Madame De Valmaurais

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

I settanta li aveva ormai compiuti. Si vedeva subito. Le gambette corte e malsicure le facevano muovere piccoli passi sì che sembrava saltellasse. La figura alquanto tozza era ornata con profusione di passamanerie, nastri, piume di struzzo: anacronistica ma dolce creatura fedele ad un passato – dirà in seguito – che le diede gioie pari ai dolori. È da privilegiati quando si può contare sul pareggio alla fine del nostro cammino.

La vidi per la prima volta nei pressi della Gare du Nord a Parigi, quando l'aiutai ad attraversare la via. Stringeva con un braccio un bellissimo siamese, mentre al guinzaglio teneva un cane bastardo e indemoniato che sembrava avere come unico scopo nella vita quello di far finire la padrona sotto qualche veicolo.

– Cher, mon cher… – gridava la povera donna.

Fu così che s'aggrappò a me senza nemmeno vedere chi o che cosa fossi. Se alla sua portata fosse spuntato per miracolo, un albero in quel momento non se ne sarebbe nemmeno accorta; si sarebbe semplicemente aggrappata al tronco con un profondo sospiro e il cuore impazzito. Approdata finalmente all'altro marciapiede la signora chiuse gli occhi come per accertarsi mentalmente di essere tutta intera. Poi, quando il suo cuore si fu un poco ricomposto, mi guardò incredula. Riuscì, chissà come, a riunire in una sola mano gatto e guinzaglio e, con l'altra resasi libera, accarezzò il mio braccio belando:

– Cara, la ringrazio molto. È la prima volta che esco con due animali contemporaneamente, ma le assicuro che non ripeterò mai più l'esperienza. –

Parlava un francese non stretto, compresso, tipico dei parigini, ma staccava bene le parole e parlava pianamente – forse era del sud francese, pensai. Per questo capivo quasi tutto ed il resto lo intuivo.

Per fortuna s'era allontanata appena una ventina di metri dal suo portone, così ve l'accompagnai e qui, prima di congedarsi, mi pregò di andare a trovarla, ma per carità che ci andassi che ne avrei avuto una gradita sorpresa.

Promisi e mantenni.

Promisi automaticamente pensando ad altro; mantenni per un punto d'onore, convinta però che la donna non si sarebbe più ricordata di me. Invece, nonostante fossero passate più di due settimane, mostrò di ricordarsi perfettamente del nostro bizzarro incontro e mi accolse con calore.

Ancora ferma sulla soglia mi informò che viveva sola eccezion fatta per quattro animali di cui due già conoscevo. Entrammo in anticamera dove fece le presentazioni degli altri due gatti che si erano avvicinati. Due soriani ben pasciuti e simpatici che mi si strofinarono subito contro le gambe. Seppi così che erano Pierre e Denise; mentre il siamese si chiamava più pomposamente Napoleon ed il cane Patatras. Dopo queste informazioni la donna mi fece strada verso l'interno del suo appartamento situato al primo piano di un palazzo vecchio, signorile e piuttosto trascurato.

Mentre mi guidava in quella che mi spiegò, molto orgogliosamente, essere la Chambre aux Diables, buttava fuori informazioni a getto continuo: le ero riuscita subito molto simpatica perché avevo l'aria di un soggetto interessante per i suoi studi; infatti si interessava da anni ormai alle scienze occulte, ma nessuno voleva prenderla sul serio e lei se ne risentiva un gran tanto, pur fingendo di nulla, per non dar soddisfazione, si capisce; essendo vecchia poi…

– Voici ma Chambre aux Diables! – esclamò all'improvviso arrestandosi sulla soglia di un salotto al quale non si poteva negare, a prima vista, una certa qual originalità. Qui si impalò ficcandosi le mani nelle ampie maniche del vestito, come uno sciocco piccolo bonzo. Il guaio era che non accennava più a muoversi. Allora, per non arrischiare di pietrificarmi, dissi quello che sapevo s'aspettava dicessi:

– Signora, è formidabile. –

Azzeccato in pieno. Subito si ringalluzzì tutta pregandomi di accomodarmi in una banalissima poltroncina ricoperta di cretonne a fiorami, mentre lei si arrampicava su un alto scranno, tipo aula universitaria, laccato di rosso. Così appollaiata incrociò le mani sul ripiano dello scrittoio che aveva davanti e chiuse gli occhi.

