Gli istanti buoni

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

Clarissa si fece scattare l'inevitabile foto ricordo davanti al Casinò; dopo di che si affrettò a deporre la macchina fotografica. Era tanto un vecchio modello che si vergognava sempre un poco a maneggiarla in pub­blico da quando un cretinotto le aveva chiesto se l'a­veva trafugata da una tomba etrusca. D'altra parte, visto che non poteva procurarsi un apparecchio miglio­re e che non avrebbe rinunciato per nulla al mondo ad impressionare almeno una pellicola durante questo viag­gio a lungo sognato, scosse le spalle accingendosi a godere fino in fondo la camminata lungo la Promenade.

Clarissa era una ragazza piena di inibizioni; era inoltre di un pessimismo nero che lei voleva far passare per cinismo; ma questo le riusciva solo in teo­ria; in pratica era sempre pronta ad entusiasmarsi e a illudersi quando proprio non sarebbe stato il caso. Salvo poi ad uscire da ogni cantonata con una cicatri­ce in più, che la sua ostinata memoria riapriva, facendola di nuovo piaga ad ogni minimo pretesto. Scherzando Caio soleva dire che l'anima di Clarissa doveva essere tut­to un mosaico di ogni epoca e di ogni colore. Di ciò il suo viso risentiva – sempre secondo Caio – assumendo l'aspetto stabile d'una maschera tragica. Ma in questo esagerava, lo diceva solo per fare dello spirito ad ogni costo: al contrario, l'aspetto esteriore, il comportamento facevano di Clarissa una ragazza brillante e semplice; e ciò le accattivava molte simpatie.

Due grandi passioni aveva; e la speranza di poterle realizzare prima o poi le rendeva la vita sopportabile; molto spesso addirittura degna di essere vissuta: pubblicare quanto scriveva (narrativa e poesia) e viaggiare.

Il secondo desiderio era meno chimerico. Difatti ora stava andando per tre giorni di vacanza a Marsiglia (solo un assaggino, certo: che cos'era mai Marsiglia rispetto ad America, Africa, Asia?); tre giorni che imma­ginava meravigliosi pure se era già programmato che avrebbe consumato panini seduta su qualche panchina e sonnecchiato, durante l'ultima notte, nella stazione sempre sul chi vive per via tutti quei coloniali dallo sguardo infido e di tutta la feccia tipica delle grandi città di mare.

Ecco l'alba finalmente con il treno che avanza pigro per fermare il muso a capo del binario. Un treno che si forma proprio lì, a Saint Charles, ma che sarebbe partito solo fra un paio d'ore riportandola in Italia. Quanta confusione di razze e di lingue, di ru­mori e di voci, di colori e di odori! Una bazza. Pur di poter depositare i glutei sul sedile di un vagone fer­roviario e di farsi scarrozzare, Clarissa era disposta a sopportare quasi tutto.

Prese posto in uno scompartimento ormai quasi al completo, e non senza fatica tra tanta confusione di passeggeri e bagagli, e tentò di dormire senza riuscirvi. Quando il treno finalmente si lasciò alle spalle le ultime propaggini della città, il sole era già alto. Le ossa indolenzite, cascante di sonno, la viag­giatrice si adagiò contro lo schienale e chiuse gli oc­chi: non potendo dormire si sarebbe abbandonata ad una indicibile beatitudine – la conosceva e la desidera­va tanto – a cui quel bailamme di voci e di rumori avrebbe fatto da accompagnamento. Erano gli "istanti buoni", rari momenti preziosi in cui si sentiva comple­tamente soddisfatta, in cui l'ansia febbrile e la pau­ra del domani che la tenevano sempre sotto pressione, si allentavano fino quasi a scomparire, lasciandola così a galleggiare in uno stato che si poteva definire felicità. La sua droga: ecco che cos'era, per lei, il viaggiare.

