Papo
Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Ben strano tipo. Ora allegro fino all'euforia, di lì a qualche minuto
depresso e immusonito; fondamentalmente cattivo ma con sprazzi di generosità
impensabili; poco intelligente ma spiritoso e simpatico; negato per qualsiasi
tipo di studio (non era riuscito a superare la quarta ginnasio) ma molto
portato per la musica sì da suonare discretamente chitarra classica.
Piccolo di statura, le gambe un poco arcuate, ossuto e di pelle così scura da
sembrare un marocchino, dava nell'insieme l'impressione di un tronchetto
spoglio di rami, nodoso e contorto. Camminando sporgeva tutto il corpo in
avanti muovendo ora una spalla ora l'altra, con movimenti scattanti, rigidi,
veloci, in sincronia con i passi lunghi, del tutto sproporzionati a gambe così
corte. Aveva inoltre una peculiarità che non riuscii mai ad accettare
serenamente: le sue mani erano sempre sudaticce per una disfunzione refrattaria
ad ogni cura.
Tra le sue idee confuse
e balorde una non lo abbandonò mai: quella di diventare attore comico. Penso
che possedesse dei numeri per riuscire; ma, o non erano sufficienti, o non ebbe
fortuna, o non affrontò la questione con bastante serietà. Fatto si è che
attore comico non divenne mai.
Nel frattempo viveva a
carico del padre che godeva d’una certa agiatezza,
vedovo da lungo tempo e dalla morale non certo esemplare, con un’amante fissa
che non sposò mai, e altre avventizie; il tutto organizzato però in modo da non
creare problemi per nessuno.
Con Papo
ci conoscevamo fin da ragazzetti, e penso che forse non
nutrivo per lui nemmeno sentimenti di amicizia, considerando che eravamo
agli antipodi come modo di pensare e di agire; ma accettavo la sua compagnia
perché a volte riusciva molto divertente e perché il nostro rapporto era del
tutto privo di complicazioni sentimentali. Almeno cinque volte in un anno, ad intervalli regolari, arrivava schiattante d'entusiasmo,
per annunciarmi un interesse nuovo. La prassi era ormai ben definita: dopo aver
passato un certo numero di giorni alla ricerca di qualcosa di
"originale", Papo divideva il tempo
restante in due periodi: il primo lo dedicava interamente alla nuova passione,
il secondo lo passava a disfarsi di tutto quanto aveva
raccolto e a stramaledire il momento in cui gli era venuto alla mente di
occuparsi di simili baggianate. Se, ad esempio, decideva che il possesso d'una gabbia con un paio d'uccellini poteva dare
soddisfazione, nel giro di ventiquattro ore era già munito di gabbia, uccelli,
becchime, abbeveratoi di varie grandezze, ossi di seppia, nidi finti e opuscoli
vari che spiegavano tutto, ma proprio tutto sugli uccelli in gabbia.
Tra le varie stranezze
che commise quel ragazzo – e furono veramente tante – due mi sembrano
più pazze delle altre, degne quindi di essere ricordate.
Un giorno, con il suo
entusiasmo sempre rinnovabile, mi annunciò di aver finalmente trovato un
passatempo non troppo comune, sano e con larghe possibilità di sviluppo anche
da un punto di vista economico (le sue mani, oltre che sudate, erano anche
bucate come una schiumarola).
– Tu attendi e
vedrai. Fra non molto avrò una tal quantità di piante in vaso da far schiattare
d'invidia tutti i fioristi della città. –
Allora si tratta di
fiori, pensai distrattamente borbottando un mmm privo
di significato. Dopo di che non si fece vedere per due o tre giorni come faceva
di solito quando aveva in ballo qualcosa di nuovo. Alla fine, una mattina molto
per tempo, udii il suo bussare convenzionale: toc-toc…
toc-toc… toc-toc. Rassegnata
aprii. Papo mi scansò con una gomitata lasciando
cadere sul pavimento una enorme bracciata di piccoli
abeti con radici ingombre di terriccio. Quando era in piena attività
dimenticava ogni termine di buona creanza pur conoscendola molto bene.