Non sapendo che altro fare mi guardai in giro. Come Camera dei Diavoli non è che mi dicesse molto, per la verità. Tuttavia, come avevo già intravisto, dovevo ammettere che era piuttosto inconsueta, non foss'altro che per l'accostamento delle tinte dominanti: scarlatto e giallo cromo. Ah, ecco: là, sotto la finestra, un piccolo tavolino coperto di macabro drappo nero e argento, su cui posava un malinconico teschio che pareva autentico. Chissà come ha fatto a procurarselo, pensai. Alla fine scoprii l'oggetto con cui si giustificava tanto spreco di aldilà (e la padrona di casa intanto stava sempre a occhi chiusi). Proprio in mezzo alla parete dietro il suo scranno, molto in ombra, stava un grande quanto orribile acquerello raffigurante una coppia di diavoli rossi e neri che tentavano di infilzarsi a vicenda come due monellacci; ma era chiaro che non dovessero riuscirci mai.

Finalmente la vecchia signora aprì gli occhi con un sospiro di soddisfazione. Mi chiesi se, nel frattempo, avesse schiacciato un pisolino lampo o se mi avesse osservato attraverso le palpebre semichiuse.

– Cara, vedo che guarda il mio amico. –

Era un pretesto goffo per trovare il modo di parlarmene poiché ora stavo guardando le sue quattro bestie stravaccate piacevolmente un po' qua un po' là nella stanza.

– Non si lascerà impressionare, spero. È tanto bravo, lui. È Mon Henri. –

Rabbrividii mio malgrado pensando a qualche suo Enrico – amico, marito, amante, fratello – ridotto là sul tavolino. Comunque la rassicurai che non stesse in pena per me; lo trovavo un teschio veramente simpatico; inoltre si vedeva ad occhio nudo che doveva essere una gran buona pasta. Naturalmente il significato della mia risposta non aveva importanza: quella donna era decisa a parlarmi delle sue faccende quindi attaccò subito senza misericordia:

– Oh, vorrei proprio che lei mi credesse. Sapesse quanto mi è caro Mon Henri! Io gli manifesto tutti i miei pensieri, gli chiedo consiglio e lui, non solo mi ascolta, ma mi risponde. In che modo, si chiederà lei. Be', questo è piuttosto difficile da spiegare. Diciamo che da Mon Henri partono vibrazioni le quali io capto con facilità. Non tutti lo possono fare, si capisce. Io ci sono arrivata dopo anni e anni di esercizio e di studi. E poi, pensi la delicatezza, la generosità di quell'essere meraviglioso. Quando arrivò qui avevo da poco battezzato questa stanza dedicandola a quelli là (così dicendo la donna buttò indietro la testa senza girarla, in un gesto non molto raffinato, per accennare all'acquerello. Mi chiesi perché tanta noncuranza, se non addirittura disprezzo; ma non ebbi tempo di soffermarmi a meditare perché la signora non s'era interrotta un attimo). Subito gli proposi di cambiarle nome per chiamarla Chambre Mon Henri, ma fu irremovibile. "Anne, mi disse, non pensarci nemmeno. Sono arrivati prima loro ed è giusto che le cose stiano così. Vuoi farmi sentire un usurpatore?" "Oh, santo cielo", ribattei ridendo, "non essere così melodrammatico". Ma egli non cedette e mi pregò di non tornare più sull'argomento. Bene, cara, non è meraviglioso? Ma cambiando un po' discorso, ho la netta sensazione che tra me e lei si stabilirà uno stupendo rapporto perché lei è un tipo molto ricettivo, ipersensibile. Non ha mai preso in considerazione la possibilità di diventare medium? –

Era una domanda troppo diretta per lasciarla cadere. Mi stavo onestamente sforzando di trovare una risposta diplomatica quando la signora scese dallo scranno con agilità impensabile accusandosi di essere una padrona di casa scadentissima. Come aveva potuto non pensare ad offrirmi almeno una tazza di tè?

