Papo

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

Ben strano tipo. Ora allegro fino all'euforia, di lì a qualche minuto depresso e immusonito; fondamentalmente cattivo ma con sprazzi di generosità impensabili; poco intelligente ma spiritoso e simpatico; negato per qualsiasi tipo di studio (non era riuscito a superare la quarta ginnasio) ma molto portato per la musica sì da suonare discretamente chitarra classica.

Piccolo di statura, le gambe un poco arcuate, ossuto e di pelle così scura da sembrare un marocchino, dava nell'insieme l'impressione di un tronchetto spoglio di rami, nodoso e contorto. Camminando sporgeva tutto il corpo in avanti muovendo ora una spalla ora l'altra, con movimenti scattanti, rigidi, veloci, in sincronia con i passi lunghi, del tutto sproporzionati a gambe così corte. Aveva inoltre una peculiarità che non riuscii mai ad accettare serenamente: le sue mani erano sempre sudaticce per una disfunzione refrattaria ad ogni cura.

Tra le sue idee confuse e balorde una non lo abbandonò mai: quella di diventare attore comico. Penso che possedesse dei numeri per riuscire; ma, o non erano sufficienti, o non ebbe fortuna, o non affrontò la questione con bastante serietà. Fatto si è che attore comico non divenne mai.

Nel frattempo viveva a carico del padre che godeva d’una certa agiatezza, vedovo da lungo tempo e dalla morale non certo esemplare, con un’amante fissa che non sposò mai, e altre avventizie; il tutto organizzato però in modo da non creare problemi per nessuno.

Con Papo ci conoscevamo fin da ragazzetti, e penso che forse non nutrivo per lui nemmeno sentimenti di amicizia, considerando che eravamo agli antipodi come modo di pensare e di agire; ma accettavo la sua compagnia perché a volte riusciva molto divertente e perché il nostro rapporto era del tutto privo di complicazioni sentimentali. Almeno cinque volte in un anno, ad intervalli regolari, arrivava schiattante d'entusiasmo, per annunciarmi un interesse nuovo. La prassi era ormai ben definita: dopo aver passato un certo numero di giorni alla ricerca di qualcosa di "originale", Papo divideva il tempo restante in due periodi: il primo lo dedicava interamente alla nuova passione, il secondo lo passava a disfarsi di tutto quanto aveva raccolto e a stramaledire il momento in cui gli era venuto alla mente di occuparsi di simili baggianate. Se, ad esempio, decideva che il possesso d'una gabbia con un paio d'uccellini poteva dare soddisfazione, nel giro di ventiquattro ore era già munito di gabbia, uccelli, becchime, abbeveratoi di varie grandezze, ossi di seppia, nidi finti e opuscoli vari che spiegavano tutto, ma proprio tutto sugli uccelli in gabbia.

Tra le varie stranezze che commise quel ragazzo – e furono veramente tante – due mi sembrano più pazze delle altre, degne quindi di essere ricordate.

Un giorno, con il suo entusiasmo sempre rinnovabile, mi annunciò di aver finalmente trovato un passatempo non troppo comune, sano e con larghe possibilità di sviluppo anche da un punto di vista economico (le sue mani, oltre che sudate, erano anche bucate come una schiumarola).

– Tu attendi e vedrai. Fra non molto avrò una tal quantità di piante in vaso da far schiattare d'invidia tutti i fioristi della città. –

Allora si tratta di fiori, pensai distrattamente borbottando un mmm privo di significato. Dopo di che non si fece vedere per due o tre giorni come faceva di solito quando aveva in ballo qualcosa di nuovo. Alla fine, una mattina molto per tempo, udii il suo bussare convenzionale: toc-toc… toc-toc… toc-toc. Rassegnata aprii. Papo mi scansò con una gomitata lasciando cadere sul pavimento una enorme bracciata di piccoli abeti con radici ingombre di terriccio. Quando era in piena attività dimenticava ogni termine di buona creanza pur conoscendola molto bene.

– Che cosa ti dissi? – chiese guardandomi in faccia con quel suo sorriso distorto che era più che altro un ghigno. Ma non attendeva risposta.

– Tienili d'occhio, – ordinò. – Passerò più tardi a ritirarli. – E se ne andò fulmineo senza lasciarmi il tempo né di protestare per il disordine lasciato nel mio monolocale, né quello di chiedergli dove avesse ... rubato quei cuccioli d'albero. Tornò infatti di lì a un paio d'ore accompagnato da Stefano.