– Che cosa ti
dissi? – chiese guardandomi in faccia con quel suo sorriso distorto che
era più che altro un ghigno. Ma non attendeva
risposta.
– Tienili d'occhio, –
ordinò. – Passerò più tardi a ritirarli. – E se ne andò fulmineo
senza lasciarmi il tempo né di protestare per il disordine lasciato nel mio
monolocale, né quello di chiedergli dove avesse ... rubato quei cuccioli
d'albero. Tornò infatti di lì a un paio d'ore
accompagnato da Stefano.
Era costui un lavoratore
non scalmanato ma onesto quel tanto che bastava per non perdere il posto, ed
era legato a Papo, per certi versi, appunto da
rapporti di lavoro dipendendo, come factotum, da suo padre, dottore in chimica,
che conduceva una piccolissima azienda per la produzione di un detersivo di sua
invenzione. Da qui le sue entrate, oltre l'affitto percepito per i sei
appartamenti ricavati dal grande palazzo, la metà del cui primo piano era
interamente occupata dal suo che era tanto magnifico
quanto trascurato nonostante l'amante fissa ci mettesse mano ogni tanto.
Stefano – in verità
il suo nome era Giuseppe, ma tutti lo chiamavano così storpiando il cognome
Stefani – sui trent'anni, era atticciato, con un viso incredibilmente
tondo, liscio e rosso come una mela delizia e completamente glabro. Per questo
quei due baffoni alla Stalin, così aggressivi e isolati, colpivano subito come
un urtone. Bisognava vederseli davanti svariate volte per abituarvi l'occhio.
Guardandoli non si poteva fare a meno di chiedersi se quell'onor del labbro
fosse posticcio; ma Papo mi assicurò che erano baffi
veri poiché glieli aveva strapazzati in varie
occasioni e quelli avevano sempre resistito.
Stefano era un ragazzo
semplice, incolto, di origine palesemente campagnola, per nascondere la quale
non faceva nulla; e del classico campagnolo aveva saggezza e arguzia. Egli
pronunciava le sue facezie con parlata lenta, con voce monotona e grave,
accennando appena ad un sorriso laddove l'ascoltatore
rideva di gusto. Papo gli era affezionato nei limiti
consentiti dal suo carattere instabile e poco sensibile; dal canto suo Stefano
lo considerava con indifferenza mista ad una punta di
commiserazione.
Sul finire della mattina
dunque li vidi arrivare. Papo davanti con la sua aria di grande capo oberato dalle
responsabilità; e dietro Stefano a spingere una grande carriola dal fondo
concavo, coperto di un buono strato di terriccio sormontato da numerosi
vasi.
– Sono venuto a
ritirare le piante, – annunciò secco il primo.
A questo punto non seppi
trattenere la mia curiosità acuitasi dall'accostamento spontaneo vasi-alberi
così che gli chiesi che cosa intendesse fare. La sua reazione fu veramente
inaspettata. Mi guardò a bocca aperta, sorpreso sinceramente; infine,
trattenendo a stento l'ira, in lui di così facile accensione, mi si mise di
fronte, con la punta del suo naso ad appena una spanna da quella del mio,
gridando:
– Non dirmi che non
l'hai capito! Te l'avevo detto che mi sarei dato al giardinaggio. E dovresti
conoscermi abbastanza per sapere che quando decido una cosa vado fino in
fondo. –
– Scusami, Papo, – insistetti pur intimorita dalla sua grinta
poco promettente – ma i vasi, dico, i vasi a che
cosa dovrebbero servire? –
– No, no,
no! – Papo si chinava ad
ogni no battendosi i pungi sulle tempie. Poi si girò furente verso Stefano ordinandogli:
– Spiegaglielo tu, perdìo, altrimenti con questa qua io perdo il lume della
ragione e non rispondo più delle mie azioni. – Non aveva ancora finito
l'ultima parola che si rigirò verso di me improvvisamente rabbonito. Quasi
tenero disse:
– E va bene, non è
colpa tua, vero, se non capisci? Del resto non tutti possono avere il
bernoccolo degli affari ed essere portati per l'agricoltura. –
Si avvicinò alla
carriola e prese una manciata di terriccio
lasciandoselo poi scorrere tra le dita aperte con soddisfazione palese.