– Faccio in un lampo, cara, – annunciò garrula.

Rassegnata la osservai uscire dalla stanza. E, rassegnata, attesi che tornasse. Ciò che fece dopo un tempo ragionevole. Poiché ogni cosa a questo mondo ha un termine, anche il supplizio del tè ne ebbe uno. Bevanda che, del resto, si manifestò migliore di quanto mi aspettassi, oltretutto servita con proprietà su un bel vassoio molto vecchio di legno intarsiato con suppellettili  di fine porcellana e cucchiaini d’argento.

La mia ospite versandomi la bevanda si scusò: lei poteva prendere il tè solo di mattina e non più di una tazza per via di certi disturbi gastrici, quindi non poteva tenermi compagnia. Che io facessi pure in tutta tranquillità, intento lei mi avrebbe parlato dei suoi studi sul paranormale. Borbottai un semplice bene senza calore perché qualsiasi cosa avessi detto ritenevo che lei non avrebbe nemmeno udito. Ero  decisa comunque a far transitare allegramente ogni parola dentro da un orecchio e fuori dall’altro senza lasciar loro la possibilità di depositarvi una minima traccia. Sono veramente allergica a questo genere di cose ritenendo chi ne fa uso un impostore e un truffatore … o una vittima come doveva essere quella fragile e sprovveduta creatura che mi stava davanti.

Così avvenne: lei parlò e parlò e parlò mentre io vuotai la tazza con molto sforzo perché all’improvviso mi venne il terribile dubbio che quella donna dovesse avere un concetto dell’igiene tutto suo.

 Quasi con un balzo depositai il vuoto senza preoccuparmi di interrompere la mia ospite a metà di una frase e, decisa, annunciai che ne ero molto dispiaciuta ma dovevo proprio lasciarla senza perdere un minuto di più.

Purtroppo, prima di mollarmi definitivamente la poveretta mi pregò con tale insistenza e con voce ancor più querula del solito,  di andarla a trovare il più presto possibile, sicché alla fine mi intrappolai in una nuova promessa.

 

Eravamo a maggio, la sera era estremamente dolce. Io ero senza peso, mentre il cuore mi si allargava in petto per assorbire ingordamente l'innegabile eterna magia della primavera. Forse fu questa snervante dolcezza che era dappertutto a rendermi generosa. Fatto sta che decisi all'improvviso di andare a fare visita alla signora De Valamaurais. Era passata appena una settimana dalla promessa. Glielo annunciai per telefono e di lì ad un’ora e mezza mi accolse con gridolini di gioia chiocciandomi attorno: non avrei potuto scegliere momento migliore, a suo dire, perché tra poco sarebbe venuto anche il “dottore”, una persona veramente straordinaria, tanto da far pensare che gli angeli non sono tutti in cielo.

– Vede, dunque, ho ragione di ritenere che ella possiede una grande forza; la forza che ci dà la possibilità di provocare, badi bene, non dico prevedere, ma provocare, le cose piacevoli. Tale fluido, muovendosi nell'etere, va ad investire il soggetto interessato. –

Le si erano accesi occhi e pomelli per l'eccitazione così che non ebbi cuore di farla scendere dall'Olimpo. Inoltre, se non tutto angelo, poteva darsi che lo fosse almeno in parte quel tizio; sarebbe già stato qualcosa e, conoscendolo, non ci avrei rimesso nulla. Tuttavia non volevo barare: aprii la bocca per chiarire che non credevo nello spiritismo con annessi e connessi. Ci tenevo ad evitare che venissero a crearsi malintesi i quali, minimo, avrebbero amaramente deluso la povera signora. Purtroppo la sciocca non mi lasciò proferir verbo continuando a rovesciarmi nelle orecchie le sue idee strampalate. Ma quando ormai disperavo di poter arginare quello straripamento, sognando come un bene precluso per sempre dolci spiagge silenziose, la donna tacque senza nulla che potesse avere la parvenza di un preavviso. Era appollaiata sul suo alto scranno dove aveva preso posto appena dopo il mio arrivo, con le mani abbandonate sul ripiano dello scrittoio.

