parrà illogico, gratuito e così via,
non accetterò appunti né darò spiegazioni. – Tacque ostentando
un'espressione d'annoiata attesa.
Anch'io attendevo con la
stessa trepidazione, con la differenza che non riuscivo a dissimularla. Sperai
tanto che i presenti scoppiassero in una sghignazzata liberatrice; invece, dopo
appena pochi secondi di riflessione, all'unanimità risposero che erano d'accordo.
Dopo di che, per il mio piano, non potei che aggiungere il mio sì.
– Bene, –
approvò Artemisio.
Mai avrei creduto che in
un semplice bisillabo si potesse infondere una carica simile di sentimenti. Un
tono di grande sollievo, evidente almeno per me. Di ciò mi meravigliai, ma
subito mi fu palese che anche un impostore di tre cotte come quello può
allentare l'autocontrollo, talvolta. Nel frattempo Artemisio
era sceso dalla sedia e vi si era posto a cavalcioni con gli avambracci posati
sullo schienale, dopo averla girata. Sorrise tutto intorno girando quei suoi
assurdi occhi di ranocchia e riperse a parlare:
– Ed ora passiamo
subito al nocciolo della questione. Come già ebbi ad accennare ho scoperto di
possedere una grande forza; ma prima di prendere la decisione che esporrò ho
cercato, in tutta onestà, di veder chiaro dentro di me; alla fine ho capito che
le doti di un uomo, non essendo mai merito suo, è preciso dovere metterle a
disposizione dei propri simili. Non nascondo né a voi né a me che quanto sto
per dirvi presti il fianco alle polemiche, alle critiche più accese. Molti
furbastri invidiosi ci attaccheranno, siatene certi, ma la posta in gioco è
troppo alta perché ci lasciamo spaventare da questo. Per rintuzzare gli
attacchi tutt'altro che blandi che verranno sferrati ci arroccheremo nella
nostra sicurezza interiore. Tale atteggiamento ci eviterà di scendere sul piano
della discussioncella da caffè, della facile polemica
di ringhiera. Ignoriamo dunque la gentucola che vuole tutto spiegare
all'insegna della praticità e del tangibile. Se seguirete questi miei, oserei
dire ordini, sono certo che arriveremo in porto al grido di eureka. –
Di sottecchi, intanto
che quello parlava, facevo vagare lo sguardo sul volto degli astanti: tutti
pendevano dalle sue labbra. Io solo il budda? Vengono
di queste incertezze in simili circostanze. Le scacciai con malgarbo e fermezza.
Intanto il nostro amico si era schiarito la voce stringendosi il mento tra il
pollice e l'indice della mano sinistra in segno di profonda meditazione.
Riprese quasi subito:
– Tutto quanto ho
detto fino a questo momento non ha nulla di eccezionale: due chiacchiere tra
amici. Ora invece entrerò nel vivo del discorso perciò gradirei tutta la vostra
attenzione. È assai facile sentir parlare di spiriti che comunicano con il
nostro mondo mediante i più svariati sistemi; ma ciò che noi faticheremo non poco
a far accettare agli altri è che, per me, gli spiriti si materializzano,
diventano in tutto e per tutto creature in carne ed ossa. –
Brevissima pausa. Apnea
evidente. Il mascalzone stava per lanciare la sua bottiglia Molotov sulla
perfetta confezione della quale forse nutriva dubbi. Invece l'ordigno colpirà
l'obiettivo previsto lasciando le sue brave vittime sul terreno della
dabbenaggine.
– Questo è un fatto
credo unico, o almeno rarissimo.– Artemisio parlava
di nuovo ed io notai la sua gabbia toracica rilassarsi per l'emissione di tutto
il fiato che aveva trattenuto. – Perciò possiamo ritenerci dei
privilegiati. Nonostante ciò non possiamo pretendere che tutto ci venga donato;
in cambio ci si chiede qualche sacrificio. All'apertura di questa seduta ho chiesto
la vostra fiducia incondizionata, ed ora capirete il perché ascoltando le
strabilianti avventure che mi sono capitate. Ne racconterò un paio soltanto:
basteranno, anche se potrei narrarne almeno una decina. Voi sapete che qui io
vivo solo da quando ho rotto con i miei genitori i quali, mi rincresce dirlo,
fanno parte di quella gentucola di cui dicevamo prima: nessuna ambizione
intellettuale, idee ristrette, niente voli di fantasia, ma solo gretto
attaccamento a quello che per loro è moralità e buon senso. Scusate, –
mormorò a questo punto. Mise una mano in tasca da cui trasse un fazzoletto non
certo di bucato, girò la testa e si soffiò il naso.
