Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
I settanta li aveva
ormai compiuti. Si vedeva subito. Le gambette corte e malsicure le facevano
muovere piccoli passi sì che sembrava saltellasse. La figura alquanto tozza era
ornata con profusione di passamanerie, nastri, piume di struzzo: anacronistica
ma dolce creatura fedele ad un passato – dirà in seguito – che le
diede gioie pari ai dolori. È da privilegiati quando si può contare sul
pareggio alla fine del nostro cammino.
La vidi per la prima
volta nei pressi della Gare du Nord a Parigi, quando
l'aiutai ad attraversare la via. Stringeva con un braccio un bellissimo
siamese, mentre al guinzaglio teneva un cane bastardo e indemoniato che
sembrava avere come unico scopo nella vita quello di far finire la padrona
sotto qualche veicolo.
– Cher, mon cher… – gridava la
povera donna.
Fu così che s'aggrappò a
me senza nemmeno vedere chi o che cosa fossi. Se alla sua portata fosse spuntato
per miracolo, un albero in quel momento non se ne sarebbe nemmeno accorta; si
sarebbe semplicemente aggrappata al tronco con un profondo sospiro e il cuore
impazzito. Approdata finalmente all'altro marciapiede la signora chiuse gli
occhi come per accertarsi mentalmente di essere tutta intera. Poi, quando il
suo cuore si fu un poco ricomposto, mi guardò incredula. Riuscì, chissà come, a
riunire in una sola mano gatto e guinzaglio e, con l'altra resasi libera,
accarezzò il mio braccio belando:
– Cara, la ringrazio
molto. È la prima volta che esco con due animali contemporaneamente, ma le
assicuro che non ripeterò mai più l'esperienza. –
Parlava un francese non
stretto, compresso, tipico dei parigini, ma staccava bene le parole e parlava
pianamente – forse era del sud francese, pensai. Per questo capivo quasi tutto
ed il resto lo intuivo.
Per fortuna s'era
allontanata appena una ventina di metri dal suo portone, così ve l'accompagnai
e qui, prima di congedarsi, mi pregò di andare a trovarla, ma per carità che ci
andassi che ne avrei avuto una gradita sorpresa.
Promisi e mantenni.
Promisi automaticamente
pensando ad altro; mantenni per un punto d'onore, convinta però che la donna
non si sarebbe più ricordata di me. Invece, nonostante fossero passate più di
due settimane, mostrò di ricordarsi perfettamente del nostro bizzarro incontro
e mi accolse con calore.
Ancora ferma sulla
soglia mi informò che viveva sola eccezion fatta per quattro animali di cui due
già conoscevo. Entrammo in anticamera dove fece le presentazioni degli altri
due gatti che si erano avvicinati. Due soriani ben pasciuti e simpatici che mi
si strofinarono subito contro le gambe. Seppi così che erano Pierre e Denise;
mentre il siamese si chiamava più pomposamente Napoleon
ed il cane Patatras. Dopo queste informazioni la
donna mi fece strada verso l'interno del suo appartamento situato al primo
piano di un palazzo vecchio, signorile e piuttosto trascurato.
Mentre mi guidava in
quella che mi spiegò, molto orgogliosamente, essere la Chambre aux Diables, buttava fuori
informazioni a getto continuo: le ero riuscita subito molto simpatica perché
avevo l'aria di un soggetto interessante per i suoi studi; infatti si
interessava da anni ormai alle scienze occulte, ma nessuno voleva prenderla sul
serio e lei se ne risentiva un gran tanto, pur fingendo di nulla, per non dar
soddisfazione, si capisce; essendo vecchia poi…
– Voici ma Chambre aux Diables! – esclamò all'improvviso arrestandosi sulla
soglia di un salotto al quale non si poteva negare, a prima vista, una certa
qual originalità. Qui si impalò ficcandosi le mani nelle ampie maniche del
vestito, come uno sciocco piccolo bonzo. Il guaio era che non accennava più a
muoversi. Allora, per non arrischiare di pietrificarmi, dissi quello che sapevo
s'aspettava dicessi:
– Signora, è
formidabile. –
Azzeccato in pieno.