– Signora… – mormorai senza sapere quello che avrei detto. Ella si riscosse e mi guardò quasi smarrita; ma subito si riprese annunciando con brio:

– Ma certo, cara, intanto che aspettiamo il “dottore” le farò il gioco dei tarocchi. Accosti la sua poltroncina, per piacere. –

Mentre ubbidivo ricacciandomi in gola un rifiuto netto, la piccola mano destra della vecchia signora subito scattò ad afferrare il mazzo delle carte, ben messo sul piano dello scrittoio. Per alcuni secondi ondeggiò ancora su questa terra, poi si inoltrò nel suo empireo dove mi rifiutai di seguirla. Si inabissò più volte in silenzi gravidi di meditazione per riemergerne altrettante in sproloqui più o meno intelligibili. Nel frattempo le mani delicate anche se segnate dagli anni,  si muovevano con grazia e destrezza.

Era ormai tardo pomeriggio e la stanza, già poco felicemente illuminata di per sé, era immersa in una spessa penombra, rotta appena da una tenue luce rosata proveniente dal paralume a perline della lampada a stelo, posta in un angolo, che era stata accesa poco prima. Il rosso e il giallo, così distinti alla luce del giorno, ora sembravano confondersi in una tinta discreta: il tutto per convergere e smorire assorbito dalla lucida calotta di Mon Henri. Dai vetri aperti un’aria tenue entrava gonfiando le tendine che fluttuavano in un abbandono consapevole. Ed io mi lasciavo avvincere da queste immagini che intravedevo appena attraverso le palpebre semichiuse, e che assorbivo con tutti i pori dilatati, avidi. Fortunatamente stavolta la mia ospite dimenticò i suoi doveri di padrona di casa, quindi non ebbi nemmeno da affrontare il supplizio del tè.

Intanto parlava e parlava senza più silenzi. La sua voce mi giungeva a ondate quasi faticasse a rompere quel bozzolo di torpore che si era formato intorno alla mia coscienza – … felicità … viaggio attraverso l'oceano … nemici sconfitti … amore eterno … – Ma nemmeno tali offese al mio buon senso riuscivano a scompormi. Vi riuscì invece la prepotente scampanellata che ruppe l'incanto mio e la loquela della padrona di casa, la quale, illuminandosi tutta, depose frettolosamente il mazzo di carte.

– È il dottore, è il dottore, – annunciò con voce quasi infantile Quindi si precipitò ad aprire.

Dopo un breve parlottare, sopraffatto dall'indiavolato abbaio di Patatras, che giunse dall'anticamera, potei finalmente avere il sommo bene di conoscere l'essere superiore.

Fu un impatto. Un groviglio di sensazioni mi aggredì quasi rabbiosamente. Tuttavia, fra esse, tre aggettivi si fecero strada in modo deciso: intelligente, corrotto, pericoloso. Ero convinta di averlo inquadrato e ne ero soddisfatta da un lato, mentre la mia inquietudine sembrava rassodarsi ad ogni secondo che passava aggrovigliandomi in un nodo d’ansia.  

L’uomo doveva avere da poco superato la quarantina, piuttosto basso aveva una bella pancetta che gli stava abbastanza male piazzata a metà figura. Vestiva con raffinata eleganza e, nell'insieme, avrebbe potuto essere accettabile se non fosse stato per il viso quadrato, dal naso leggermente camuso e la bocca tumida in aperto contrasto con gli occhi piccoli, neri, lustri come per febbre; di quelli che sanno denudare un interlocutore, non importa sesso, condizione, età. Ostentatamente guardai altrove  

In seguito alle premurose presentazioni della padrona di casa l'uomo mi strinse la mano trattenendola nella sua più del necessario. Uno schifo, anche se la sua palma era secca, senza cioè quel sudorino che, legato a una persona detestabile, diventa immediatamente emetico. Gli strappai di mano la mia destra decisa a congedarmi. Sennonché quella sciocca della De Valmaurais non ne volle sapere: ma che cosa mi veniva in mente, per l'amor del cielo … Belando e belando mi incastrò un'altra volta.

