Il compagno P…ericle

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

Gran brav'uomo il compagno Pericle. Un po' fanatico, magari, un bacchettone del picì, ma commovente per la sua chiara fiducia nell'avvento di un mondo migliore.

L'avevano divelto dalla campagna trapiantandolo in città a dirigervi la Federbraccianti. Dall'oggi al domani, dunque – ovviamente aveva già fatto l'attivista ma senza grosse responsabilità – s'era trovato a sedere dietro un'autentica scrivania con una segretaria nemmeno brutta ai suoi ordini.

Da quel giorno espletò le sue mansioni in modo lodevole e da ciò bisogna dedurre che stupido non era. A due cose soltanto durò una certa fatica ad assuefarsi, tanto che fu necessaria una vera e propria riunione di partito; ma essendo Pericle dotato di uno spirito largamente aperto all'autocritica si poté ovviare anche a questi inconvenienti.

L'uno era il fatto che il compagno P. (come lo chiamavano tutti dopo quel famoso film) non riusciva mai ad accostarsi all'orecchio, dalla parte giusta, la cornetta del telefono. A suo dire, come l'aggeggio infernale trillava, veniva preso da una specie di convulso che gli impediva di coordinare i movimenti. Fatto che egli tentò di spiegare in modo nebulosamente freudiano legandolo a quella volta quando, da piccolo, con tutta la famiglia, fu salvato per un pelo da un incendio che distrusse un intero cascinale. Pericle non dimenticò più il lugubre suono della campana a martello, che sempre veniva usata in casi d'incendio; suono reso ancor più sinistro dal silenzio cupo delle ore notturne. Accostamento assurdo anche perché all'epoca degli incendi annunciati con la campana a martello, gli apparecchi telefonici non erano certo alla portata d'orecchie delle famiglie del tipo di quella di Pericle. Ma l'inusuale caparbietà di quest'ultimo aveva trovato una spiegazione: visto che ora per annunciare qualsiasi cosa si ricorreva al telefono, chi gli garantiva che un suo squillo non venisse a dirgli che stava bruciando casa sua con dentro moglie e figli? Diciamo che come teoria era piuttosto macchinosa e stupiva il fatto che ad elaborarla fosse stata la mente lineare del compagno Pericle; ma chi non crede alla complessità della psiche umana scagli la prima pietra.

L'altra cattiva abitudine consisteva nel fatto che l'uomo non riusciva a depositare civilmente i mozziconi di sigaretta nel portacenere. Per disfarsene adottava un sistema abbastanza elaborato, monellesco. Li posava sull'unghia del pollice che faceva combaciare al polpastrello dell'indice posto in senso ortogonale e poi zac! Facendo scattare il pollice con un colpo secco come una catapulta il proiettile partiva veloce, ma mai nella direzione che il lanciatore gli aveva voluto dare; ossia un posacenere a stelo posto tra le due scrivanie; la sua e quella della segretaria, con la quale il nostro divideva democraticamente l'ufficio. Anche qui il fatto stupiva perché, dopo così tanto tempo, l'uomo avrebbe dovuto avere il pollice del cecchino.

Purtroppo la maggior parte delle volte colpiva la ragazza, la quale, essendo piuttosto sul paranoico, si convinse che il compagno capo lo faceva di proposito sotto la spinta di un esagerato senso della lotta di classe, dato che il padre di Amelia (si chiamava così la ragazza, era impiegato comunale e non salariato agricolo. In tali termini espose il problema al capo supremo della Federazione. Saltò immediatamente agli occhi che, se così fosse stato, Pericle contravveniva vergognosamente alla politica del Partito.

Vista in tal modo la faccenda incuteva non poca apprensione  Da qui l'urgentissima riunione plenaria dove l'incriminato accettò ogni addebito, convinto e contrito, promettendo formalmente di guarire per il bene del popolo. E di lì a poco guarì realmente. Non già perché migliorò la mira - questo va detto per amor di verità - ma perché, quando doveva gettare una cicca, la deponeva delicatamente nel posacenere che era stato posto sulla scrivania Il merito era grande e le sue azioni salirono immediatamente di molti punti. Tanto che con le prossime elezioni politiche si ventilava che avrebbe potuto diventare onorevole.

