Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
L'androne del vecchio
palazzo patrizio era suppergiù come quello degli altri palazzi di cui via
Marsala era piuttosto fornita: atrio con pavimento a mosaico di tessere gialle
e nere, diviso a metà da un basso cancello in ferro
battuto, un porticato che teneva il lato sud, infine cortile con giardino. Non
era tra i più ricchi e maestosi, ma era pur sempre carico di decoro. Nel
quadrato tenuto a giardino una sdegnosa araucaria era
costretta a convivere con magre piante di pomodoro, spazietti
di radicchio e di prezzemolo e qualche altro tipo di ortaggio: triste visione
emblematica, residuata dall'ultima guerra.
Ma la guerra era finita
da varie stagioni, ormai; ed anche se il suo ricordo
non sarebbe più svanito del tutto, queste abitudini di sfruttare ogni pugno di
terra per fini edacei furono le prime ad essere abbandonate
dai proprietari di vari immobili. Qui invece nulla era tornato come prima:
sull'araucaria, sul pavimento a mosaico e sul cancello a metà androne (l'arte,
a volte, riusciva a salvarsi dalle fauci della guerra che divorava
incessantemente oro, rame, ferro) era stato caricato tutto il peso di
testimoniare i passati fasti di quella dimora. L'interno era tutto un penoso
scempio: tramezze di legno che spezzavano senza misericordia scene affrescate,
già intaccate, del resto, da fuliggine e muffa; tubi di stufa che si infilavano sadicamente nel ventre di satiri o ninfe;
tende poco meno che sbrindellate che pendevano dritte e sghimbesce. Si era cioè
cercato di ricavare il maggior numero di bi- e monolocali da affittare senza
però apportare le ristrutturazioni necessarie in questi casi.
Uno dei monolocali era
occupato da Miss Rory. La sorella di costei, maggiore
di qualche anno, ne occupava un altro. Il resto era tutto affittato. La guerra
aveva bloccato ogni attività di speculazione della padrona che s'era trovata a dover attingere a liquidi e a gioielli fin
che ve ne furono. Alla fine, per sopravvivere, non aveva trovato di meglio che
la soluzione di cui sopra.
Anche Miss Rory aveva attinto alla sua parte di liquido e di gioielli
ma con ben altro criterio polverizzando il tutto in un batter d'occhio; da
ultimo aveva venduto il palazzo di sua proprietà simile a questo e situato in
una via parallela. Dopo di che era andata a frinire davanti alla tana della
formica. Ma la formica previdente si dimostrò sorda ad
ogni lamento della cicala, sicché, quest'ultima, non trovò di meglio che
citarla in tribunale.
E il giudice aveva
favorito la gaudente. Un vecchio satiro schifoso,
sibilava la condannata con astio comprensibile. Un vero gentiluomo pieno di savoir fair, ritorceva Miss Rory con satanica soddisfazione.
"Nessun uomo sia
così stolto da lasciarsi influenzare dal passato (se non per compatire) nelle
sue decisioni; ma con saggezza giudichi alla luce del presente. Noi stabiliamo
quanto segue: la signorina De Catalani Laura Concetta fu Giuseppe Giacomo dovrà
provvedere vita natural durante
la di lei sorella Rosetta Maria Assunta, detta poeticamente Rory,
di vitto e alloggio, poiché le vicissitudini della vita, da quest'ultima
affrontate con temperamento artistico e non con gretto calcolo, l'hanno ridotta
sul lastrico."
Così, se prima di questo
verdetto tra le due sorelle esisteva una ostentata
indifferenza, ora un odio feroce, aggravato dal fatto di vivere sotto lo stesso
tetto, se non proprio a gomito a gomito, le divideva irrimediabilmente. Tutto
quello che poté fare la signorina De Catalani Laura
Concetta per vendicarsi del satiro e della cicala fu di assegnare a quest'ultima
il vano forse più infelice di tutto il palazzo: una stanza di una decina di
metri quadrati al secondo piano, con una finestra senza persiane e due lastre
di vetro sostituite da carta oleata, che dava su un vicolo stretto e buio. In
un angolo un lavello di graniglia, naturalmente con sola acqua fredda, che la cosiddetta
Rory trasformava con disinvoltura, in lavabo o bidé a seconda delle necessità. Il
poco mobilio indispensabile era quanto di più eterogeneo si possa immaginare;
mentre il gabinetto, in comune a tutti gli inquilini del piano, era situato in
fondo ad un lungo corridoio.