– Vedi questa? è terra buona, fertile – continuò didattico. – Si
capisce dal colore scuro. Con la terra riempirò i vasi e in ogni vaso metterò una pianta. Hai capito adesso? – E mi si
avvicinò facendomi il ganascino con la mano sporca di terriccio. Poi caricò le
piante sopra i vasi; almeno tentò di farlo, ma si accorse subito che non c'era
posto, così ordinò a Stefano di avviarsi verso il cortile appena oltre
l'androne: lui l'avrebbe raggiunto portando a mano gli abeti.
Da quel momento ebbe
inizio la seconda parte di ciò che si potrebbe chiamare "operazione
calvario degli abeti": con gran lena i due incominciarono a riempire i
vasi con la terra.
Avevo scostato un poco
la tendina della finestra del bagno che dava proprio in cortile (non volevo
curiosare apertamente temendo le reazioni del mattoide) e poiché il monolocale
era al pianterreno avevo tutto l'agio di seguire
l'affaccendarsi di quei due. Mentre osservavo mi
convincevo sempre più che avrei visto Papo, fra un
minuto, dare almeno qualche segno di perplessità circa la logica della sua
impresa. Invece tutto procedeva tranquillamente. Ora ogni vaso conteneva terra
fino a metà della sua capienza. Papo s'era messo in ginocchio vicino al fascio degli alberelli
ordinando a Stefano di passargli un vaso per volta: si era giunti alla fase
invasamento piante ed io trattenni il fiato credendo che quel pazzo oltre non
avrebbe potuto andare. Ma ecco che l'inconcepibile accadde: quello strambo
estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un paio di cesoie: ove barbe e
radici dei poveri abeti fossero state troppo rigogliose, egli le andò mutilando
decisamente, con colpi netti, in modo da farle entrare
nei recipienti. Anzi, si spinse più in là: se una pianta presentava qualche
piccola deformazione nel tronco, come inclinazione, piccoli
nodi antiestetici e così via, Papo prendeva il
martello e la pestava di santa ragione, facendola rigirare su se stessa come un
buon fabbro che stia sagomando un ferro incandescente. Qualora
l'alberello non fosse resistito a quella terapia d'urto e si fosse sfatto in
tanti patetici filamenti, il nostro non se ne rammaricava certo, lo gettava
semplicemente in un angolo con ostentato disprezzo pontificando: "Gli
alberi vanno raddrizzati fin che son giovani. Se questo non ha resistito sta scritto che non ne sarebbe uscito nulla di
buono."
In tale atmosfera il
lavoro finì. Ora si poteva contare una dozzina di vasi, con relativo abete,
allineati diligentemente lungo un lato del cortile; ma molte più pianticelle
giacevano maciullate in un mucchietto malinconioso vicino a una grande
pattumiera di zinco. Papo, senza
più degnare queste ultime di uno sguardo, si passò ripetutamente le mani
sudate e sporche sul dietro dei pantaloni, poi si avvicinò a Stefano, che se ne
stava impassibile addossato al muro a braccia conserte, e gli battè una mano sulla spalla esclamando caloroso:
– Bene, Stefano,
possiamo dire di aver compiuto un ottimo lavoro. Ora daremo un'annaffiatina e poi lasciamo fare alla natura. –
L'aiutante non sembrò
particolarmente lusingato da tanto cameratismo; si limitò ad assentire con
lenti e misurati cenni del capo: purché lo pagassero tutto
andava bene; le mattane del figlio, anzi, rompevano la noia del detersivo del
padre.