Era costui un lavoratore non scalmanato ma onesto quel tanto che bastava per non perdere il posto, ed era legato a Papo, per certi versi, appunto da rapporti di lavoro dipendendo, come factotum, da suo padre, dottore in chimica, che conduceva una piccolissima azienda per la produzione di un detersivo di sua invenzione. Da qui le sue entrate, oltre l'affitto percepito per i sei appartamenti ricavati dal grande palazzo, la metà del cui primo piano era interamente occupata dal suo che era tanto magnifico quanto trascurato nonostante l'amante fissa ci mettesse mano ogni tanto.

Stefano – in verità il suo nome era Giuseppe, ma tutti lo chiamavano così storpiando il cognome Stefani – sui trent'anni, era atticciato, con un viso incredibilmente tondo, liscio e rosso come una mela delizia e completamente glabro. Per questo quei due baffoni alla Stalin, così aggressivi e isolati, colpivano subito come un urtone. Bisognava vederseli davanti svariate volte per abituarvi l'occhio. Guardandoli non si poteva fare a meno di chiedersi se quell'onor del labbro fosse posticcio; ma Papo mi assicurò che erano baffi veri poiché glieli aveva strapazzati in varie occasioni e quelli avevano sempre resistito.

Stefano era un ragazzo semplice, incolto, di origine palesemente campagnola, per nascondere la quale non faceva nulla; e del classico campagnolo aveva saggezza e arguzia. Egli pronunciava le sue facezie con parlata lenta, con voce monotona e grave, accennando appena ad un sorriso laddove l'ascoltatore rideva di gusto. Papo gli era affezionato nei limiti consentiti dal suo carattere instabile e poco sensibile; dal canto suo Stefano lo considerava con indifferenza mista ad una punta di commiserazione.

Sul finire della mattina dunque li vidi arrivare. Papo davanti con la sua aria di grande capo oberato dalle responsabilità; e dietro Stefano a spingere una grande carriola dal fondo concavo, coperto di un buono strato di terriccio sormontato da numerosi vasi.

– Sono venuto a ritirare le piante, – annunciò secco il primo.

A questo punto non seppi trattenere la mia curiosità acuitasi dall'accostamento spontaneo vasi-alberi così che gli chiesi che cosa intendesse fare. La sua reazione fu veramente inaspettata. Mi guardò a bocca aperta, sorpreso sinceramente; infine, trattenendo a stento l'ira, in lui di così facile accensione, mi si mise di fronte, con la punta del suo naso ad  appena una spanna da quella del mio, gridando:

– Non dirmi che non l'hai capito! Te l'avevo detto che mi sarei dato al giardinaggio. E dovresti conoscermi abbastanza per sapere che quando decido una cosa vado fino in fondo. –

– Scusami, Papo, – insistetti pur intimorita dalla sua grinta poco promettente – ma i vasi, dico, i vasi a che cosa dovrebbero servire? –

– No, no, no! – Papo si chinava ad ogni no battendosi i pungi sulle tempie. Poi si girò furente verso Stefano ordinandogli:

– Spiegaglielo tu, perdìo, altrimenti con questa qua io perdo il lume della ragione e non rispondo più delle mie azioni. – Non aveva ancora finito l'ultima parola che si rigirò verso di me improvvisamente rabbonito. Quasi tenero disse:

– E va bene, non è colpa tua, vero, se non capisci? Del resto non tutti possono avere il bernoccolo degli affari ed essere portati per l'agricoltura. –

Si avvicinò alla carriola e prese una manciata di terriccio lasciandoselo poi scorrere tra le dita aperte con soddisfazione palese.

– Vedi questa? è terra buona, fertile – continuò didattico. – Si capisce dal colore scuro. Con la terra riempirò i vasi e in ogni vaso metterò una pianta. Hai capito adesso? – E mi si avvicinò facendomi il ganascino con la mano sporca di terriccio. Poi caricò le piante sopra i vasi; almeno tentò di farlo, ma si accorse subito che non c'era posto, così ordinò a Stefano di avviarsi verso il cortile appena oltre l'androne: lui l'avrebbe raggiunto portando a mano gli abeti.

Da quel momento ebbe inizio la seconda parte di ciò che si potrebbe chiamare "operazione calvario degli abeti": con gran lena i due incominciarono a riempire i vasi con la terra.