Mossa abilissima,
giudicai con dispetto. Senza cadere in plateali esibizioni offrì agli astanti
un'alternativa di giudizio: o aveva veramente bisogno di soffiarsi il naso,
oppure aveva nascosto, per grande dignità, la commozione che gli aveva bagnato
gli occhi. Si rigirò, rimise in tasca la pezzuola e riprese:
– Dicevo dunque che
vivo solo in questo sordido seminterrato non certo adatto ad un tipo come me
che possiede, non per merito mio, sia ben chiaro, le qualità eccezionali cui ho
appena accennato. State a sentire e giudicate voi stessi. L'altra notte dormivo
tranquillo quando un deciso colpo sulla spalla mi svegliò. Aprii gli occhi e
vidi accanto al letto un magnifico giovane, alto, fattezze armoniose,
capigliatura folta e bruna, naso perfetto, bocca ben disegnata. Un adone,
insomma. –
Di mano in mano che Artemisio procedeva nella sua descrizione si accalorava tutto
abbassando e rialzando le palpebre sugli enormi occhi da ipertiroideo e
forbendosi, con l'indice e il pollice della destra, le bollicine di saliva che
si andavano ammassando agli angoli della bocca (che sia anche finocchio, sotto sotto? – pensiero fulmineo).
– Lo guardavo
naturalmente sorpreso, ma, per quanto possa sembrare incredibile, assai meno di
quello che ci si potrebbe immaginare. L'apparizione parlò. La sua voce era
calda, armoniosa ma profonda e mascolina. "Innanzitutto," iniziò
sbrigativamente, "ti dirò che mi chiamo Cadabadi
e non sono uno spirito terrestre. In questa faccenda siamo in tre. Tre
scienziati marziani periti in una missione scientifica che aveva come obiettivo
il vostro Pianeta. Ad un certo momento, per un guasto imprevedibile (un minimo
di imprevedibilità, di caso come lo chiamate, esiste anche da noi), la nostra
navicella spaziale si inabissò nel Pacifico. Nessun terrestre ebbe sentore di
questa sciagura perché, prima di inabissarci facemmo funzionare un dispositivo appositamente
studiato affinché tutto si riducesse in polvere. Nel caso specifico quindi
tutto si sciolse nelle acque oceaniche. Questo per quanto riguarda il nostro
mezzo di trasporto, mentre per noi, nel caso di sciagura, era stato predisposta
una esistenza particolare; ossia, avremmo continuato a vivere come esseri
totalmente invisibili e senza i vostri bisogni per la sopravvivenza. In tal
modo possiamo svolgere il compito per il quale fummo mandati, quello cioè di
aiutare voi terrestri ad alleviare le vostre sofferenze e difficoltà. E lo
faremo mediante questa Accademia. Tu sarai il nostro indispensabile
intermediario. Per questa volta ti basti quanto ti ho detto. Ora a te il
compito di riferirlo in modo convincente ai tuoi compagni. Arrivederci. Ah,
dimenticavo: non credere alle mostruosità con le quali alcuni disegnatori
vostri cercano di rappresentarci. Noi siamo come la media di voi terrestri in
quanto ad aspetto fisico. Arrivederci di nuovo." Ecco quanto disse il
marziano; e prima che riuscissi ad aprir bocca mi trovai nuovamente
solo. –
A questo punto non capii
se si levò un mormorìo interessato perché il
narratore aveva fatto una pausa o se Artemisio aveva
smesso di parlare perché s'era levato il mormorìo.
Propendo per la prima ipotesi per via del sorriso di trionfo mal trattenuto che
stirò le labbra del mascalzone, il quale, con un gesto della mano da oratore
consumato chiese e ottenne silenzio, quindi azzardò un paio di frasi, secondo
me piuttosto pericolose. Ma gli andò bene.
– Buoni, buoni. La
nonna vi promette di continuare a narrare la favola meravigliosa a patto che
non interrompiate più. – Il sorriso svanì vinto dalla tensione che si
manifestò nell'indurimento dei muscoli facciali.