Per una decina di giorni
il "giardiniere" passò in rassegna i suoi vasi più d'una
volta nelle ventiquattro ore, osservandoli scrupolosamente. Tutto sembrava
procedere in modo soddisfacente perché gli abeti, come tutte le conifere, sono
alberi coraggiosi che affrontano la morte con estrema dignità, senza mostrare
la tristezza di ramoscelli flosci o foglie ingiallite e accartocciate di mano
in mano che si avvicina la loro fine. Ed anche dopo morti continuano a lungo ad emanare il loro buon odore. Alla fine, tuttavia, anche le
conifere rimangono stecchite, morte al di là di ogni
dubbio.
Se questa scoperta
addolorò o indignò Papo non
seppi mai. Generalmente reagiva al rovinìo delle sue
imprese accusando Tizio, Caio o Sempronio, trovando cavilli a sostegno di ciò,
così scaltriti da far concorrenza a Perry Mason;
oppure continuava per un pezzo con querimonie del tipo che cosa ho fatto di
male per essere così disgraziato, mondo boia;
possibile che tutto mi vada storto, vacca eva;
eccetera. Stavolta invece quando dovette ammettere che tutti gli abeti erano
veramente passati a miglior vita, mormorò perplesso:
– Non posso
crederci, con tutte le cure che ho prodigato a questi mostriciattoli! – Pausa con intensificazione della mimica facciale, quindi: –
Mah. Del resto era ora che finisse perché, a dirti il vero, mi ero già
stufato di un passatempo così cretino. A proposito: sei stata tu a suggerirmi
un'idea simile? Sai, con la testa che ti ritrovi non
mi farebbe meraviglia. –
– Certo che
no, – mi limitai a rispondere senza neanche cercare di essere convincente.
Per Papo, in quel momento, una risposta valeva
l'altra.
Difatti non replicò.
L'episodio, tuttavia, ebbe un'appendice rimarchevole.
Egli pensò giustamente
di vuotare i vasi e di riporli per una, assai
nebulosamente concepita, eventuale nuova occasione. Senonché nella stesura mentale del progetto non tenne
conto di una bazzecola come il fatto che la terracotta è fragile.
Il suo bell’appartamento,
situato al primo piano, come abbiamo detto, possedeva un lungo balcone che correva
ininterrottamente per tutta la facciata che dava sul cortile, comunicando con
le varie stanze per mezzo di portefinestre. Neanche pensare di portare su per le scale i vasi, in
piccoli quantitativi per volta. Molto meglio che
l'insostituibile Stefano (non ho mai capito perché il padre lo cedesse così
facilmente a Papo pur mantenendolo sul suo ruolino di
paga) si mettesse di sopra, in un punto qualsiasi del balcone, mentre lui
glieli avrebbe buttati da sotto. Stefano, imperturbabile si avviò verso le
scale.
– Pronto,
Stefano? – gli gridò il ragazzo appena lo vide far capolino dalla
ringhiera.
– Iiiissaaa! – gridò il baffuto mettendosi le mani a
megafono intorno alla bocca come che la distanza tra di loro fosse almeno di un
centinaio di metri. Sorvolando sulla proprietà linguistica bisogna ammettere
che il grido era veramente pieno di colore.
In quel preciso momento
ebbe inizio lo scempio dei vasi. Non potrei giurarlo ma sono convinta che
Stefano si adoperò con fervore per scansarne parecchi lasciandoli fracassare
contro la ringhiera, sul pavimento della balconata, contro il muro. Ma il bello
di tutta la faccenda era che, nonostante i numerosi cic-ciac
di inconfondibile natura, Papo continuava
imperterrito a buttare vasi. Tipico del suo carattere: se si imbarcava
in un'attività non aveva più mente e occhi che per quella, vedendola però solo
come una linea retta lungo la quale camminava spedito, senza tener conto degli
immancabili imprevisti.