Subito si ringalluzzì tutta pregandomi di accomodarmi in una banalissima
poltroncina ricoperta di cretonne a fiorami, mentre lei si arrampicava su un
alto scranno, tipo aula universitaria, laccato di rosso. Così appollaiata
incrociò le mani sul ripiano dello scrittoio che aveva davanti e chiuse gli
occhi.
Non sapendo che altro
fare mi guardai in giro. Come Camera dei Diavoli non è che mi dicesse molto,
per la verità. Tuttavia, come avevo già intravisto, dovevo ammettere che era
piuttosto inconsueta, non foss'altro che per
l'accostamento delle tinte dominanti: scarlatto e giallo cromo. Ah, ecco: là,
sotto la finestra, un piccolo tavolino coperto di macabro drappo nero e
argento, su cui posava un malinconico teschio che pareva autentico. Chissà come
ha fatto a procurarselo, pensai. Alla fine scoprii l'oggetto con cui si
giustificava tanto spreco di aldilà (e la padrona di casa intanto stava sempre
a occhi chiusi). Proprio in mezzo alla parete dietro il suo scranno, molto in
ombra, stava un grande quanto orribile acquerello raffigurante una coppia di
diavoli rossi e neri che tentavano di infilzarsi a vicenda come due monellacci; ma era chiaro che non dovessero riuscirci mai.
Finalmente la vecchia
signora aprì gli occhi con un sospiro di soddisfazione. Mi chiesi se, nel
frattempo, avesse schiacciato un pisolino lampo o se mi avesse osservato
attraverso le palpebre semichiuse.
– Cara, vedo che
guarda il mio amico. –
Era un pretesto goffo
per trovare il modo di parlarmene poiché ora stavo guardando le sue quattro
bestie stravaccate piacevolmente un po' qua un po' là nella stanza.
– Non si lascerà
impressionare, spero. È tanto bravo, lui. È Mon
Henri. –
Rabbrividii mio malgrado
pensando a qualche suo Enrico – amico, marito, amante, fratello –
ridotto là sul tavolino. Comunque la rassicurai che non stesse in pena per me;
lo trovavo un teschio veramente simpatico; inoltre si vedeva ad occhio nudo che
doveva essere una gran buona pasta. Naturalmente il significato della mia
risposta non aveva importanza: quella donna era decisa a parlarmi delle sue
faccende quindi attaccò subito senza misericordia:
– Oh, vorrei
proprio che lei mi credesse. Sapesse quanto mi è caro Mon
Henri! Io gli manifesto tutti i miei pensieri, gli chiedo consiglio e lui, non
solo mi ascolta, ma mi risponde. In che modo, si chiederà lei. Be', questo è
piuttosto difficile da spiegare. Diciamo che da Mon
Henri partono vibrazioni le quali io capto con facilità. Non tutti lo possono
fare, si capisce. Io ci sono arrivata dopo anni e anni di esercizio e di studi.
E poi, pensi la delicatezza, la generosità di quell'essere meraviglioso. Quando
arrivò qui avevo da poco battezzato questa stanza dedicandola a quelli là (così
dicendo la donna buttò indietro la testa senza girarla, in un gesto non molto
raffinato, per accennare all'acquerello. Mi chiesi perché tanta noncuranza, se
non addirittura disprezzo; ma non ebbi tempo di soffermarmi a meditare perché
la signora non s'era interrotta un attimo). Subito gli proposi di cambiarle
nome per chiamarla Chambre Mon Henri, ma fu
irremovibile. "Anne, mi disse, non pensarci nemmeno. Sono arrivati prima
loro ed è giusto che le cose stiano così. Vuoi farmi sentire un
usurpatore?" "Oh, santo cielo", ribattei ridendo, "non
essere così melodrammatico". Ma egli non cedette e mi pregò di non tornare
più sull'argomento. Bene, cara, non è meraviglioso? Ma cambiando un po'
discorso, ho la netta sensazione che tra me e lei si stabilirà uno stupendo
rapporto perché lei è un tipo molto ricettivo, ipersensibile. Non ha mai preso
in considerazione la possibilità di diventare medium? –
Era una domanda troppo
diretta per lasciarla cadere. Mi stavo onestamente sforzando di trovare una
risposta diplomatica quando la signora scese dallo scranno con agilità
impensabile accusandosi di essere una padrona di casa scadentissima. Come aveva
potuto non pensare ad offrirmi almeno una tazza di tè?