Alla fine Dibela era riuscita a
firmare un contratto d'affitto con la signorina De Catalani Laura Concetta fu
Giuseppe Giacomo, così poté trasferirsi nella stanza attigua a quella occupata
da Miss Rory. La porta di comunicazione tra i due
locali era stata sbarrata dalla miss con il canterano; ma appena, sbirciando
dalla fessura della sua porta che dava nel corridoio, aveva visto la nuova
vicina, aveva capito immediatamente che sarebbe stata facile preda. Il
canterano tornò immediatamente al posto che occupava prima, avanti cioè che la
precedente inquilina, che aveva lasciata libera la
stanza ora occupata da Dibela, avesse fatto capire,
con parole e con fatti alla vecchia miss, che lei non era sfruttabile.
Dibela così prese possesso del
nuovo alloggio commettendo l'errore di non dare peso alla porta di
comunicazione. Era una ragazza di venticinque anni, secca di viso e di corpo
eppure dolce nell'insieme, aperta. Le sue origini erano umilissime e lei non
riusciva mai a confessarlo con serenità, spontaneamente, perciò evitava con
accuratezza l'argomento. Per la sua intelligenza e
volontà era riuscita a trovare un lavoro presso uno studio notarile, il cui
stipendio, tuttavia, unito alla crisi degli alloggi, non le permetteva nulla
di più di quel monolocale. Non che quel lavoro le piacesse, oltretutto; ma era
già tanto averlo un lavoro.
La ragazza amava sognare
corroborando i sogni con ogni tipo di lettura. Sognava, vagheggiava, immaginava
di trovarsi, per un colpo di fortuna nel mondo dorato dei ricchi, non tanto per poter disporre del denaro in sé, quanto per poter
disporre di tutto il suo tempo: questo il denaro le avrebbe permesso e lei ne
era ghiotta. La noia? Ma come è possibile annoiarsi
quando si possono fare tutte le esperienze restando contemporaneamente padroni
di se stessi?
Aveva già udito parlare
delle sorelle De Catalani e subito aveva immaginato che i fasti passati
avessero lasciato una specie di polverina magica appiccicata a quelle pareti, a
quei muri tra cui sarebbe andata a vivere. Avrebbe solo dovuto chiudere gli
occhi, concentrarsi, ed ecco che l'atmosfera evocata si sarebbe fatta avanti intatta, avvolgendola. Se non altro ciò poteva essere un
buon surrogato in attesa che la fortuna l'avesse introdotta nel mondo
desiderato.
Miss Rory
ebbe campo facile, senza neanche il bisogno di sottili manovre: bastò lei
stessa con la sua aria di nobile in decadenza o già decaduta da un pezzo, con
il lungo collo di tartaruga avvolto in un boa tarlato di piume di struzzo e
quattro anelli per mano, parte di ottone parte di
rame; quelli cioè che nessuno, nemmeno il monte dei pegni, aveva mai voluto.
Sprovveduta com'era la ragazza non poteva essere
critica nei confronti di quella apparizione; così, quando la incontrò nel
corridoio, non sospettò che la miss aveva provocato la coincidenza.
Quest'ultima sfoderò un bel sorriso salutandola nella sua lingua d'adozione:
– Good morning, darling. –
La ragazza rispose
prontamente:
– Good bye, lady. – Assieme ad altre cinque o sei parole
l'inglese di Dibela finiva lì. E non era nemmeno
sicura che quella fosse la formula adatta di saluto. La vecchia Rory fece fatica a trattenere uno scoppio di soddisfazione:
quello era già il grande disgelo, non le piccole crepe nel ghiaccio che lo preannunciano.
Era di mattina e Dibela stava andando al lavoro; perciò la signorina si
ripromise di sferrare l'attacco quella sera stessa, al suo rientro. Sarebbe
bastato tendere l'orecchio: il pannello della porta che metteva in
comunicazione i due locali lasciava passare ogni rumore.