Alla fine, quando non vi
furono più vasi in cortile alzò il viso facendosi
solecchio e gridando:
– Bene, Stefano, ho
finito. Ora salgo e ti do una mano a portarli nel ripostiglio. –
Io stavo con le orecchie
tese. Giusto il tempo per salire le scale e uscire sulla balconata che udii una sfilza di imprecazioni seguita da altri cic-ciac
più rabbiosi dei primi: Papo stava gettando a manate,
in cortile, i cocci che s'erano ammucchiati sul pavimento della balconata.
Tornando alle mie
faccende sperai che il ragazzo se ne stesse quieto per almeno un mesetto.
Purtroppo il misirizzi lasciò passare appena una settimana, quindi me lo vidi capitare in casa
gonfio di nuovo ardore. Attaccò senza preamboli:
– Lo so quello che
mi vuoi dire ma ti posso assicurare che stavolta è quella buona. Se vuoi te lo giuro. Non potrei spiegarti il motivo di questa
mia sicurezza: tutta questione di intuito. E tu sai
che non sbaglio quando ho di queste intuizioni. – Qui si
interruppe spiando se in me s'era accesa almeno una piccola scintilla
d'interesse. Visto che da quel lato non accadeva nulla
proseguì d'un fiato:
– Mi do alla
radiotecnica. Non capisco anzi come non vi abbia pensato prima. Bada che non lo
ritengo un semplice passatempo. Mi impegnerò così
seriamente che diventerà un lavoro redditizio. In capo a un paio di mesi sono
sicuro che sarò in grado di aprire un piccolo laboratorio. –
Tacque ed io alzai lo
sguardo dalle patate che stavo sbucciando: aveva strizzato gli occhi sotto le
sopracciglia aggrottate nell'atteggiamento che assumeva sempre quando stava per
annunciare una grande decisione. Difatti, di lì a un attimo esclamò allargando
le braccia e spalancandomi gli occhi addosso:
– Sai che ti dico?
Per incominciare riparerò la tua radio. Ho notato che gracchia nel cambio delle
stazioni. –
Ah, no perbacco! Questo
non potevo permetterlo a costo di far intervenire la
forza pubblica. Decisa a tutto dichiarai in tono fermo:
– No, guarda, ti
ringrazio ma preferisco tenermi il mio apparecchio difettoso, se lo è,
piuttosto che trovarmi un mucchietto di ferraglia. –
La reazione a quelle
parole fu abnorme anche per un Papo. Con il viso
deformato e livido, i pugni resi ancor più minacciosi dalle sue mani tutte
nocche, a pochi centimetri dalla mia faccia, strozzandosi la voce che
gli usciva a tratti acutissima a tratti roca, esplose:
– Ah, è così dunque! E dillo, dillo che non ti
fidi di me, fedifraga! –
Con un calcolo reso
rapido dalla disperazione realizzai che potevo
riparare in bagno la cui porta era appena dietro le mie spalle. Eseguii
immediatamente chiudendomi a chiave e incollando l'orecchio alla toppa, così
potei udire Papo esibirsi in uno dei suoi sproloqui
dove gli aggettivi traditora e
stupida mi parve tenessero banco. Il fatto che mi insultasse
non mi faceva neanche il solletico; la mia più grande paura era invece che mi
fracassasse qualcosa. Ero quindi molto tesa quando finalmente (a me sembrò
un’eternità ma forse erano passati solo pochissimi minuti) un colpo spaccatimpani e spaccacardini mi
disse che se n'era andato. Ne fui quasi certa perché, impulsivo com'era, non
avrebbe finto di uscire di casa per rimanervi, invece,
ad attendermi come un ragno attende la mosca. Questo in linea generale; ma Papo era anche imprevedibile; così decisi che un po' di
cautela non avrebbe guastato e la usai per uscire molto lentamente: le linee
nemiche erano proprio del tutto sguernite di forze.