– Faccio in un
lampo, cara, – annunciò garrula.
Rassegnata la osservai
uscire dalla stanza. E, rassegnata, attesi che tornasse. Ciò che fece dopo un
tempo ragionevole. Poiché ogni cosa a questo mondo ha un termine, anche il
supplizio del tè ne ebbe uno. Bevanda che, del resto, si manifestò migliore di
quanto mi aspettassi, oltretutto servita con proprietà su un bel vassoio molto
vecchio di legno intarsiato con suppellettili
di fine porcellana e cucchiaini d’argento.
La mia ospite versandomi
la bevanda si scusò: lei poteva prendere il tè solo di mattina e non più di una
tazza per via di certi disturbi gastrici, quindi non poteva tenermi compagnia.
Che io facessi pure in tutta tranquillità, intento lei mi avrebbe parlato dei
suoi studi sul paranormale. Borbottai un semplice bene senza calore perché
qualsiasi cosa avessi detto ritenevo che lei non avrebbe nemmeno udito.
Ero decisa comunque a far transitare
allegramente ogni parola dentro da un orecchio e fuori dall’altro senza lasciar
loro la possibilità di depositarvi una minima traccia. Sono veramente allergica
a questo genere di cose ritenendo chi ne fa uso un impostore e un truffatore …
o una vittima come doveva essere quella fragile e sprovveduta creatura che mi
stava davanti.
Così avvenne: lei parlò
e parlò e parlò mentre io vuotai la tazza con molto sforzo perché
all’improvviso mi venne il terribile dubbio che quella donna dovesse avere un
concetto dell’igiene tutto suo.
Quasi con un balzo depositai il vuoto senza
preoccuparmi di interrompere la mia ospite a metà di una frase e, decisa,
annunciai che ne ero molto dispiaciuta ma dovevo proprio lasciarla senza
perdere un minuto di più.
Purtroppo, prima di
mollarmi definitivamente la poveretta mi pregò con tale insistenza e con voce
ancor più querula del solito, di andarla
a trovare il più presto possibile, sicché alla fine mi intrappolai in una nuova
promessa.
Eravamo a maggio, la
sera era estremamente dolce. Io ero senza peso, mentre il cuore mi si allargava
in petto per assorbire ingordamente l'innegabile eterna magia della primavera.
Forse fu questa snervante dolcezza che era dappertutto a rendermi generosa.
Fatto sta che decisi all'improvviso di andare a fare visita alla signora De Valamaurais. Era passata appena una settimana dalla
promessa. Glielo annunciai per telefono e di lì ad un’ora e mezza mi accolse
con gridolini di gioia chiocciandomi attorno: non avrei potuto scegliere
momento migliore, a suo dire, perché tra poco sarebbe venuto anche il “dottore”,
una persona veramente straordinaria, tanto da far pensare che gli angeli non
sono tutti in cielo.
– Vede, dunque, ho
ragione di ritenere che ella possiede una grande forza; la forza che ci dà la
possibilità di provocare, badi bene, non dico prevedere, ma provocare, le cose piacevoli. Tale fluido,
muovendosi nell'etere, va ad investire il soggetto interessato. –
Le si erano accesi occhi
e pomelli per l'eccitazione così che non ebbi cuore di farla scendere
dall'Olimpo. Inoltre, se non tutto angelo, poteva darsi che lo fosse almeno in
parte quel tizio; sarebbe già stato qualcosa e, conoscendolo, non ci avrei
rimesso nulla. Tuttavia non volevo barare: aprii la bocca per chiarire che non
credevo nello spiritismo con annessi e connessi. Ci tenevo ad evitare che
venissero a crearsi malintesi i quali, minimo, avrebbero amaramente deluso la
povera signora. Purtroppo la sciocca non mi lasciò proferir verbo continuando a
rovesciarmi nelle orecchie le sue idee strampalate. Ma quando ormai disperavo
di poter arginare quello straripamento, sognando come un bene precluso per
sempre dolci spiagge silenziose, la donna tacque senza nulla che potesse avere
la parvenza di un preavviso. Era appollaiata sul suo alto scranno dove aveva
preso posto appena dopo il mio arrivo, con le mani abbandonate sul ripiano
dello scrittoio.
