Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Primo decennio del 1600;
si decide di erigere una piccola chiesa dedicata a san Rocco che è intervenuto
per far cessare il flagello della peste. In seguito verrà
ripulita la grande fossa che era stata scavata all'altra estremità del borgo e
riempita per metà di calce viva dove gettare le vittime di tale epidemia. I
resti degli infelici verranno in seguito traslati nella nuova chiesa, nel
pavimento della quale, molto a lungo sopravviveranno
varie lastre di pietra con iscrizioni latine. Tra di esse un grande rettangolo
di vetro che lascia vedere un miscuglio di teschi e ossa lunghe soprattutto, in
libertà.
Una fossa comune non
molto ampia (circa un metro per uno e ottanta), di cui però non si può vedere
la profondità a meno di sapere come è strutturata al
di sotto del pavimento della chiesa.
Miseri resti lì da più
di tre secoli ormai – stando ad un breve studio che riguarda il tragico avvenimento. Resti
che non esercitano più un richiamo emotivo: essi come noi che vissero il Bene e
il Male; ma oramai solo oggetti "consacrati" che possono aiutare chi
li prega con profonda, inattaccabile fede. Un concetto del sacro che combacia
perfettamente con quello del baratto.
La chiesa di san Rocco, dato che vicino ad essa verrà costruito il camposanto, è
più conosciuta come chiesa dei Morti; mentre la fossa, che fu la prima tomba
degli appestati, un quadrato di venti metri di lato circa, profonda due, è
conosciuta con il nome di "fontanelli".
Difatti, dopo essere stata ripulita del triste contenuto, se ne farà una
meravigliosa pozza di acqua sorgiva. Sul principio del pozzo artesiano, canne
di ferro forate ai lati e affioranti nella parte superiore per pochi
centimetri, fanno pullulare acqua limpidissima e fresca, blandamente
gorgogliante che si mantiene ad un livello di trenta o
quaranta centimetri. In tale fossa si può scendere agevolmente dalle prode
dolci, coperte di vegetazione lussureggiante che, a primavera, si agghinda di
campanellini, iris gialli, miosotis. Fiori che mutano
con il mutar delle stagioni, ma sempre immersi nel groviglio di gran varietà di
piante che crescono solo in prossimità di acqua limpida. Un fascino indicibile,
fatto di sensazioni struggenti, intensificate da molli
voli di libellule e da piccole chiocciole dal guscio giallo vivo, strette agli
steli un po' più robusti, qua e là. Al
bordo dei "fontanelli" è rimasta la
cappella votiva dei "Cuori abbietti" (aggettivo molto strano in un contesto di disperazione e d'infelicità). Una costruzione
con il piccolo delizioso pronao a due pilastri simmetrici che danno un senso di intimità. Qui ancora vanno devotamente
donnette che sentono bisogno e desiderio di pregare davanti alle affrescate
anime in purgatorio; oppure si danno convegno monelli, ragazzacci, innamorati.
Tutti protagonisti del presente, propaggini inconsapevoli magari delle mille e
mille piccole e grandi storie che l'umanità ha scritto con le lacrime e con il
sangue – e che essi stessi, chi più chi meno, scriveranno.
Con il sopraggiungere della
"spagnola", qualcuno avrà rinverdito la devozione per queste
"anime purganti", dividendo la disperata richiesta di aiuto tra la
chiesa di san Rocco e la "santella" dei
Cuori Abbietti. Alla fine anche la "spagnola" passò, ma la fede nei
Morti miracolosi della chiesa di san Rocco rimase.
A reggere il tutto è il
prete Bontempino (cognome Bontempi al diminutivo o
perché è un piccolo bontempone?), nomignolo che calza a pennello per la sua
statura molto bassa, testa ed arti minuti in stridente
e buffo contrasto con il ventre enorme (qualche spregiudicato gli chiede
quando deve partorire); il quale ventre tiene tirata la tonaca dalla bottoniera
che non finisce più, fino al limite della resistenza, facendogliela anche
salire sul davanti in modo da lasciar scoperti piedi, caviglie ed un bel po'
di stinchi scheletrici. Una maschera degna di Goldoni.
La chiesa di san Rocco
chiude il viale delle Rimembranze, al limite est di un piazzaletto dove esso muore.
Un bel viale questo, lungo circa trecento metri, con due file di grossi abeti
su ciascun tronco dei quali una targhetta annerita reca il nome di un caduto
della prima guerra mondiale.
Nel giorno di san Rocco,
patrono del paese, però, il viale diventa un piccolo parco di divertimenti,
piazzandosi anche un paio di giostre negli angoli più impensati. Allora anche
per il prete Bontempino è giorno di grascia: nonostante la povertà-miseria qualche nichelino
nella cassetta delle elemosine trova modo di cadervi. Ha così tanti poveri lui a cui pensare! È vero che i più disincantati non ci
credono. E la famiglia numerosa della sorella, allora, che campa discretamente
senza che nessuno dei suoi componenti lavori? Be', son poveri anche quelli, no?
Comunque il prete, che
ha lì la comoda canonica, sbircia il viale festaiolo, mentre le petulanti
piccole campane chiacchierano come comari euforiche buttando squilli a manciate
dalle aperture del campaniletto liscio. Alla fine
tacciono e lo spazio è libero per l'invasione di altre voci.