Per prima cosa chiusi a
chiave la porta d'ingresso mandando non so quanti accidenti a
quell'imbecille e chiedendomi il perché non lo avevo ancora sbattuto
fuori di casa una volta per tutte. Convenni con me stessa che, sotto sotto, ne provavo grande pena.
Per alcuni giorni Papo mi lasciò in pace ed io scioccamente incominciai a
sperare che fosse sulla via della saggezza, quando un bel mattino vidi puntato
sul portone che immetteva sulla via, un cartoncino così concepito: PAPO – RIPARAZIONI RADIO – COMPETENZA E ONESTÀ
ASSOLUTE – PRIMO PIANO. Mi vennero i sudori freddi e pensai che ogni
speranza di guarigione per quell'individuo doveva essere
accantonata per sempre.
La prima vittima fu
Teresa; una povera vecchietta sola con tutte le prerogative che si addicono a
una povera vecchietta sola; per di più afflitta dai piedi piatti e dal vizio di
fiutare tabacco. Il quale le procurava la perenne invisa classica goccia al
naso; era come una goccia di caffè turco, che certo
non contribuiva a renderla amabile. Veramente in questo caso il cartoncino
fissato al portone, con quattro puntine da disegno non fu galeotto: Teresa non
si sarebbe mai sognata di fermarsi a leggerlo. Solo che Papo,
vedendo trascorrere il tempo senza che nemmeno un cane ricorresse alla sua
abilità, pensò di forzare la mano al destino. Era a conoscenza che la
vecchietta possedeva una radio antiquata, di quelle che assomigliavano alla
cuccia di un cane, con l'uscita dell'altoparlante mascherata da un tessuto
giallastro e liso. Che del resto stava da dio in quell'abbaino di cose cadenti
e nel cuore della sua padrona. Ma questo Papo non lo poteva capire. Perciò eccolo trionfante e
giulivo bussare nuovamente alla mia porta.
– Vedi? Guarda
qua, – annunciò battendo con la mano aperta sul tetto della radio.
Depositò l'apparecchio sul mio tavolo quindi continuò guardandomi sfidante:
– Solo tu non ti
fidi di me pur non avendone ragione. Questa è una radio, qualora tu non
l'avessi capito. Ma ciò che conta è una radio da
riparare. – Pronunciando queste parole con tutto il sarcasmo di cui era capace andava estraendo dalle varie tasche cacciaviti e
pinze di misure diverse. Naturalmente non raccolsi; gli diedi solo alcuni
vecchi giornali affinché non mi sfregiasse il tavolo e poi me ne disinteressai
totalmente. Né ancora sapevo che quello non era un
ferravecchio scovato in qualche soffitta.
Dopo aver steso i
giornali borbottando contro la "pignoleria assurda di certa gente",
il "radiotecnico" iniziò la sua sistematica opera distruttiva.
Lavorò circa mezz'ora silente e concentrato; allo scadere di tale tempo
solo il mobile di legno era ancora intero; tutto il resto: manopole, valvole,
condensatori, resistenze, viti era sparso un po' dappertutto. Finalmente Papo alzò la testa per annunciarmi che aveva bisogno di un
seghetto.