– Signora… – mormorai senza sapere quello che avrei
detto. Ella si riscosse e mi guardò quasi smarrita; ma subito si riprese
annunciando con brio:
– Ma certo, cara,
intanto che aspettiamo il “dottore” le farò il gioco dei tarocchi. Accosti la
sua poltroncina, per piacere. –
Mentre ubbidivo
ricacciandomi in gola un rifiuto netto, la piccola mano destra della vecchia
signora subito scattò ad afferrare il mazzo delle carte, ben messo sul piano
dello scrittoio. Per alcuni secondi ondeggiò ancora su questa terra, poi si
inoltrò nel suo empireo dove mi rifiutai di seguirla. Si inabissò più volte in
silenzi gravidi di meditazione per riemergerne altrettante in sproloqui più o
meno intelligibili. Nel frattempo le mani delicate anche se segnate dagli anni,
si muovevano con grazia e destrezza.
Era ormai tardo
pomeriggio e la stanza, già poco felicemente illuminata di per sé, era immersa
in una spessa penombra, rotta appena da una tenue luce rosata proveniente dal
paralume a perline della lampada a stelo, posta in un angolo, che era stata
accesa poco prima. Il rosso e il giallo, così distinti alla luce del giorno, ora
sembravano confondersi in una tinta discreta: il tutto per convergere e smorire assorbito dalla lucida calotta di Mon Henri. Dai vetri aperti un’aria tenue entrava gonfiando
le tendine che fluttuavano in un abbandono consapevole. Ed io mi lasciavo avvincere
da queste immagini che intravedevo appena attraverso le palpebre semichiuse, e
che assorbivo con tutti i pori dilatati, avidi. Fortunatamente stavolta la mia
ospite dimenticò i suoi doveri di padrona di casa, quindi non ebbi nemmeno da
affrontare il supplizio del tè.
Intanto parlava e
parlava senza più silenzi. La sua voce mi giungeva a ondate quasi faticasse a
rompere quel bozzolo di torpore che si era formato intorno alla mia
coscienza – … felicità … viaggio attraverso l'oceano … nemici sconfitti …
amore eterno … – Ma nemmeno tali offese al mio buon senso riuscivano a scompormi.
Vi riuscì invece la prepotente scampanellata che ruppe l'incanto mio e la
loquela della padrona di casa, la quale, illuminandosi tutta, depose
frettolosamente il mazzo di carte.
– È il dottore, è
il dottore, – annunciò con voce quasi infantile Quindi si precipitò ad
aprire.
Dopo un breve parlottare,
sopraffatto dall'indiavolato abbaio di Patatras, che
giunse dall'anticamera, potei finalmente avere il sommo bene di conoscere l'essere
superiore.
Fu un impatto. Un
groviglio di sensazioni mi aggredì quasi rabbiosamente. Tuttavia, fra esse, tre
aggettivi si fecero strada in modo deciso: intelligente, corrotto, pericoloso.
Ero convinta di averlo inquadrato e ne ero soddisfatta da un lato, mentre la
mia inquietudine sembrava rassodarsi ad ogni secondo che passava
aggrovigliandomi in un nodo d’ansia.
L’uomo doveva avere da
poco superato la quarantina, piuttosto basso aveva una bella pancetta che gli
stava abbastanza male piazzata a metà figura. Vestiva con raffinata eleganza e,
nell'insieme, avrebbe potuto essere accettabile se non fosse stato per il viso
quadrato, dal naso leggermente camuso e la bocca tumida in aperto contrasto con
gli occhi piccoli, neri, lustri come per febbre; di quelli che sanno denudare
un interlocutore, non importa sesso, condizione, età. Ostentatamente guardai
altrove
In seguito alle
premurose presentazioni della padrona di casa l'uomo mi strinse la mano
trattenendola nella sua più del necessario. Uno schifo, anche se la sua palma
era secca, senza cioè quel sudorino che, legato a una
persona detestabile, diventa immediatamente emetico. Gli strappai di mano la
mia destra decisa a congedarmi. Sennonché quella sciocca della De Valmaurais non ne volle sapere: ma che cosa mi veniva in
mente, per l'amor del cielo … Belando e belando mi incastrò un'altra volta.
– Oh, la prego,
cara, rimanga. Sono sicura di interpretare anche il desiderio del “dottore”.