– Come mi aveva
promesso, Cadabadi tornò con i suoi amici, belli e
aitanti come lui anche se naturalmente di aspetto diverso. Mi si
materializzarono al fianco, del tutto senza preavviso, mentre mi trovavo al
Baby Bar, a quell'ora quasi deserto. Gli sgabelli di lato a quello che occupavo
erano vuoti ed io attendevo che il barista mi servisse. All'improvviso mi parve
di sentire vicino a me una presenza; ma invece di girarmi guardai nello
specchio di fronte e li vidi: i due che ancora non conoscevo mi stavano uno per
lato, mentre il nostro Cadabadi stava alle mie
spalle. "Non preoccuparti", attaccò subito quest'ultimo,
"nessuno può né udirci né vederci. Consuma il tuo cognac in tutta
naturalezza poi usciremo". Eseguii a puntino, ma fu una vera dura lotta
quella che sostenni contro la tentazione di ingollare tutto d'un fiato e precipitarmi
in strada. Nel frattempo muovevo gli occhi in tutte le direzioni: non riuscivo
a convincermi che io potessi vedere i tre in carne ed ossa mentre restavano
invisibili a tutti gli altri.
Finalmente giudicai di poter uscire. Appena lo
capirono, senza che io avessi fatto il benché minimo cenno, i tre si
incamminarono ed io, dopo aver pagato la consumazione con un saluto al barista,
li seguii senza nulla chiedere. Notai che puntavano decisi verso piazza Tebaldo Brusato, spiegandomi che
la conoscevano bene e che era ideale per la tranquillità che offriva. Qui,
seduti su una panchina, all'ombra profumata dei grandi tigli che tutti
sappiamo, si presentarono: Gélemo e Còluas. Questi i nomi dei due nuovi. Come si scrivano non
saprei. Cadabadi mi spiegò che aveva italianizzato la
pronuncia dei loro tre nomi per rendere più scorrevole il nostro conversare.
Nel paio di ore che seguì venni a conoscenza di notizie straordinarie. Ad
esempio mi assicurarono che i Marziani hanno raggiunto una tal perfezione tecnologica
per quanto riguarda l'edilizia e i mezzi di trasporto che i nostri grattacieli
spariscono al confronto e le nostre automobili, treni, aerei sono poco più che
giocattoli. Ma quello che ci interessa di più è il campo della medicina. Il
cancro è stato vinto da un secolo, l'artrite e il raffreddore non esistono più
ed i virus e bacilli che a noi fanno ancora paura, lassù sono stampati soltanto
nei testi scolastici. Vedendo tutti gli sforzi inutili della nostra scienza i
tre Marziani hanno deciso di aiutarci asserendo che la nostra farmacopea è
sufficiente per vincere la battaglia. Tutto sta a trovare la formula per
mischiare nelle giuste dosi le sostanze che già sono in nostro possesso. Ciò mi
verrà svelato un poco per volta, in occasione di varie sedute di cui
decideranno luogo e data. Ma le promesse non finiscono qui. Se dimostreremo di
fare buon uso delle loro rivelazioni e di avere tutta la pazienza che occorre,
in un prosieguo di tempo ci sveleranno la formula per leghe e propellenti
rivoluzionari, nonché le loro conquiste in campo gerontologico. Che ve ne
pare? –
Mi venne subito da
chiedere se i suoi amici marziani erano immortali, ma tacqui perché non volevo
mostrare troppo apertamente la mia ostilità. Sperai che lo facesse qualcun
altro; purtroppo nessuno parlò. E poi sono convinta che Artemisio
avrebbe trovato subito una spiegazione da non stare insieme nemmeno con la
colla più tenace, ma che avrebbe convinto tutti perché non chiedevano che di
essere fatti fessi. Che so, una spiegazione di questo tipo, ad esempio: Anch'io
ho posto questa domanda perché è la prima che viene alla mente, ed essi mi
hanno risposto che non sono immortali, anche se la loro età media supera i due
secoli, però praticano tranquillamente l'eutanasia di modo che anche il
problema della morte è risolto nel senso che essa non fa assolutamente paura
come da noi. Questo o qualcosa di simile avrebbe detto. Mentre pensavo ciò non
persi una sola sua parola tenendogli gli occhi addosso e all'ultima domanda
così impegnativa mi parve che il dritto si sentisse appeso ad un cappio pronto
per essere stretto. Guardò tutti, ad uno ad uno, con un sorriso dalla chiave di
lettura univoca: "sincero". I presenti manifestarono tutti insieme il
loro entusiasmo pronunciando oh, ah, incredibile, bello, con tanti punti
esclamativi. A questo punto il nostro, che per tutta la sera aveva
puntigliosamente evitato di guardarmi, rinfoderò il suo sorriso ed aggrottò le
sopracciglia. Evidentemente gli rimaneva da sparare l'ultima bordata che
intuivo essere la struttura portante di tutto il suo piano. Da qui l'assoluta
necessità di ponderare bene ogni mossa. D'altra parte sapeva di doverlo fare
prima che il ferro gli si intiepidisse tra le mani. Attendevo con trepidazione
aspettandomi un'offensiva di grande potenza. E così fu.