Dopo la chiusura degli
uffici dovette attendere abbastanza a lungo perché Dibela,
per risparmiare, rincasava a piedi – un lungo tratto – e talvolta si
fermava ad acquistare qualcosa per la cena. Non appena la miss udì che la
ragazza entrava nella sua stanza, bussò con le nocche dure come legno
stagionato. Nessuna risposta. La donna lasciò trascorrere pochi secondi, poi battè altri tre colpi decisi aprendo contemporaneamente la
porta:
– Permette, cara? vorrei entrare un minutino. –
Se c'era al mondo
qualcosa che faceva infuriare la ragazza era
l'arroganza. Per questo non riuscì ad essere
cordiale; ma nemmeno riuscì a mettere l'ospite indesiderata sull'attenti:
quella donna era pur sempre il passaporto per entrare, se non nel mondo reale
desiderato, almeno in maniera teorica. Per questo si limitò a guardarla e ad
attendere. Con invidiabile faccia di bronzo la miss continuò:
– Come vicine
d'uscio, diciamo, ho pensato che è meglio conoscerci
bene. Le pare? – Così parlando s'era lasciata
cadere sul lettino di ferro addossato con una sponda alla parete; beatamente
accavallò le gambe coperte da un paio di calze smagliate e macchiate di fango.
Dibela guardò perplessa pensando che erano passati
almeno quattro o cinque giorni dall'ultima pioggia. Facendo poi scorrere lo
sguardo dai talloni in su ebbe quasi un sussulto
quando vide l'orlo della pesante sottana, non certo fresca di tintoria,
trattenuto in due punti da spille da balia. Eppure la donna ha classe, pensava
la ragazza forse per non atterrare in modo tanto disastroso: bastava vedere con
quale grazia estraeva un'Alfa dal pacchetto quasi vuoto e malmesso, senza
offrire, infilandosela poi tra le labbra sottili. Classe o disinvoltura di
donna navigata e priva di scrupoli? Ma la
sprovvedutezza di quella sciocchina non poteva giungere a tanto; per questo si
accontentò di concedere alla realtà, tanto palese, che quella donna non
possedeva il dono di attirarsi simpatia e stima; almeno al primo incontro.
Miss Rory intanto s'era
ritolta la sigaretta dalla bocca riprendendo a bamboleggiare:
– Oh, cara, mi
dispiace darle l'impressione di una scroccona, ma dovrebbe usarmi la cortesia
di farmi accendere. Ho dimenticato di là i cerini e sono troppo pigra per andare a prenderli. –
Dibela, più infastidita che mai, strofinò uno
zolfanello e porse il fuoco. Soddisfatta la donna incominciò a tirare golose
boccate lasciando lentamente uscire il fumo dalle narici dilatate ed imprimendo alla sigaretta, di tanto in tanto, un sapiente
movimento con la mano per formare cerchi di fumo che fluttuavano vivi e si
allargavano sempre più fino a sciogliersi dopo blandi contorcimenti.
La fumatrice silenziosa
stette un po' a perdere lo sguardo sognante nella loro osservazione, mentre la
ragazza guardava quel volto largo e avvizzito in preda ad uno strano turbamento
unito a disgusto: non le era mai capitato di legare pensieri lascivi all'atto
di fumare. La voce petulante interruppe queste considerazioni:
– Sicché lei
sarebbe la nuova inquilina di mia sorella. Scommetto che quell'arpia le ha già
parlato di me. A modo suo, si capisce. Ma io, che tengo
moltissimo ai rapporti di buon vicinato, vorrei che sentisse anche la mia
campana. –
Dibela non poteva fare a meno di ascoltare con curiosità anche se si rendeva conto che la gentildonna
stava popolarescamente lavando i propri panni sporchi
al cospetto di una sconosciuta. Gli idoli son così facili a sgretolarsi?
Ascoltando si disprezzava perché avrebbe dovuto dire che non sarebbe male
tenere conto che ognuno di noi è afflitto dalle proprie debolezze, quindi non è
bello giudicare il prossimo con severità. Era il minimo che potesse fare in
favore della sua padrona di casa della quale
condivideva le idee di risparmio. Eppure la ragazza ascoltò fino in fondo
annuendo blandamente con cenni del capo.