Sarà felicissimo di approfondire la sua conoscenza; e sono altrettanto sicura
che sarà della mia opinione circa il fatto che lei è un soggetto molto
interessante per i nostri studi. –
Mi accorsi che l'angelo mancato mi fissava
sfidante. Gratificandolo mentalmente di un paio di pesanti epiteti mi rimisi a
sedere piena zeppa di rabbia. Naturale che mi bruciasse il fatto di non essere
io a chiudere la mano con una frase di quelle che fanno sbiancare coloro a cui
sono dirette. Piuttosto di niente mi accontentai di un meschinello:
– La prego,
signora, di dire a questo signore che io non credo in niente di tutto quello
che a loro interessa. Almeno fino a che qualcuno sarà così in gamba da
dimostrarmi che ho torto. –
La povera donna,
avvertendo burrasca, mi guardò sorpresa e addolorata nel contempo. Osò appena
sfiorare l'uomo con quel suo sguardo d'agnello ma lo distolse subito: forse
temeva un acerbo rabbuffo.
– Signora, o
signorina … – l’uomo fece una breve pausa durante la quale puntò gli occhietti su di me
con una tale improntitudine che fui di nuovo costretta a guardare altrove. L'impudente
dovette gongolare segnando un punto a suo favore.
– Signorina
immagino, dato che non le vedo la fede all'anulare, – riprese quando gli
parve di essere certo che anch'io avevo preso coscienziosamente nota del mio
svantaggio. – Mi creda, è un errore ritenersi sicuri di qualcosa. Spesso
la vita ci dà lezioni piuttosto dure in tal senso, facendoci fare delle
clamorose e umilianti retromarce. Lei potrà obiettarmi che nel suo discorsetto
fatto alla nostra Anne, a mio esclusivo beneficio, ha ammesso di essere pronta
a mutare avviso qualora possa constatare che l’occultismo ha un fondamento di
verità. Ma ella ammette ciò come una possibilità ben remota. Meglio ancora: lo
ammette senza convinzione, solo per non passare da persona dalle idee ristrette. –
Altra breve pausa, sguardo concentrato e grinta per la ripresa prossima e
inevitabile. Nel frattempo mi chiesi fino a che punto si rendeva conto che
l'ultimo degli imbecilli era in grado di tenere un discorsetto così magrolino.
– Vede, io non ho
la pretesa di considerarmi una grande autorità in materia, ma nemmeno mi
ritengo uno sprovveduto e le assicuro che se sarà docile (o forte) da liberarsi
dai suoi pregiudizi accordandomi un poco di fiducia, sarò io quel qualcuno che
le farà cambiare opinione. E non le arrecherò l'offesa d'un ipocrita
"modestamente parlando": fra persone intelligenti non mi sembra il
caso. –
Anne De Valmaurais, a quelle perle di eloquenza, ebbe un attacco
inaspettato di imbecillità senile; battendo le mani incominciò a declamare in
falsetto per l'emozione che impediva alla voce di uscire in modo normale:
– Che le dicevo,
cara? È un uomo straordinario. Senza alcuno sforzo da parte sua vedrà che le …
A questo punto accadde
qualcosa che mi fece sudar freddo: mentre la ninfa bamboleggiava con lo sguardo
adorante fisso sul satiro, quest’ultimo le
puntò addosso gli occhi nei quali lessi un disprezzo così compatto da sfociare
nell'odio. La poveretta dovette sentirsi nella carne quell'ostilità tutta spine
perché fu come che qualcuno l'avesse richiamata a maggior contegno con un
grido. Ebbe un sussulto, troncò la frase e lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi. Rimasi molto sorpresa di non vederla afflosciarsi al suolo come un
palloncino sgonfiato. E mentre osservavo il suo sguardo di cane infelice e
umiliato posarsi su di me e sul suo amico alternativamente, sentii nel cuore
una pena incontenibile. Questione di secondi. Posandomi di nuovo gli occhi
addosso l'uomo riprese a parlare con enfasi. Ma oramai non lo udivo più: mi
aveva preso una folle paura di natura ignota la quale, sentivo, era
caparbiamente refrattaria ad ogni mia volontà di razionalizzazione. L'aria
m'era diventata irrespirabile nonostante le tendine fluttuassero ancora. Un
unico pensiero mi martellava in testa: andarmene, scappare il più velocemente
possibile. Così, infischiandomi dell'etichetta, mi alzai decisa quasi gridando
un buonasera conosco la strada e subito infilai il corridoio che portava
all'uscita. Riuscii ad aprire il chiavistello non so come e, mentre mi
precipitavo giù dalle scale, per un attimo provai l'assurda impressione che Mon Henri mi rotolasse alle calcagna.