Tale eventualità impegnava molto e necessitava di una adeguata preparazione. Manco a farlo apposta il Partito, nella regione, stava attraversando un periodo duro. Potere perciò presentare al pubblico quel prodotto fatto di materiale inossidabile era occasione da prendere al volo. Tuttavia, per quanto l'erudizione (da molti superficiali identificata con l'invisa cultura borghese) fosse ritenuta superflua, il fatto che il compagno P. ignorasse profondamente tutto quello che non riguardava i problemi della Federbraccianti, dava non poche preoccupazioni.

In un'altra riunione, limitata ai tre o quattro grandi, si decise di usare l'uomo nell'imminente campagna propagandistica, in qualche paesotto di provincia. In tal modo si sarebbe familiarizzato con il linguaggio dei comizi e con le moltitudini.

E Pericle andò, felice com'è facile immaginare, ben deciso a non lasciarsi smontare da nulla e da nessuno. Il panico delle platee? Qualcuno, nel lodevole intento di premunirlo, gliene aveva parlato; ma il nostro lo aveva zittito con un quasi infastidito cenno della mano:

– Roba da reazionari – aveva sentenziato. – Io vado semplicemente a parlare ai miei compagni lavoratori sfruttati dicendo quello che ho dentro il cuore. –

La piazza del piccolo paese è gremita. Tutto è pronto: il palco imbandierato, il microfono bene in vista, gli altoparlanti dislocati nei punti strategici.

Il compagno P. entra in piazza dal lato sud, a bordo della giardinetta della Federazione (esiste anche una millecento ma non si sognerebbe mai di volerla per sé). Parcheggia l'auto in un angolo e compie il resto del tragitto a passo di carica, tanto che i compagni responsabili della Sezione del paese fanno fatica a tenergli dietro. Una specie di marcia trionfale sottolineata dall'Inno dei Lavoratori che i quattro punti cardinali, a mezzo del proprio altoparlante strategico, vanno immettendo nelle orecchie degli astanti. Ora ha salito i pochi gradini di legno e si piazza in mezzo al palco allestito per l'occasione. Si capisce che, a mala pena, può contenersi nei suoi panni ed è un vero piacere osservarlo e seguire i suoi pensieri che si riflettono ad uno ad uno, sul viso onesto ed entusiasta. Con sicurezza Pericle afferra il microfono per portarselo all'altezza della bocca; ma lo fa con un gesto così violento che minaccia di danneggiare l'impianto. Fulmineo il compagno elettricista accorre in suo aiuto: bisogna stare in guardia perché la reazione attende al varco. L'oratore, per nulla turbato, si schiarisce la voce, saluta a pugno chiuso prendendo contemporaneamente a parlare:

– Cittadini, amici, compagni… – E qui una bella pausa ad effetto anche se l'entità dell'enunciato non lo richiederebbe ancora. Ha comunque l'accortezza di riprendere quasi subito:

– Stasera avete l'onore di avermi tra voi con la mia indiscutibile fede. –

Infelicissimo esordio. Certamente Pericle intendeva dire che per il Partito era pronto a dare la vita; ma va a farlo capire a chi fa di tutto per non capirlo! Difatti, dal gruppo dei reazionari seduto comodamente davanti al Caffè Impero a pochi metri dal palco, inalberante un'aria di sufficienza e di strafottenza che lévati, parte un nutrito mormorìo di derisione che farebbe arrossire molti; ma non il nostro il quale sa che ogni apostolato è duro. Così continua a parlare riscaldandosi di mano in mano. Bisogna dire che il suo eloquio è abbastanza buono e non inciampa quasi mai in periodi sospesi o in termini inesatti limitandosi ad esporre le conquiste della classe lavoratrice con particolare riferimento alla sua categoria. Alla fine pensa di chiudere in bellezza con una frase ad effetto:

– Sappiate compagni e amici, che ormai nessuna forza potrà più spezzare la nostra unità, e se qualche reazionario guerrafondaio tenterà di ostacolare la nostra marcia verso l'uguaglianza e la libertà, faremo sentire la nostra forza a costo di prenderli a calci nelle clavicole. –

Dai tavolini antistanti il Caffè Impero si alza un gran vocìo. Sono coloro che conoscono il significato del termine clavicole e che non si lasciano sfuggire l'occasione per sollevare una settaria tempesta nel classico bicchier d'acqua. Intanto il gruppo dei ricchi ignoranti, pregustando un eventuale dibattito (o rissa verbale) a danno di quegli illusi "trinaricciuti senza Dio", si serra intorno alle sue guide spirituali pronto ad appoggiare incondizionatamente tutto ciò che esse faranno o diranno.

– Ragazzi, avete udito? Pazzesco!! Inconcepibile!! –

Chi parla è l'avvocato Scaboldi che nutre profonda fiducia nei punti esclamativi. Egli è tenuto in gran rispetto ed è considerato il filosofo della compagnia perché s'è preso il disturbo di leggere Al di là del bene e del male, Il Gesuita proibito, Totem e tabù, e forse qualcosina d'altro; ma soprattutto s'è preso il disturbo di sbandierarlo e di gonfiare il tutto quasi fino a farlo scoppiare, in modo che altri pensino che solo poche menti elette possono giungere a tanto.

– Quel buzzurro, ha detto clavicole. Ah, ah, ah… –

Ad ogni scoppio di ah si batte le mani sulle ginocchia in modo che ne esca una specie di accompagnamento in chiave di basso. Calmatosi un tantino si asciuga le lacrime dal ridere con la destra, mentre con la sinistra bada a rimettere a posto la piega impeccabile dei pantaloni che si può gualcire con tutte quelle manate. Poi il forense riprende la sua esibizione oratoria cercando di allungare il collo cortissimo in modo che non risulti così incassato nelle spalle. Di questo difetto si è sempre molto crucciato, così come della bassa statura. Per tal ragione odia i fusti asserendo che "in tanta soma non può trovar posto la materia grigia". Tutta invidia perché dentro di sé è convinto che la prestanza fisica abbia molta importanza per primeggiare nei tribunali. Un conto è che un'arringa venga sparata a poco più di centocinquanta centimetri dal suolo e un conto è che venga sparata da trenta o quaranta centimetri più in alto. Così l'avvocato Scaboldi che, statura o no, era fermamente deciso a conquistarsi un posto nel mondo, escogitò due espedienti per emergere o, quanto meno, per non farsi sopraffare: il vestirsi con raffinata eleganza sempre e ovunque (aveva ricavato da ciò la sigla ESO. "Io sono un ESO", soleva ripetere posando alla D'Annunzio e sentendosi un irresistibile originalone) e il parlare senza soluzione di continuità. Piuttosto di rimanere muti davanti all'antagonista è preferibile dire anche sciocchezze – altra massima in cui credeva fermamente.

È chiaro che Pericle con clavicole ha inteso dire caviglie e che la maggior parte dei presenti non ha nemmeno notato lo svarione. Ma la reazione, sempre in agguato, per bocca del leguleio, sfrutta in perfetta malafede la situazione sferrando l'offensiva con una sostanziosa salva di fischi e di frasi ingiuriose. Scaboldi ha gettato il seme ed ora si aggiusta comodamente sulla sedia per coglierne i frutti. È talmente soddisfatto di sé che gli angoli della bocca gli tremano e dura gran fatica a contenersi.

Prima il fittavolo Mandelli, alto, un po' flaccido, tra i quaranta e i cinquanta, dalla pelle rossa, quasi albino, soprannominato il Bue d'oro. Per ovviare all'inconveniente di una voce sottilissima mette le mani ad imbuto intorno alla bocca e lancia, cattivo:

– Vai ad arare, pezzo d'imbecille! – Guardando verso Scaboldi gli strizza l'occhio ansiosamente, mendicando approvazione. L'intellettuale gli regala appena un sorrisetto stitico che solo la consapevolezza di dover restare uniti nella lotta contro il nemico rosso l'aiuta ad abbozzare. Ma al Bue d'oro va ugualmente bene.