Finalmente Miss Rory si alzò lisciandosi la gonna sui fianchi. Fece per
muovere verso la porta ma subito si bloccò per piantare gli occhi celeste
chiarissimo in faccia a Dibela che si accingeva ad
accompagnarla:
– Cara, avrà notato
che non mi sono preoccupata di dirle il mio nome e di chiederle il suo, perché
sono convinta che il mio lo conosce già per bocca di
mia sorella, mentre io ho letto il suo sul cartoncino appiccicato alla porta.
Perciò è come che già ci conosciamo. Le dirò anche perché amo essere chiamata
Miss Rory.
È un nome meraviglioso per i ricordi che lega a sé. I ricordi dei miei venti-trent'anni, e un po' più in là, anche, che sono
legati soprattutto all'Inghilterra, ma anche alle più belle spiagge d'Europa, nonché a Miami, ai Caraibi… Mi
creda: della vita ho colto il meglio e non mi pento. Anzi, sono perfettamente
d'accordo con quel tale che scrisse come i rimorsi della virtù siano più
cocenti di quelli del vizio. Il marchese De Sade, mi
pare. Non certo come quella pidocchiosa fetente che ho per sorella. –
A Dibela
parve di sentirsi sulla pelle la brezza di Ostenda, il sole di Antibes, il
clima elettrizzato dei casinò. Tutte cose lette soltanto nei
libri purtroppo. La vecchia signorina intanto aveva allargato le braccia
abbozzando un giro di valzer e declamando con enfasi:
– Ah, quella era
vita! Ne parleremo, ne parleremo. Un'altra cosa
ancora: domani sera do un tè; una cosettina
da nulla vero?, e vorrei tanto che lei intervenisse. –
Naturalmente Dibela si protestò lusingata. E lo era in effetti. Poi le
venne il dubbio che forse non aveva abiti adatti. Dubbio che esternò all'altra
non senza vergogna.
– Oh, cara la mia
colomba, stia tranquilla: lei può venire anche in sottoveste, se crede. –
E qui l'ospite scoppiò in una risata che alla ragazza sembrò fuori posto.
– Ci sarà altra
gente? – Erano ben dure a morire le sue idee preconcette (o le sue
speranze?).
– Solo un paio di
amici e, naturalmente il mio Pussi. Stasera non l'ho
portato per farglielo conoscere perché dormiva così bene che non ho avuto il
coraggio di svegliarlo. – Con un bacio sulle
punta delle dita unite, non molto in carattere con il suo incedere maestoso, la
miss uscì di scena. E Dibela trascinò il tavolo
contro la porta di comunicazione, spinta non da una
ragione precisa, ma dalla perplessità: strana donna quella miss. Avrebbe fatto
mettere una serratura più solida.
Era appena rincasata quando udì il secco battere sul legno
della porta. Dibela spostò il tavolo e aprì sicura
che si trattava della vicina. Era lei, di fatto, che disse:
– Buona sera, è un
po' presto, ma vorrei che venisse da me a tenermi compagnia intanto che mi
preparo. –
La ragazza spiegò che
desiderava darsi prima una rinfrescata. Al che Miss Rory raccomandò di far presto. Aggiunse con
impudenza:
– E poi non blocchi
la porta: mi dà l'idea che siamo nemiche, e questo non è bello. Basta che
chiuda quella che dà sul corridoio. – Ciò detto la donna si ritirò.
Un'ondata d'indignazione
sommerse la ragazza; tuttavia non ebbe il coraggio di rifiutare l'invito con
una frase pepatina, così si preparò il più in fretta
possibile. Quando socchiuse la porta chiedendo premesso la donna
gridò festante:
– Avanti, cara, sia
la benvenuta. Adesso conoscerà anche il mio Pussi. –
Un cagnetto nero,
intanto, s'era srotolato pigramente per avvicinarsi
festoso all'ospite. Per fortuna della ragazza le piacevano gli animali, così,
onde sottrarsi al disagio che l'aveva inspiegabilmente assalita al mettere
piede in quella stanza, si mise a giocherellarci.