Avevo scostato un poco la tendina della finestra del bagno che dava proprio in cortile (non volevo curiosare apertamente temendo le reazioni del mattoide) e poiché il monolocale era al pianterreno avevo tutto l'agio di seguire l'affaccendarsi di quei due. Mentre osservavo mi convincevo sempre più che avrei visto Papo, fra un minuto, dare almeno qualche segno di perplessità circa la logica della sua impresa. Invece tutto procedeva tranquillamente. Ora ogni vaso conteneva terra fino a metà della sua capienza. Papo s'era messo in ginocchio vicino al fascio degli alberelli ordinando a Stefano di passargli un vaso per volta: si era giunti alla fase invasamento piante ed io trattenni il fiato credendo che quel pazzo oltre non avrebbe potuto andare. Ma ecco che l'inconcepibile accadde: quello strambo estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un paio di cesoie: ove barbe e radici dei poveri abeti fossero state troppo rigogliose, egli le andò mutilando decisamente, con colpi netti, in modo da farle entrare nei recipienti. Anzi, si spinse più in là: se una pianta presentava qualche piccola deformazione nel tronco, come inclinazione, piccoli nodi antiestetici e così via, Papo prendeva il martello e la pestava di santa ragione, facendola rigirare su se stessa come un buon fabbro che stia sagomando un ferro incandescente. Qualora l'alberello non fosse resistito a quella terapia d'urto e si fosse sfatto in tanti patetici filamenti, il nostro non se ne rammaricava certo, lo gettava semplicemente in un angolo con ostentato disprezzo pontificando: "Gli alberi vanno raddrizzati fin che son giovani. Se questo non ha resistito sta scritto che non ne sarebbe uscito nulla di buono."

In tale atmosfera il lavoro finì. Ora si poteva contare una dozzina di vasi, con relativo abete, allineati diligentemente lungo un lato del cortile; ma molte più pianticelle giacevano maciullate in un mucchietto malinconioso vicino a una grande pattumiera di zinco. Papo, senza più degnare queste ultime di uno sguardo, si passò ripetutamente le mani sudate e sporche sul dietro dei pantaloni, poi si avvicinò a Stefano, che se ne stava impassibile addossato al muro a braccia conserte, e gli battè una mano sulla spalla esclamando caloroso:

– Bene, Stefano, possiamo dire di aver compiuto un ottimo lavoro. Ora daremo un'annaffiatina e poi lasciamo fare alla natura. –

L'aiutante non sembrò particolarmente lusingato da tanto cameratismo; si limitò ad assentire con lenti e misurati cenni del capo: purché lo pagassero tutto andava bene; le mattane del figlio, anzi, rompevano la noia del detersivo del padre.

Per una decina di giorni il "giardiniere" passò in rassegna i suoi vasi più d'una volta nelle ventiquattro ore, osservandoli scrupolosamente. Tutto sembrava procedere in modo soddisfacente perché gli abeti, come tutte le conifere, sono alberi coraggiosi che affrontano la morte con estrema dignità, senza mostrare la tristezza di ramoscelli flosci o foglie ingiallite e accartocciate di mano in mano che si avvicina la loro fine. Ed anche dopo morti continuano a lungo ad emanare il loro buon odore. Alla fine, tuttavia, anche le conifere rimangono stecchite, morte al di là di ogni dubbio.

Se questa scoperta addolorò o indignò Papo non seppi mai. Generalmente reagiva al rovinìo delle sue imprese accusando Tizio, Caio o Sempronio, trovando cavilli a sostegno di ciò, così scaltriti da far concorrenza a Perry Mason; oppure continuava per un pezzo con querimonie del tipo che cosa ho fatto di male per essere così disgraziato, mondo boia; possibile che tutto mi vada storto, vacca eva; eccetera. Stavolta invece quando dovette ammettere che tutti gli abeti erano veramente passati a miglior vita, mormorò perplesso:

– Non posso crederci, con tutte le cure che ho prodigato a questi mostriciattoli! – Pausa con intensificazione della mimica facciale, quindi: – Mah. Del resto era ora che finisse perché, a dirti il vero, mi ero già stufato di un passatempo così cretino. A proposito: sei stata tu a suggerirmi un'idea simile? Sai, con la testa che ti ritrovi non mi farebbe meraviglia. –

– Certo che no, – mi limitai a rispondere senza neanche cercare di essere convincente. Per Papo, in quel momento, una risposta valeva l'altra.