– Oh, la prego, cara, rimanga. Sono sicura di interpretare anche il desiderio del “dottore”. Sarà felicissimo di approfondire la sua conoscenza; e sono altrettanto sicura che sarà della mia opinione circa il fatto che lei è un soggetto molto interessante per i nostri studi. –

 Mi accorsi che l'angelo mancato mi fissava sfidante. Gratificandolo mentalmente di un paio di pesanti epiteti mi rimisi a sedere piena zeppa di rabbia. Naturale che mi bruciasse il fatto di non essere io a chiudere la mano con una frase di quelle che fanno sbiancare coloro a cui sono dirette. Piuttosto di niente mi accontentai di un meschinello:

– La prego, signora, di dire a questo signore che io non credo in niente di tutto quello che a loro interessa. Almeno fino a che qualcuno sarà così in gamba da dimostrarmi che ho torto. –

La povera donna, avvertendo burrasca, mi guardò sorpresa e addolorata nel contempo. Osò appena sfiorare l'uomo con quel suo sguardo d'agnello ma lo distolse subito: forse temeva un acerbo rabbuffo.

– Signora, o signorina … – l’uomo fece una breve pausa   durante la quale puntò gli occhietti su di me con una tale improntitudine che fui di nuovo costretta a guardare altrove. L'impudente dovette gongolare segnando un punto a suo favore.

– Signorina immagino, dato che non le vedo la fede all'anulare, – riprese quando gli parve di essere certo che anch'io avevo preso coscienziosamente nota del mio svantaggio. – Mi creda, è un errore ritenersi sicuri di qualcosa. Spesso la vita ci dà lezioni piuttosto dure in tal senso, facendoci fare delle clamorose e umilianti retromarce. Lei potrà obiettarmi che nel suo discorsetto fatto alla nostra Anne, a mio esclusivo beneficio, ha ammesso di essere pronta a mutare avviso qualora possa constatare che l’occultismo ha un fondamento di verità. Ma ella ammette ciò come una possibilità ben remota. Meglio ancora: lo ammette senza convinzione, solo per non passare da persona dalle idee ristrette. – Altra breve pausa, sguardo concentrato e grinta per la ripresa prossima e inevitabile. Nel frattempo mi chiesi fino a che punto si rendeva conto che l'ultimo degli imbecilli era in grado di tenere un discorsetto così magrolino.

– Vede, io non ho la pretesa di considerarmi una grande autorità in materia, ma nemmeno mi ritengo uno sprovveduto e le assicuro che se sarà docile (o forte) da liberarsi dai suoi pregiudizi accordandomi un poco di fiducia, sarò io quel qualcuno che le farà cambiare opinione. E non le arrecherò l'offesa d'un ipocrita "modestamente parlando": fra persone intelligenti non mi sembra il caso. –

Anne De Valmaurais, a quelle perle di eloquenza, ebbe un attacco inaspettato di imbecillità senile; battendo le mani incominciò a declamare in falsetto per l'emozione che impediva alla voce di uscire in modo normale:

– Che le dicevo, cara? È un uomo straordinario. Senza alcuno sforzo da parte sua vedrà che le …

A questo punto accadde qualcosa che mi fece sudar freddo: mentre la ninfa bamboleggiava con lo sguardo adorante fisso sul satiro,  quest’ultimo le puntò addosso gli occhi nei quali lessi un disprezzo così compatto da sfociare nell'odio. La poveretta dovette sentirsi nella carne quell'ostilità tutta spine perché fu come che qualcuno l'avesse richiamata a maggior contegno con un grido. Ebbe un sussulto, troncò la frase e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Rimasi molto sorpresa di non vederla afflosciarsi al suolo come un palloncino sgonfiato. E mentre osservavo il suo sguardo di cane infelice e umiliato posarsi su di me e sul suo amico alternativamente, sentii nel cuore una pena incontenibile. Questione di secondi. Posandomi di nuovo gli occhi addosso l'uomo riprese a parlare con enfasi. Ma oramai non lo udivo più: mi aveva preso una folle paura di natura ignota la quale, sentivo, era caparbiamente refrattaria ad ogni mia volontà di razionalizzazione. L'aria m'era diventata irrespirabile nonostante le tendine fluttuassero ancora. Un unico pensiero mi martellava in testa: andarmene, scappare il più velocemente possibile. Così, infischiandomi dell'etichetta, mi alzai decisa quasi gridando un buonasera conosco la strada e subito infilai il corridoio che portava all'uscita. Riuscii ad aprire il chiavistello non so come e, mentre mi precipitavo giù dalle scale, per un attimo provai l'assurda impressione che Mon Henri mi rotolasse alle calcagna.