Oh, la via finalmente!
Feci ancora qualche
passo prima di addossarmi al muro per riprendere fiato e fare il punto della
situazione. Vista la faccenda con più calma mi sentii ridicola. In fondo non
era accaduto nulla che giustificasse l'attacco di panico di cui ero stata
vittima. Va bene, c'era stato quello sguardo. Effettivamente, rivedendomelo
nella memoria ancora fui scossa da un lungo brivido; tuttavia la mia reazione
di poc'anzi mi pareva, là nella via, assurda a dir poco. Non mi sorprese quindi
l'ondata di compassione e rimorso che mi assalì non appena la figura dell'uomo
venne soppiantata da quella, anche se in dissolvenza, della vulnerabilissima
vecchietta. Santo cielo, come avevo potuto infliggerle un torto simile?! E va
bene, mormorai in solenne promessa alla figura che ormai anche lei, si andava condensando
all'orizzonte in un grumo amorfo, di nebbia, verrò a trovarti prima di quanto
tu speri.
Essendomi messa a posto
la coscienza raggiunsi e mi avviai per il trafficato boulevard Magenta,
costringendomi a reimmergermi nella primavera.
Invece non avrei più
rivisto quell'incredibile creatura se non nella sua brutta fotografia in terza
pagina di un quotidiano, due giorni appresso.
"La signora Anne De
Valmaurais è stata trovata morta ieri nella sua
abitazione, ove viveva sola se si eccettuano un cane e tre gatti. Si hanno
buone ragioni per credere che il movente sia la rapina in quanto la donna
godeva di una cospicua rendita e l'appartamento è stato trovato a soqquadro.
Dalle testimonianze di alcuni vicini e dei fornitori risulta che la donna
possedesse gioielli di grande valore e denaro liquido che teneva in casa non
fidandosi delle banche. Voci che circolavano; probabilmente la poverina si sarà
lasciata sfuggire qualcosa con una o due persone. Non è impossibile, nonostante
non desse confidenza a nessuno e per quanto la vita che conduceva facesse
pensare ad una dignitosa povertà. Da un primo accertamento si presume che la
morte risalga a ventiquattro ore circa dal ritrovamento del cadavere. Morte
dovuta quasi certamente a strangolamento avendo la poveretta ancora stretta
intorno al collo, una calza femminile di nylon; ma si potrà essere più precisi
dopo l'autopsia che verrà effettuata quanto prima. Da un paio di condomini si è
potuto ricavare che da poco più di un mese la donna era solita ricevere un
tizio, sempre verso sera, il quale si intratteneva a lungo. L’identikit che gli
esperti hanno potuto ricavare dai testimoni fa pensare ad un tizio, originario
della Svizzera francese, che si spaccia per un esperto di scienze occulte, già
noto in Quai des Orfèvres. Oltre la gendarmeria parigina se ne sta
interessando anche l’Interpol”
L’articolo finiva così.
Tutto qua? Stavo seduta sul letto della mia stanza d’affitto e, mentre lasciavo
cadere il quotidiano, fui scossa da un brivido; non era paura tardiva,
realizzai subito, ma rimorso per aver lasciato la poveretta in modo tanto
inurbano, immeritato. Mi guardai automaticamente la mano destra che aveva
stretto quella di un assassino (anche senza prove lo davo per scontato), e in
modo del tutto meccanico, corsi a lavarmele entrambe, a lungo, risciacquando e
risciacquando senza quasi capire quello che stavo facendo. Una mano gelata mi
rinserrava lo stomaco: nessuno avrebbe potuto togliermi dalla testa che la mia
presenza, quella maledetta sera, aveva accelerato i tempi di una morte già
decisa. Ma ecco subito un altro pensiero forse anche più doloroso: che fine
avrebbero fatto quei quattro graziosi viziatissimi
animali?