– Ho individuato il
guasto, – spiegò benignamente. – Questo baraccone ha lo stesso
difetto del tuo. – Detergendosi il sudore del viso sporco di polvere con
una mano, con l'altra mi mostrò il trasformatore spiegandomi competente:
– Vedi? Se io
segassi di almeno un millimetro questi lamierini, in modo da creare più spazio
sono sicuro che non gracchierebbe più nel cambio delle
stazioni. È chiaro che lo strato di ossido che si è formato tutto intorno
toglie scorrevolezza provocando quel fastidioso rumore che lega i denti… Già, ma tu lo sopporti bene. Figuriamoci! –
Naturalmente non
m'intendevo e non m'intendo di radio, ma l'accenno al seghetto in relazione ai lamierini mi fece un effettaccio della
miseria. Sì che osai obiettare:
– Ma sei sicuro che sia il trasformatore a regolare il cambio
delle stazioni? Inoltre credo che tutto sia calcolato al millesimo lì dentro e
se tu seghi i lamierini non presenteranno più le
caratteristiche necessarie per il buon funzionamento dell'apparecchio. Se ora gracchia ma trasmette sono sicura che dopo il tuo
trattamento non gracchierà più per il semplice motivo che dirà più un
amen. –
Papo mi fissò sorpreso. Probabilmente pensò che in
quegli ultimi giorni avevo dimostrato una grande impertinenza
nei suoi confronti. Tuttavia era calmo mentre rimbeccava:
– Ecco, dire che
sei una superficialona è dire
poco o niente; ma non voglio polemizzare. Allora ce l'hai
o no 'sto seghetto? –
– E come vuoi che
faccia ad avere un seghetto, che il cielo ti
strafulmini! –
– Va bene. Deve
averlo mio padre nei suoi attrezzi. Che non ti venga in mente di metterci le
tue manacce, vero? Torno subito. –
Di lì a poco infatti era di ritorno brandendo l'arnese. Mi imposi di ignorarlo ad ogni costo; anche quando il rumore
di ferro segato pareva che mi trapanasse il cervello.
Dopo un tempo che mi
parve lunghissimo vidi Papo
ritirare la punta della lingua che aveva tenuto fuori dai denti durante tutto
il lavoro; e lo udii annunciare:
– Ho finito. Ora la
monto e gliela porto. –
Confesso che ero ansiosa
di conoscere la fine dell'avventura, anche se con quel bel tomo non si poteva
nemmeno prendersi la soddisfazione di una buona lungimiranza. Per montare la
radio ci mise relativamente poco.
Ed ecco il grande
momento.
Papo innestò la spina nella presa di corrente
iniziando subito a manovrare tutte le manopole: nulla. Anzi, non si accese
nemmeno la lampadina del quadrante per il fatto che
essa era stata dimenticata su un angolo del tavolo. L'amico, corrugando la
fronte e serrando le labbra, continuò ancora a darsi da fare intorno alle
manopole, ed io notai, non senza apprensione, che i suoi movimenti perdevano
velocemente di compostezza. Ad un tratto la sua voce
ruppe brutale il silenzio che s'era andato addensando:
– Non è possibile.
Che cos'ha ancora 'sto porco? Tutte a me devono capitare. Ora gliela faccio
vedere io a quella tabaccona scimunita di Teresa.
L'imbrogliona, si schermiva: no, non è il caso, a me va bene così com'è,
piagnucolava con i gomiti appoggiati al suo baraccone. –
All'udire il nome della
povera vecchia svanì in me ogni senso di prudenza. Brandii una sedia
minacciando di rompergliela in testa se solo avesse osato toccare l'apparecchio
con il martello, che aveva già alzato e che aveva tenuto celato nella tasca dei
pantaloni fino a quel momento. Papo non reagì. Del
resto era nella sua natura questa impressionante discontinuità d'azione e di
pensiero. Forse anche influì tutta la determinatezza che vide nel mio
atteggiamento. Fatto sta che per alcuni secondi passò i suoi occhietti dal mio
viso alla sedia incombente sul suo capo. Alla fine, senza proferire parola, si
girò uscendo tranquillamente dalla porta che lasciò aperta, stringendo sotto il
braccio il povero apparecchio martoriato.
Deposi la sedia tremando
per la tensione e per la pietà. Ora si trattava di ridare a quella tapina di
Teresa la sua radio funzionante, o almeno una in sostituzione. Decisi che ne
avrei parlato molto determinata al padre di quello sconsiderato. Conoscendolo
avevo quasi la certezza che avrebbe acquistato una nuova radio alla povera
Teresa.