– Con piacere noto
che tutti avete capito il valore di ciò che abbiamo tra le mani; quindi passerò
senz'altro alla conclusione sicuro che non vi lascerete fuorviare dalla sua
apparenza equivoca. Errore, mi rendo conto, tutt'altro che grossolano in cui,
anche il meno meschino di voi può cadere. –
Artemisio si strinse il mento nel suo solito modo fissando
il vuoto per lunghi secondi.
– Ecco, –
riprese alla fine senza distogliere lo sguardo da un punto imprecisato della
parete di fronte a lui – mi introdurrò con tre paroline: do ut des. Fino al mio incontro straordinario le pensavo solo
alla base dei rapporti umani; ma ho dovuto ricredermi; infatti anche i nostri
tre amici hanno posto la loro brava condizione. Piuttosto deludente, direte
voi. È quello che ho pensato anch'io. D'altra parte non ci sono alternative:
prendere o lasciare. La condizione da loro posta è questa: io dovrei
tralasciare ogni mia attività per tenermi a loro esclusiva disposizione.
Inoltre dovrei poter servirmi di un buon mezzo di trasporto personale per
spostarmi da un capo all'altro dell'Italia, o addirittura all'estero, a seconda
del luogo che a loro piacerà di scegliere per i nostri incontri. Del tutto
illogico; lo pensai subito quando me ne parlarono; ma mettetevi nei miei panni:
come avrei potuto farglielo notare? A questo punto si tratterà, tra voi e me,
di un puro accordo commerciale. Ho già fatto dei calcoli approssimativi, che
potranno essere discussi e messi a punto. Voi siete in sette e tutti potete
disporre di uno stipendio discreto. Facciamo conto di voler fondare una
società; che ne dite di investirne il quindici per cento? Questa somma corrisponde a quanto guadagnerei
io con un lavoro dignitosamente pagato; e disponendo di essa potrei essere
completamente libero, a completa disposizione dei nostri amici. Non occorre
essere geni dell'alta finanza per capire che questo vostro investimento vi
frutterebbe, in breve tempo, o forse non tanto breve, dipende, il mille, il
duemila per cento… A voi la decisione…
subito. – S'era fatto ardito dando alla corda uno strattone così
sapientemente dosato che essa si tese al limite, senza tuttavia che le sue
fibre dessero segno del minimo logoramento: il terribile mostriciattolo aveva
puntato, in un sol colpo, su vanità, cupidigia, mancanza del coraggio delle
proprie idee, dabbenaggine. Io m'ero stretta le mani in grembo e le guardavo
con ostinazione, per darmi un contegno. Con gioia estrema notai che l'umo pareva titubare. Più che logico: il portafogli è un
argomento delicato, scottante per tutti. Era lecita la speranza? La
disillusione venne quasi subito: fu sufficiente l'"io ci sto" del più
ebete della compagnia perché tutti gli altri gli facessero eco.
– Bene, –
sussurrò Artemisio; e il sospiro di sollievo fu
udibile: il cuore era sceso dall'aspo.
– E tu? – la
domanda era rivolta a me. Stringendo i denti diedi la mia adesione
costringendomi anche a guardare quell'essere alla cui vista provavo lo stesso
ribrezzo che poteva farmi una blatta, una scolopendra; ma m'imposi di sorridere
serafica e rispondere:
– Be', certo che ci
sto. –
– Mi pareva che non
fossi molto persuasa. Scusami, tutti possono sbagliare. –
Dopo di che l'amico ci
congedò accusando un gran mal di testa e riconfermando la solita riunione di lì
a tre sere, durante la quale, annunciò, si sarebbe messo in comunicazione con i
tre Marziani, dandoci la prova della sua onestà.
Il metodo per chiamare gli spiriti era uno dei più diffusi:
tavolino competente che batteva tanti colpi di piede a seconda del posto
occupato nell'ordine alfabetico delle lettere formanti la risposta, e mani dei
presenti legate a catena: mignolo dell'uno contro mignolo dell'altro e pollici
dello stesso proprietario uniti tra di loro. Per il piano che ero riuscita
finalmente a ideare avrei dovuto tenermi libera una mano. Niente di meglio che
una fasciatura ingannevole nel suo aspetto di autenticità, ma fatta in modo
tale da poterla togliere e rimettere come un guscio.