Difatti non replicò. L'episodio, tuttavia, ebbe un'appendice rimarchevole.

Egli pensò giustamente di vuotare i vasi e di riporli per una, assai nebulosamente concepita, eventuale nuova occasione. Senonché nella stesura mentale del progetto non tenne conto di una bazzecola come il fatto che la terracotta è fragile.

Il suo bell’appartamento, situato al primo piano, come abbiamo detto, possedeva un lungo balcone che  correva ininterrottamente per tutta la facciata che dava sul cortile, comunicando con le varie stanze per mezzo di portefinestre. Neanche pensare di portare su per le  scale i vasi, in piccoli quantitativi per volta. Molto meglio che l'insostituibile Stefano (non ho mai capito perché il padre lo cedesse così facilmente a Papo pur mantenendolo sul suo ruolino di paga) si mettesse di sopra, in un punto qualsiasi del balcone, mentre lui glieli avrebbe buttati da sotto. Stefano, imperturbabile si avviò verso le scale.

– Pronto, Stefano? – gli gridò il ragazzo appena lo vide far capolino dalla ringhiera.

– Iiiissaaa! – gridò il baffuto mettendosi le mani a megafono intorno alla bocca come che la distanza tra di loro fosse almeno di un centinaio di metri. Sorvolando sulla proprietà linguistica bisogna ammettere che il grido era veramente pieno di colore.

In quel preciso momento ebbe inizio lo scempio dei vasi. Non potrei giurarlo ma sono convinta che Stefano si adoperò con fervore per scansarne parecchi lasciandoli fracassare contro la ringhiera, sul pavimento della balconata, contro il muro. Ma il bello di tutta la faccenda era che, nonostante i numerosi cic-ciac di inconfondibile natura, Papo continuava imperterrito a buttare vasi. Tipico del suo carattere: se si imbarcava in un'attività non aveva più mente e occhi che per quella, vedendola però solo come una linea retta lungo la quale camminava spedito, senza tener conto degli immancabili imprevisti.

Alla fine, quando non vi furono più vasi in cortile alzò il viso facendosi solecchio e gridando:

– Bene, Stefano, ho finito. Ora salgo e ti do una mano a portarli nel ripostiglio. –

Io stavo con le orecchie tese. Giusto il tempo per salire le scale e uscire sulla balconata che udii una sfilza di imprecazioni seguita da altri cic-ciac più rabbiosi dei primi: Papo stava gettando a manate, in cortile, i cocci che s'erano ammucchiati sul pavimento della balconata.

Tornando alle mie faccende sperai che il ragazzo se ne stesse quieto per almeno un mesetto. Purtroppo il misirizzi lasciò passare appena una settimana,  quindi me lo vidi capitare in casa gonfio di nuovo ardore. Attaccò senza preamboli:

– Lo so quello che mi vuoi dire ma ti posso assicurare che stavolta è quella buona. Se vuoi te lo giuro. Non potrei spiegarti il motivo di questa mia sicurezza: tutta questione di intuito. E tu sai che non sbaglio quando ho di queste intuizioni. – Qui si interruppe spiando se in me s'era accesa almeno una piccola scintilla d'interesse. Visto che da quel lato non accadeva nulla proseguì d'un fiato:

– Mi do alla radiotecnica. Non capisco anzi come non vi abbia pensato prima. Bada che non lo ritengo un semplice passatempo. Mi impegnerò così seriamente che diventerà un lavoro redditizio. In capo a un paio di mesi sono sicuro che sarò in grado di aprire un piccolo laboratorio. –

Tacque ed io alzai lo sguardo dalle patate che stavo sbucciando: aveva strizzato gli occhi sotto le sopracciglia aggrottate nell'atteggiamento che assumeva sempre quando stava per annunciare una grande decisione. Difatti, di lì a un attimo esclamò allargando le braccia e spalancandomi gli occhi addosso:

– Sai che ti dico? Per incominciare riparerò la tua radio. Ho notato che gracchia nel cambio delle stazioni. –

Ah, no perbacco! Questo non potevo permetterlo a costo di far intervenire la forza pubblica. Decisa a tutto dichiarai in tono fermo:

– No, guarda, ti ringrazio ma preferisco tenermi il mio apparecchio difettoso, se lo è, piuttosto che trovarmi un mucchietto di ferraglia. –