Un trapestìo le fece aprire gli occhi, così notò che nello scompartimento era entrato un signore anziano, del tipo galletto-ad-ogni-costo. Un ragazzo che stava seduto vicino a lei, inaspettatamente cavaliere, si alzò offrendo il suo posto ad un anziano signore che ora si stava contorcendo con la sua bella e ingombrante valigia per occupare il posto offertogli. Il nuovo arrivato ostentava due baffetti grigi, a coda di topo, che ren­devano più aguzzi i suoi lineamenti già tanto sottili, con occhiali a stringinaso montati in oro e trattenuti da un cordoncino nero che finiva assicurato all'oc­chiello del risvolto della giacca immacolata. Un'appa­rizione in quella miscellanea di persone accaldate e sbracciate che non poteva non suscitare stupore. La ragazza lo osservava attratta e senza avvedersene si trovò a porgli una domanda del tutto fuori luogo, nel suo miserrimo francese, alludendo alla dozzinale valigia giallastra:

– Pardon, monsieur, est-ce que ma valise vous embarrasse? –

Il signore distinto chinò la testa rispondendo pieno di premura:

– Rien de tout, mademoiselle. Je vous remercie. –

Oh, che voce coltivata, ella pensò. Solo un vero si­gnore poteva avere una voce simile. Finalmente il nuo­vo venuto si sedette traendo di tasca un giornale. Chinando un poco in avanti il busto disse compitamente:

– Pardon, mademoiselle. –

– Je vous en prie, monsieur, – rispose subito lei. Si sentiva importante e felice. Senonché, ad un certo punto, scoppiò in una risata generosa che fece aggrottare la fronte al suo vicino: s'era accorta che il si­gnore distinto si accingeva a leggere il Corriere del­la Sera.

– Ma lei è italiano, allora! – Rideva ugualmente an­che se adesso aveva l'impressione di essere stata defraudata di qualcosa.

– Oh, cielo! questa è buona – confermò lui ridendo a sua volta. E mentre riponeva il giornale aggiunse:

– Le confesso che ne sono contento, così possiamo chiacchierare a nostro agio… se vuole, naturalmente. Deve sapere che nell'eventualità che lei avesse voluto conversare durante il viaggio avrei dovuto informarla che la conoscenza del mio francese si limita alle poche parole necessarie per la sopravvivenza in un paese francofono. –

Clarissa fu assai colpita: quella era una prova di squisita umiltà. Per dimostrare al suo compagno di viag­gio quanto lo apprezzasse aggiunse con calore:

– Be', questo che ha detto vale anche per me. Se ne sarà accorto senza dubbio. – Com'era facile ammettere le proprie limitatezze con quell'uomo meraviglioso. Oramai cavalcava il suo focoso destriero chiamato entusiasmo. Se fosse stato presente il nostro Caio l'avreb­be ammonita con quell'ironia che lo distingueva: "Attenta ai galletti di primo canto", ad esempio; oppure: "L'umiltà è spesso rampina: poni attenzione alle esche troppo allettanti, di solito nascondono ami tremendamente appuntiti." Ma Caio in quel momento era assai lontano e Clarissa partì a spron battuto.

A questo punto il signore distinto si scusò molto contrito per la grave mancanza in cui era incorso, al­la quale ovviò prontamente levandosi per tre quarti da sedere:

– Permette? Giovanni Bersotti, colonnello in congedo. –

La ragazza porse la mano stringendo quella forte e asciutta dell'uomo. Notò che aveva una stretta ener­gica (dimmi come stringi la mano e ti dirò chi sei).

– Molto lieta, Clarissa Svampi. Per favore, mi lasci aggiungere subito che i miei amici mi chiamano Claruccia la Svampita. Ma non gliene voglio per due motivi: lo fanno senza cattiveria, primo; secondariamente, se mi impermalissi farei il loro gioco e non mi salverei più. –

Era molto soddisfatta di sé essendo riuscita a dir tutto d'infilata senza impappinarsi; non che fosse timida, ma era estremamente emotiva e capitava che spesso inciampasse nelle parole. Assai nebulosamente si chiese se aveva fatto bene ad aggiungere quella spiegazione riguardante nome, amici eccetera. La solita storia, del resto; quando decideva di riporre la pro­pria fiducia in qualcuno lo faceva in modo totale, e quanto aveva detto era solo l'inizio. Un concetto mol­to personale della lealtà: mantenere dei segreti con una persona che ascolta le tue confidenze e di cui ti fidi, significa barare. Questo asseriva convinta.

Anche a tale proposito Caio la stuzzicava sovente. "Di' un po', tu – chiedeva impudente a qualcuno della cerchia, – Claruccia ti ha detto di che colore sono le sue mutandine? No, dici?! – sbarrava gli occhi con comico stupore. – Ah, mi dispiace, amico, ma questo si­gnifica che non godi della sua fiducia." Vivaddio che ragazzo impossibile quel Caio!