Intanto era caduto il silenzio, rotto soltanto dal rumore dell'acqua che
scendeva dal rubinetto aperto. Fu la voce della padrona a romperlo:
– Mi dica l'ora,
per favore. –
Dibela consultò l'orologio che teneva al polso e alzò
il viso per comunicare alla donna che erano le venti. Ma
rimase senza voce: Miss Rory stava ritta davanti al
lavandino, dandole di schiena, nuda come un verme.
Quando si girò per ripeterle la domanda il viso della ragazza dovette apparirle
molto buffo perché la donna scoppiò in una sonora risata:
– Oh, signoriddio, non pensavo che lei, ragazza di palese
intelligenza, si formalizzasse per sciocchezze simili. Vede, se non mi lavo
come Dio comanda non mi sento a posto. Ed ho preso l'abitudine di farlo a quest'ora perché mi aiuta a passare notti
tranquille. –
Parlava con
disinvoltura, sconcia nella sua nudità bianchiccia, mentre i seni lunghi
tremolavano come due frutti gelatinosi. Dibela si
accorse di arrossire. Di tanto in tanto lanciava occhiate verso la porta che dava
nel corridoio, dalla quale chiunque avrebbe potuto
entrare in qualsiasi momento perché non era chiusa a chiave. Poi si accorse che
stava stupidamente giustificandosi:
– Ma io non mi formalizzo affatto, si figuri. È che non riesco a
capire come faccia a sopportare il freddo di questa stanza così, senza vestiti;
e con l'acqua fredda, poi… – Vero anche questo,
dopo tutto; ma certamente non era il pensiero
dominante. Tuttavia il suo affannarsi era inutile, la donna pareva
maledettamente consapevole del suo disagio, ma soprattutto pareva ricavarne
una maligna soddisfazione.
– Cara, intanto che
mi vesto, veda un po' di rammendarmi queste calze, per favore. Lei ha l'aria di
essere molto portata per queste cose e sono anche convinta che possiede tutto
l'occorrente. Non mi sbaglio mai io nel giudicare il prossimo, sa? Intanto le
parlerò di quella che è la vera vita e che lei stessa, volendo, potrebbe
conoscere da vicino, potrebbe vivere. –
Senza attendere il
consenso di Dibela le gettò le calze che si era tolta poco prima. La vittima le afferrò al volo in un
gesto istintivo, ma le mollò subito schifata avvedendosi che erano le stesse
sporche di fango che le aveva visto indosso la sera avanti. Ben strano concetto
aveva Miss De Catalani della pulizia personale.
Stavolta la ragazza
prese il coraggio a quattro mani e si disse molto dispiaciuta
ma non possedeva l'occorrente per aggiunstare le
calze perché non lo faceva nemmeno per se stessa. Mentalmente prese nota che
quella era una delle pochissime bugie dette fin dove giungeva la sua memoria.
Miss Rory
incassò bene. Girandosi senza smettere di asciugarsi energicamente con una
vecchia salvietta mormorò:
– Strano, sì, molto
strano. Allora mi getti le mie così come stanno. –
Dibela ubbidì cercando di nascondere il disgusto, ma
avrebbe quasi giurato che quell'insopportabile donna aveva già volto il suo
pensiero altrove e non si sarebbe accorta di nulla nemmeno se avesse fatto una
mezza dozzina di smorfie di schifo.
Fortunatamente un lieve
strusciare alla porta fece da diversivo. Corrugando la fronte Dibela guardò interrogativamente la padrona di casa che si incamminò da quella parte, senza curarsi di coprire le
sue oscene nudità e rassicurando l'ospite:
– Non si preoccupi:
è la mia sorellina che mi lascia davanti alla porta il cibo quotidiano. –
Il volto della donna si era tramutato in una sconvolgente maschera d'odio.
Ritirò il sacchetto di carta marrone e tornò presso il piccolo tavolo posto in
mezzo alla stanza.
– Ecco, cara, stia
attenta, – disse contando sulle dita delle
sinistra e pescando nel sacchetto con la destra. – Due fette di
mortadella, un pezzetto di fontina trasparente di tanto è sottile, tre panini,
due zollette di zucchero, una cucchiaiata di tè di quello scadente. –
Mise, con un ghigno, la mano sinistra dalle dita spalancate davanti agli occhi
della ragazza e annunciò in un trionfo maligno.