La reazione a quelle parole fu abnorme anche per un Papo. Con il viso deformato e livido, i pugni resi ancor più minacciosi dalle sue mani tutte nocche, a pochi centimetri dalla  mia faccia, strozzandosi la voce che gli usciva a tratti acutissima a tratti roca, esplose:

– Ah, è così dunque! E dillo, dillo che non ti fidi di me, fedifraga! –

Con un calcolo reso rapido dalla disperazione realizzai che potevo riparare in bagno la cui porta era appena dietro le mie spalle. Eseguii immediatamente chiudendomi a chiave e incollando l'orecchio alla toppa, così potei udire Papo esibirsi in uno dei suoi sproloqui dove gli aggettivi traditora e stupida mi parve tenessero banco. Il fatto che mi insultasse non mi faceva neanche il solletico; la mia più grande paura era invece che mi fracassasse qualcosa. Ero quindi molto tesa quando finalmente (a me sembrò un’eternità ma forse erano passati solo pochissimi minuti) un colpo spaccatimpani e spaccacardini mi disse che se n'era andato. Ne fui quasi certa perché, impulsivo com'era, non avrebbe finto di uscire di casa per rimanervi, invece, ad attendermi come un ragno attende la mosca. Questo in linea generale; ma Papo era anche imprevedibile; così decisi che un po' di cautela non avrebbe guastato e la usai per uscire molto lentamente: le linee nemiche erano proprio del tutto sguernite di forze.

Per prima cosa chiusi a chiave la porta d'ingresso mandando non so quanti accidenti a quell'imbecille e chiedendomi il perché non lo avevo ancora sbattuto fuori di casa una volta per tutte. Convenni con me stessa che, sotto sotto, ne provavo grande pena.

Per alcuni giorni Papo mi lasciò in pace ed io scioccamente incominciai a sperare che fosse sulla via della saggezza, quando un bel mattino vidi puntato sul portone che immetteva sulla via, un cartoncino così concepito: PAPO – RIPARAZIONI RADIO – COMPETENZA E ONESTÀ ASSOLUTE – PRIMO PIANO. Mi vennero i sudori freddi e pensai che ogni speranza di guarigione per quell'individuo doveva essere accantonata per sempre.

La prima vittima fu Teresa; una povera vecchietta sola con tutte le prerogative che si addicono a una povera vecchietta sola; per di più afflitta dai piedi piatti e dal vizio di fiutare tabacco. Il quale le procurava la perenne invisa classica goccia al naso; era come una goccia di caffè turco, che certo non contribuiva a renderla amabile. Veramente in questo caso il cartoncino fissato al portone, con quattro puntine da disegno non fu galeotto: Teresa non si sarebbe mai sognata di fermarsi a leggerlo. Solo che Papo, vedendo trascorrere il tempo senza che nemmeno un cane ricorresse alla sua abilità, pensò di forzare la mano al destino. Era a conoscenza che la vecchietta possedeva una radio antiquata, di quelle che assomigliavano alla cuccia di un cane, con l'uscita dell'altoparlante mascherata da un tessuto giallastro e liso. Che del resto stava da dio in quell'abbaino di cose cadenti e nel cuore della sua padrona. Ma questo Papo non lo poteva capire. Perciò eccolo trionfante e giulivo bussare nuovamente alla mia porta.

– Vedi? Guarda qua, – annunciò battendo con la mano aperta sul tetto della radio. Depositò l'apparecchio sul mio tavolo quindi continuò guardandomi sfidante:

– Solo tu non ti fidi di me pur non avendone ragione. Questa è una radio, qualora tu non l'avessi capito. Ma ciò che conta è una radio da riparare. – Pronunciando queste parole con tutto il sarcasmo di cui era capace andava estraendo dalle varie tasche cacciaviti e pinze di misure diverse. Naturalmente non raccolsi; gli diedi solo alcuni vecchi giornali affinché non mi sfregiasse il tavolo e poi me ne disinteressai totalmente. Né ancora sapevo che quello non era un ferravecchio scovato in qualche soffitta.

Dopo aver steso i giornali borbottando contro la "pignoleria assurda di certa gente", il "radiotecnico" iniziò la sua sistematica opera distruttiva.

Lavorò circa mezz'ora silente e concentrato; allo scadere di tale tempo solo il mobile di legno era ancora intero; tutto il resto: manopole, valvole, condensatori, resistenze, viti era sparso un po' dappertutto. Finalmente Papo alzò la testa per annunciarmi che aveva bisogno di un seghetto.