Dopo le presentazioni la conversazione tra i due compagni di viaggio filò via d'incanto. In realtà fu l'ex colonnello a fare la parte del leone:

– Vivo solo a Genova. In via Marina di Robilant, per la precisione; immagino che la conosca. Vede, cara, per quanto la mia vita sia stata piena di donne di ogni tipo, non ne ho mai incontrata una, secondo me, degna di diventare mia moglie. Sono un lupo solitario e di difficile accontenatura, forse, tuttavia ho preferi­to questo stato al pericolo di legarmi per la vita ad un' oca giuliva. –

A Clarissa sembrò di scorgere in quegli occhi grigi e penetranti una luce canzonatoria; ma subito si diede della maledetta sospettosa e cercò di godere senza re­more il complimento implicito, che subito divenne esplicito.

– Mi creda, sono molto esperto e ai miei tempi, se mi fossi imbattuto in una ragazza come lei, non me la sarei lasciata scappare di certo. Le confesserò una cosa di cui non ho mai parlato a nessuno. Mi vergognerei di parlarne, vista la mia professione e la mia età. Ma sen­to che lei mi può capire. Due grandi passioni ho sempre nutrito nella mia vita: scrivere poesie, che un giorno o l'altro farò pubblicare a mie spese, con uno pseudonimo, e viaggiare. Ora, per esempio, sto rientrando da una breve vacanza ad Algeri: è stato meraviglioso. –

Clarissa a questo punto pensò che doveva interrom­perlo a tutti i costi per dirgli che anche lei…Oh, maledizione! che fosse veramente troppo tardi per quel­l'essere straordinario? Doveva affrettarsi a comunicare la sua trovata originale, parlargli degli "istanti buoni", altrimenti…

Purtroppo l'ex militare era tipo che amava ascoltarsi e adesso stava dicendo:

– Vede, io passo per un orso che non lega con nessu­no, ma mi dica, mi dica, chi potrebbe capirmi? –

Oh, ecco finalmente la tavola di salvezza; ma la po­veretta non fece a tempo ad afferrarla. Non aveva an­cora aperto bocca per gridare, al colmo dell'entusia­smo, la sua perfetta incondizionata comprensione che subito si accorse come l'uomo stava rispondendosi da solo:

– Nessuno potrebbe capirmi; glielo assicuro, mi prenderebbero, come minimo, per un esaltato. –

La ragazza era giunta allo stadio che precede di pochi secondi la rinuncia amara; ma non l'uomo l'aveva delu­sa bensì le circostanze: sarebbe bastata in lei mag­gior decisione ed avrebbe potuto annunciare per prima la sua scoperta. Diciamo che in una gara di corsa ave­va perso. Intanto non riusciva a staccare lo sguardo da quelle sottili labbra in movimento continuo, tra cui si intravedeva il bianco belluino di una dentatu­ra abbagliante, magnificamente falsa.

– Quando viaggio mi sento completo, perfetto. Tocco attimi di felicità ineffabile. Anzi, le dirò di più, ho coniato un'espressione per mio uso e consumo: chia­mo questi momenti "gli attimi di perfezione". –

Clarissa ebbe un movimento inconsulto di tutto il corpo; chiuse gli occhi e mormorò in un soffio:

– Oh, no! – Si sentiva come se dentro le si fosse rotto irrimediabilmente qualcosa.

– Cara, cara, si sente bene? – si affannava a chie­derle il signor Bersotti battendole lievi colpi sulla mano che le aveva afferrato.

In un guazzabuglio di emozioni e di pensieri Clarissa riuscì a capire che l'uomo non stava più parlando di sé, che s'era interrotto per prestarle attenzione. Ma ormai era troppo tardi per dire tutto quello che aveva in animo di dire. Così mormorò facendosi coraggio:

– No, no… non è nulla. La prego di scusarmi, soltanto che io li chiamo gli "istanti buoni" tutto il resto è uguale. –

Se il nostro Caio fosse stato presente avrebbe esclamato sogghignando: "Ma è inaudito, gente! Claruccia ha creduto un'altra volta a babbonatale."