Dopo questo esordio l'intero gruppo dei reazionari urla a turno:

– Impara prima a parlare, boaro! –

– Tornatene in campagna che è meglio, mungitore di tori! –

– Pulisciti le scarpe che hanno ancora su il letame, mandriano analfabeta! –

Come si può immaginare finisce in un tafferuglio con contusi mica male, tanto che deve intervenire la forza dell'ordine.

In seguito a questo episodio doloroso si stimò più prudente non presentare la candidatura del compagno P. per le prossime elezioni politiche. Tuttavia il Partito ce l'aveva sempre buona con lui, dimostrando di saper distinguere l'oro dall'orpello; e per mostrargli che era sempre stimato e stimabile lo mandò per un viaggio-premio in Ungheria.

Così l'apostolo partì per quella che egli chiamò assai pittorescamente la Magiaroperazione.

Tornò dopo quindici giorni talmente entusiasta, talmente effervescente che avrebbe potuto posare per una Trasfigurazione. E da quel momento compagno P. venne sostituito con Pericle il Magiaro.

Non era raro vederlo concionante ed esaltato in mezzo ad un capannello di gente:

– In Ungheria, come in genere in tutte le Repubbliche Socialiste, non si trova più nessuno malinconico o preoccupato. Ormai i compagni lassù hanno aggiustato le cose in modo da aspettarsi solo gioie dalla vita. Ad ogni bisogno dei cittadini provvede lo stato ed ogni cittadino è contento di lavorare per la comunità. –

Vi fu una volta in cui dal gruppo degli ascoltatori una voce ironica si levò gridando allegramente:

– Ehi, Magiaro, si troverà bene qualcuno che piange lassù. O i compagni ungheresi hanno eliminato anche la morte? –

Il nostro non si scompose: era fin troppo chiaro che si trattava di un provocatore mandato dal nemico; raccogliere insinuazioni così stupide sarebbe stato controproducente; perciò Pericle il Magiaro si limitò a guardare quel povero cieco strumentalizzato con uno sguardo da incenerire una salamandra.

Nonostante questi sporadici attacchi tuttavia (ve ne fu qualche altro simile), grazie alla Magiaroperazione il Partito rimontò riguadagnando le posizioni di prima della crisi regionale di cui s'è detto. Molta gente che, fino a quel momento era vissuta nell'agnosticismo più vergognoso, si era lasciata convincere dall'onestà di Pericle incorruttibile e diamantino. Se egli asseriva che nei Paesi a regime comunista si stava bene così doveva essere.

Non fu gloria duratura. Una mattina il Magiaro si trovava nel suo ufficio situato al primo piano del palazzo, che era stato sede della federazione fascista, e si accingeva ad affrontare una feconda giornata di lavoro, quando udì all'improvviso un gran vociare, non proprio pacifico, sotto la sua finestra. Tra curiosità e fastidio il tapino si affacciò… e subito venne rigettato all'indietro come quella volta che, ragazzino, durante un bombardamento, fu sbattuto su un provvidenziale mucchio di fieno a cinque metri di distanza dallo spostamento d'aria. Un impatto da non dire: questo gli venne subito alla memoria.

Non seppe mai quante e quali erano le persone ammassate di sotto; capì solo che, appena aveva messo fuori la testa, esse avevano aumentato l'audio. Tra tanta confusione qualche frase gli giungeva chiara: ce l'avevano con lui, lo minacciavano; i più volgarotti sghignazzavano appellandolo magiaro di merda e simili, dichiarando inoltre che avrebbero messo "qui" la tessera del partito. Il poverino, in questi casi, tra la nebbia che gli offuscava il cervello, riuscì solo a vedere in modo chiaro la tessera appoggiata alla patta dei pantaloni del protestatario.

In Ungheria era scoppiata quella rivolta che fece parlare di sé tutto il mondo.