– Visto? tutto qui. Qui sulle dita di una sola mano. La odio; oh,
quanto la odio quella schifosa taccagna. Questo cibo
mi deve bastare per una giornata, cioè tutto domani. E le sigarette? E i
biscotti per il mio Pussi? E tutto il resto che serve
a una persona civile? Ma l'esosa sordida strozzina
non pensa a queste cose. –
Dibela sentiva di dover pronunciare almeno una frase di
solidarietà; ma aveva veramente torto la sorella sparagnina? Così, senza sbilanciarsi, chiese:
– Le porta le
stesse cose tutti i giorni? –
– Oh, no! l'amata Laura si preoccupa della mia anima: di venerdì
sostituisce l'affettato con del pesce vecchio come mio nonno; mentre di
domenica aggiunge un frutto, una tazza di brodo o un quartino di latte. Latte dico, neh? non confondiamoci: il
vino sarebbe peccaminoso. Se non m'aiutassi
impartendo lezioni d'inglese quando capita e con quello che mi danno di tanto
in tanto alcuni cari… amici, non so proprio dove sarei a quest'ora. Che schifo.
Sono una vera signora, altrimenti sputerei per terra. –
La ragazza taceva più
perplessa che mai: non riusciva ad omologare la
faccenda (o il solo pensarla) dello sputo per terra. Fortunatamente si udì
bussare così l'argomento venne abbandonato.
Subito,
assieme ad una folata di aria gelida, entrarono due personaggi assai dissimili
tra loro, di cui uno veramente atipico. La padrona di casa, ormai vestita con gli abiti che già Dibela conosceva, diede la stura alla sua mondanità
accogliendoli con gran calore e presentando "la nostra deliziosa amica Dibela Nardi." Poi avviò e mantenne la conversazione
su argomenti d'una banalità che stupì la ragazza: il
tempo che faceva, il rincaro dei generi di prima necessità e, dulcis in fundo, l'amata sorella che non
accennava minimamente ad aver voglia di morire e quel bel tipo di tabaccaio
all'angolo, persona veramente volgare, che arricciava il naso se gli chiedeva
un pacchetto di Alfa a credito. Gli altri due seguivano il binario tracciato
cercando puntigliosamente interstizi per inserirvi battute salaci. E lei,
ritenendosi in diritto di tacere, andava osservandoli con crescente delusione e
disgusto. Il più anziano dei due, Aristide Baldera,
faceva il venditore ambulante di becchime per polli e scriveva poesie in lingua
e in vernacolo, di cui nessuno voleva sentir parlare. Era un tipo piuttosto
appariscente: testa grossa coperta di pelame bianco, quello che rimaneva,
tenuto lungo sulla nuca, mascella squadrata, naso camuso e fronte bassa,
piatta, su piccoli occhi azzurri infossati; la carnagione rosso acceso accentuava la sua singolarità. Quella sera (e forse per
stagioni intere) vestiva un pesante pastrano militare su un paio di pantaloni
sformati d'un impossibile color vino, ed un maglione
nero, dal collo alto, che si arrotolava sotto il mento. Dibela
giudicò che fosse sui sessant'anni; quindi coetaneo della Miss. Così sembrava.
Totalmente diverso il
suo compagno, Giorgio Donati, meccanico, sui venticinque anni. Figura
mingherlina, ostentava un'eleganza appariscente e dava l'idea d'un bulletto sciocco, ma, in sostanza, d'un bravo ragazzo. Aveva
naso lungo e magro, bocca larga e occhi neri ravvicinati che non suscitavano,
almeno al primo vederlo, molta simpatia.
Dibela aveva registrato tutto questo in brevissimo
tempo ed ora si stava occupando ostentatamente di Pussi, la creatura, secondo lei, più degna di quella
combriccola. Ad un tratto sentì uno sguardo fisso su
di sé. Alzò gli occhi, come capita sempre in questi casi, e vide che il
meccanico la stava osservando con uno sguardo inequivocabile. In un gesto
istintivo di pudore incrociò le braccia sui seni. Se quelli erano gli invitati
di miss Rory quanto meglio
avrebbe fatto ad andarsene a letto! Stava prendendo in seria considerazione la
possibilità di svignarsela, quando il gridolino lezioso della padrona glielo
vietò:
– Il tè, ragazzi,
il tè. Chi mi aiuta? –
Donati raccolse prontamente l'appello con una tal foga
che trasmise alla ragazza un senso spiacevole di falsità. In quel momento non
avrebbe saputo dire se, dentro di sé, stava piangendo o ridendo. Il giovane e
la miss, dopo aver armeggiato un poco intorno al fornelletto a gas, in un
angolo della stanza, gridarono che tutto era pronto.