Oh, la via finalmente!

Feci ancora qualche passo prima di addossarmi al muro per riprendere fiato e fare il punto della situazione. Vista la faccenda con più calma mi sentii ridicola. In fondo non era accaduto nulla che giustificasse l'attacco di panico di cui ero stata vittima. Va bene, c'era stato quello sguardo. Effettivamente, rivedendomelo nella memoria ancora fui scossa da un lungo brivido; tuttavia la mia reazione di poc'anzi mi pareva, là nella via, assurda a dir poco. Non mi sorprese quindi l'ondata di compassione e rimorso che mi assalì non appena la figura dell'uomo venne soppiantata da quella, anche se in dissolvenza, della vulnerabilissima vecchietta. Santo cielo, come avevo potuto infliggerle un torto simile?! E va bene, mormorai in solenne promessa alla figura che ormai anche lei, si andava condensando all'orizzonte in un grumo amorfo, di nebbia, verrò a trovarti prima di quanto tu speri.

Essendomi messa a posto la coscienza raggiunsi e mi avviai per il trafficato boulevard Magenta, costringendomi a reimmergermi nella primavera.

 

Invece non avrei più rivisto quell'incredibile creatura se non nella sua brutta fotografia in terza pagina di un quotidiano, due giorni appresso.

"La signora Anne De Valmaurais è stata trovata morta ieri nella sua abitazione, ove viveva sola se si eccettuano un cane e tre gatti. Si hanno buone ragioni per credere che il movente sia la rapina in quanto la donna godeva di una cospicua rendita e l'appartamento è stato trovato a soqquadro. Dalle testimonianze di alcuni vicini e dei fornitori risulta che la donna possedesse gioielli di grande valore e denaro liquido che teneva in casa non fidandosi delle banche. Voci che circolavano; probabilmente la poverina si sarà lasciata sfuggire qualcosa con una o due persone. Non è impossibile, nonostante non desse confidenza a nessuno e per quanto la vita che conduceva facesse pensare ad una dignitosa povertà. Da un primo accertamento si presume che la morte risalga a ventiquattro ore circa dal ritrovamento del cadavere. Morte dovuta quasi certamente a strangolamento avendo la poveretta ancora stretta intorno al collo, una calza femminile di nylon; ma si potrà essere più precisi dopo l'autopsia che verrà effettuata quanto prima. Da un paio di condomini si è potuto ricavare che da poco più di un mese la donna era solita ricevere un tizio, sempre verso sera, il quale si intratteneva a lungo. L’identikit che gli esperti hanno potuto ricavare dai testimoni fa pensare ad un tizio, originario della Svizzera francese, che si spaccia per un esperto di scienze occulte, già noto in Quai des Orfèvres. Oltre la gendarmeria parigina se ne sta interessando anche l’Interpol”

L’articolo finiva così. Tutto qua? Stavo seduta sul letto della mia stanza d’affitto e, mentre lasciavo cadere il quotidiano, fui scossa da un brivido; non era paura tardiva, realizzai subito, ma rimorso per aver lasciato la poveretta in modo tanto inurbano, immeritato. Mi guardai automaticamente la mano destra che aveva stretto quella di un assassino (anche senza prove lo davo per scontato), e in modo del tutto meccanico, corsi a lavarmele entrambe, a lungo, risciacquando e risciacquando senza quasi capire quello che stavo facendo. Una mano gelata mi rinserrava lo stomaco: nessuno avrebbe potuto togliermi dalla testa che la mia presenza, quella maledetta sera, aveva accelerato i tempi di una morte già decisa. Ma ecco subito un altro pensiero forse anche più doloroso: che fine avrebbero fatto quei quattro graziosi viziatissimi animali?