– Ho individuato il guasto, – spiegò benignamente. – Questo baraccone ha lo stesso difetto del tuo. – Detergendosi il sudore del viso sporco di polvere con una mano, con l'altra mi mostrò il trasformatore spiegandomi competente:

– Vedi? Se io segassi di almeno un millimetro questi lamierini, in modo da creare più spazio sono sicuro che non gracchierebbe più nel cambio delle stazioni. È chiaro che lo strato di ossido che si è formato tutto intorno toglie scorrevolezza provocando quel fastidioso rumore che lega i denti… Già, ma tu lo sopporti bene. Figuriamoci! –

Naturalmente non m'intendevo e non m'intendo di radio, ma l'accenno al seghetto in relazione ai lamierini mi fece un effettaccio della miseria. Sì che osai obiettare:

– Ma sei sicuro che sia il trasformatore a regolare il cambio delle stazioni? Inoltre credo che tutto sia calcolato al millesimo lì dentro e se tu seghi i lamierini non presenteranno più le caratteristiche necessarie per il buon funzionamento dell'apparecchio. Se ora gracchia ma trasmette sono sicura che dopo il tuo trattamento non gracchierà più per il semplice motivo che dirà più un amen. –

Papo mi fissò sorpreso. Probabilmente pensò che in quegli ultimi giorni avevo dimostrato una grande impertinenza nei suoi confronti. Tuttavia era calmo mentre rimbeccava:

– Ecco, dire che sei una superficialona è dire poco o niente; ma non voglio polemizzare. Allora ce l'hai o no 'sto seghetto? –

– E come vuoi che faccia ad avere un seghetto, che il cielo ti strafulmini! –

– Va bene. Deve averlo mio padre nei suoi attrezzi. Che non ti venga in mente di metterci le tue manacce, vero? Torno subito. –

Di lì a poco infatti era di ritorno brandendo l'arnese. Mi imposi di ignorarlo ad ogni costo; anche quando il rumore di ferro segato pareva che mi trapanasse il cervello.

Dopo un tempo che mi parve lunghissimo vidi Papo ritirare la punta della lingua che aveva tenuto fuori dai denti durante tutto il lavoro; e lo udii annunciare:

– Ho finito. Ora la monto e gliela porto. –

Confesso che ero ansiosa di conoscere la fine dell'avventura, anche se con quel bel tomo non si poteva nemmeno prendersi la soddisfazione di una buona lungimiranza. Per montare la radio ci mise relativamente poco.

Ed ecco il grande momento.

Papo innestò la spina nella presa di corrente iniziando subito a manovrare tutte le manopole: nulla. Anzi, non si accese nemmeno la lampadina del quadrante per il fatto che essa era stata dimenticata su un angolo del tavolo. L'amico, corrugando la fronte e serrando le labbra, continuò ancora a darsi da fare intorno alle manopole, ed io notai, non senza apprensione, che i suoi movimenti perdevano velocemente di compostezza. Ad un tratto la sua voce ruppe brutale il silenzio che s'era andato addensando:

– Non è possibile. Che cos'ha ancora 'sto porco? Tutte a me devono capitare. Ora gliela faccio vedere io a quella tabaccona scimunita di Teresa. L'imbrogliona, si schermiva: no, non è il caso, a me va bene così com'è, piagnucolava con i gomiti appoggiati al suo baraccone. –

All'udire il nome della povera vecchia svanì in me ogni senso di prudenza. Brandii una sedia minacciando di rompergliela in testa se solo avesse osato toccare l'apparecchio con il martello, che aveva già alzato e che aveva tenuto celato nella tasca dei pantaloni fino a quel momento. Papo non reagì. Del resto era nella sua natura questa impressionante discontinuità d'azione e di pensiero. Forse anche influì tutta la determinatezza che vide nel mio atteggiamento. Fatto sta che per alcuni secondi passò i suoi occhietti dal mio viso alla sedia incombente sul suo capo. Alla fine, senza proferire parola, si girò uscendo tranquillamente dalla porta che lasciò aperta, stringendo sotto il braccio il povero apparecchio martoriato.

Deposi la sedia tremando per la tensione e per la pietà. Ora si trattava di ridare a quella tapina di Teresa la sua radio funzionante, o almeno una in sostituzione. Decisi che ne avrei parlato molto determinata al padre di quello sconsiderato. Conoscendolo avevo quasi la certezza che avrebbe acquistato una nuova radio alla povera Teresa.