Trombette di latta,
strilli di bambini non sufficientemente soddisfatti, pive di legno colorato
d'un ciclamino carico, del volume d'una mezza sigaretta; ad
una loro estremità è legato un palloncino di gomma sottile che si gonfia ad
ogni soffiata, emettendo poi, alla fuoriuscita del fiato, uno sciocco sibilo,
fino a che il palloncino scoppierà e il tubetto di legno sarà buttato con raabbia; ma tant'è.
Tutto impazza sì che i
venditori devono scorticarsi la gola per attirare i clienti. Gli adulti
apportano all'allegria generale un notevole contributo, un po' dando sulla voce
ai rampolli, un po' scambiandosi battute e ridendo divertiti.
I bancarellari
intanto continuano a sgolarsi, a sbracciarsi sudati, sboccati, stanchi, strumentalizzando l'ingordigia dei piccoli con il porre loro
sotto il naso, in gesti, più o meno furtivi, quel bendidio
di croccanti, torroni, caramelle, biscotti. Non sempre va buca.
Pittoreschi tra tutti, i
fabbricanti di zucchero filato ("tirapicio").
In grandi teglie rettangolari, dal bordo alto un paio di centimetri, poste su
carbone acceso, lo zucchero si scioglie, rapprendendosi poi in una massa d'un magnifico fulvo chiaro e lucente. Mediante una tecnica
speciale sarà poi manipolato in modo da ricavarne un
matassa che verrà messa a cavalcioni dell'apposito gancio infisso in un
montante della bancarella. I gesti saputi e lenti del venditore la liscerà, dall'alto verso il basso con entrambe le mani, fino
a che sarà pronta per ricavarne treccine che induriranno subito. Treccine poco più grosse di un pollice, tagliate alla lunghezza di
quindici e trenta centimetri: dieci e venti centesimi di lira ("in contanti
e senza sconto").
– Eccolo là; hai
visto che si sputa sulle mani come i badilanti per lavorare il tirapicio? E tu lo mangi. Che schifo! – Una battuta
trita e ritrita che forse corrisponde a verità. Ma
oggi va bene tutto.
L'attenzione della gente
intanto è catturata da mille cose; ingordamente le vuole godere al completo,
quindi non si sofferma a lungo su di un solo spettacolo.
Il prete Bontempino, di tanto in tanto, s'affaccia
alla porta della piccola chiesa, sornione: non disdegna certo piccoli extra durante
la sagra; ma che cos'è mai di fronte all'altra fonte di introiti di cui detiene
il monopolio?
Si tratta di quelle ossa
sottovetro ritenute miracolose. La fama è sempre così solida che spesso arriva
gente da paesi lontani chilometri e chilometri, senza aspettare la festa del
patrono: la devozione e i bisogni affidati alla fede non hanno date.
Sono donne, ragazzi,
bambini, vecchi che giungono a piedi o su carri (rarissimamente su ambite
automobili) affrontando gelo e canicola affinché la mortificazione della carne,
il sacrificio siano una buona carta di credito presso i Morti chiamati in
causa.
Giunti alla meta i
postulanti si precipitano in chiesa; ed è già una grazia potersi sottrarre al
gelo o alla canicola esterni, quando non siano giornate autunnali o
primaverili. Poi tutti si dispongono intorno alle pile dell'acqua santa
tuffandovi le dita. Le mamme sollevano i più piccoli, li curvano verso
l'acquasantiera pregandoli di immergervi la "manina bella" e guidando
poi il piccolo braccio adorato nella mimica del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo, così sia che esse stesse hanno già
eseguito. Quindi ha luogo la genuflessione lenta,
compresa, con il viso oscurato da cocenti pene, rivolto all'altare.
Ecco, ora ci si può
accostare a quei Morti per chiedere. Tutti si pongono ginocchioni torno torno la grande lastra di vetro posta a metà dell'unica navata;
e la baciano con fede commovente, con frenesia; e vi passano sopra fazzoletti o
indumenti di un caro assente, magari inchiodato da una grave infermità; o preda
di qualche vizio che lo distrugge, e, con lui, la famiglia; o privo di fede
senza la quale c'è solo la terrificante certezza della dannazione eterna.
E poi la preghiera nella
quale si condensa tutto il senso del pellegrinaggio. Oltre
ciò bisogna solo abbandonarsi. Una preghiera composta di una introduzione recitata in dialetto e seguita da quella
più generale per i defunti, nel latino incompreso e incomprensibile della
povera gente: "Anime sante, anime purgante, va fó
mìa 'l nòm perchè si tante. Otre prighì per mé chè mé
pregaró per votre. Rechie meterna…" (Anime
sante, anime purganti, non faccio il vostro nome
perché siete tante. Voi pregate per me che io pregherò
per voi. Requiem aeternam…).
Le lacrime santificate,
la maggior parte delle volte, dalla fede più genuina e dalle più profonde
pene, bagnano il vetro con cerchiolini o cadono
altrove, anche negli incavi delle lettere scolpite nelle pietre sparse intorno,
di cui nessuno si preoccupa di conoscere il significato: la fede non ha bisogno
di sapienza.
Alla fine la frotta
anonima se ne va, non prima tuttavia, di aver deposto l'offerta in denaro
nell'apposita cassetta. Tutto si deve pagare a questo mondo. Perché non i
miracoli? La fede è elemento di primaria importanza ma l'offerta materiale è
l'appendice indispensabile.