E venne la sera
fatidica. Confesso che discesi i pochi gradini viscidi di umidità che portavano
al locale di Artemisio, con il batticuore. Avevo
calcolato un ritardo tale da non cadere nella mancanza di riguardo, ma che non
desse agio ai presenti di interessarsi troppo della mia mano. Per me era
scontato il fatto che mi sarei seduta al mio solito posto, ossia proprio in
corrispondenza di una delle tre gambe del tavolino. Nel mio piano questo era
fondamentale. Mi sarei scusata di dover usare una sola mano, disponendo così
dell'altra che avrei liberata agevolmente dalla fasciatura tenendo questa
stretta tra le ginocchia, dopo di che tutto avrebbe camminato da solo. Messo a
punto il mio piano mi ero divertita ad immaginare la faccia di Artemisio quando si fosse accorto che non poteva più muovere
la gamba del tavolino con le ginocchia come aveva imparato così bene a fare.
Non mi illudevo di convincere la ciurma ad un ammutinamento immediato; il mio
piano prevedeva solo di seminare un ragionevole dubbio in quelle menti
ottenebrate. Il seguito era affidato al loro buon senso.
Purtroppo fui presa in
contropiede. Fu un colpo tremendo: mai avrei immaginato che la furbizia e
l'intelligenza di quello sgorbietto arrivassero a
tanto.
Successe che, non appena
entrai nel locale, vidi il mio posto occupato dal babbeo della compagnia. Mi
ripresi alla bell'e meglio guardando dritto in faccia il mio antagonista e
chiedendogli, mi parve con discreta disinvoltura, dove avrei dovuto sedermi.
Dal suo sorriso sardonico come non gliene vidi mai, dal suo silenzio che protrasse
per alcuni secondi lunghi come la fame, capii che stava assaporando il suo
trionfo, mentre io dovevo rassegnarmi a veder crollare il mio castello.
– Come mai quella
mano fasciata? –
Alla fine Artemisio s'era deciso a parlare.
– Un taglio
profondo con il coperchio di un barattolo di pelati che stavo aprendo, –
risposi come lo prendessi sul serio. – Ho dovuto addirittura ricorrere al
pronto soccorso: due punti di sutura. – Mi uscì bene perché l'avevo
preparato in precedenza. Vi fu un corale mormorìo che
poteva essere interpretato in vari modi: sapevo di non godere alcuna simpatia
da parte dell'intero gruppo. Con il mio scetticismo, più o meno manifesto,
impedivo loro di sognare. Riprese Artemisio:
– Stando così le
cose dovremo rimandare la nostra seduta. Non che non si possa fare, ma ci
dispiace che tu non vi possa prendere parte attiva. No? –
Parlando mi si era
avvicinato e, con mossa fulminea, mi strappò la fasciatura che gli restò in
mano assai facilmente come congegnato a bella posta; solo che la mano che ora
teneva l'involucro non erano le mie gnocchia. La
sorpresa fu tale che non riuscii a dire una parola rimanendo
stolidamente a fissare il nemico, il quale stava simulando, a sua volta,
profonda sorpresa.
– Ma guarda guarda! Caspita, si direbbe che al pronto soccorso non
lavorino 'sto gran bene. Che ve ne pare? – Il piccoletto andava mostrando
in giro le mie povere bende. Infine, rivolgendosi nuovamente a me, invitò
mellifluo:
– Ti converrebbe
infilarla alla svelta, sai? Dopo tutto il pericolo della setticemia non è da
sottovalutare. –
Io ero avvampata di
rabbia, ma anche di vergogna, presa di mira com'ero, da sei paia d'occhi, più
quelli del protagonista, dallo sguardo ostile e sarcastico insieme. Fissando Artemisio con tutta la dignità che riuscii a racimolare
esclamai:
– Hai vinto.
Purtroppo però dovrai aumentare di un settimo il tuo quindici per cento
stabilito per ciascuno. Ma immagino che questo l'avessi già previsto: con la
tua furbizia non credo che tu abbia pensato di poter spillare quattrini anche a
me per fare vita comoda. –
Senza salutare infilai
la porta non riuscendo a non sbattermela meschinamente alle spalle.