– Aristide
caro – pregò Miss Rory sempre
bamboleggiando, – perché non prepari le tazze? –
Una sghignazzata
saporosa fece eco alla richiesta. L'interpellato, al colmo del divertimento, si
batteva manate sulle cosce come un gorilla eccitato che avesse perso il senso
dell'orientamento: cosce anziché petto.
– Oh, Rory, sei inguaribile e ineguagliabile –
esclamò. – Hai spiegato alla nostra ragazzina in che modo le verrà servita la tua acqua calda? –
– Aristide! –
rimbeccò la miss fingendo grande indignazione – non c'è bisogno che tu
faccia il boaro a tutti i costi. Tanto perché tu lo sappia, la signorina Dibela e non la "nostra ragazzina", è troppo
intelligente per badare a certe sciocchezze. Almeno io la reputo
tale, superiore quindi ad ogni conformismo. – Da buona giocatrice doveva
aver calcolato che quel complimento le avrebbe offerto una riconoscenza
sfruttabile da parte della "ragazzina".
– Bene, bene, non
c'è bisogno di litigare – Aristide imperturbabile. – Per quello che
mi riguarda puoi servire il tuo tè anche nelle
ciabatte. – E si alzò strizzando l'occhio alla povera ospite più a
disagio che mai, mentre si dirigeva verso un credenzino
sotto il lavello. Un attimo dopo era di ritorno; teneva in una mano un
bicchiere di vetro spesso e nell'altra una tazza senza manico. In ciascun
recipiente stava un cucchiaino. Inchinandosi cerimonioso all'indirizzo della
padrona di casa annunciò:
– Lady De Catalani,
l'argenteria è in tavola. –
Prendendo tutto molto
sul serio la miss e il meccanico si avvicinarono con un pentolino di alluminio
fumante, un colino e cinque o sei zollette di zucchero che posarono sul tavolo
nudo.
A Dibela
pareva di assistere ad una rappresentazione comica
recitata da attori drammatici. La padrona di casa versò subito un po' di liquido
in ciascuno dei due recipienti porgendo il bicchiere alla ragazza con un prego
pieno di melodia. Dibela si sentì fortunata perché la
donna l'aveva posato su un piatto di terraglia, altrimenti sarebbe stato un
bel problema tenerlo in mano, bollente com'era. Un'altra preoccupazione però
era rimasta: come riuscire a bere quella schifezza in cui il Donati si era
premurato di lasciar cadere due zollette di zucchero prendendole direttamente
con le mani? Solo dopo che lo zucchero si era adagiato sul fondo del bicchiere,
il ragazzo si accorse della scorrettezza e chiese scusa sinceramente mortificato.
La poverina, che era incapace di mettere o di tenere qualcuno nell'imbarazzo,
assicurò che quella era proprio la dose giusta e che tutto era perfetto. Ora però,
per coerenza, affinché le sue parole acquistassero quel valore che ella aveva voluto dar loro, avrebbe dovuto trangugiare il
tutto. Attese che si raffreddasse almeno un poco e poi si buttò pensando che,
in fondo, l'olio di ricino che le faceva ingoiare suo padre quando doveva
purgarla, da piccola, era ben peggiore. Miss Rory
intanto centellinava il suo cercando di tener viva la conversazione e
coinvolgendo anche Dibela:
– Ci parli un po'
di lei, del suo lavoro, cara. Si rende conto che stasera non ha ancora detto
una parola? –
La ragazza, per creanza,
prese a parlare del notaio Raffi, presso il cui studio era occupata,
lunatico che mai ma un buon diavolo alla fine. Stava poi dicendo che non amava
il lavoro d'ufficio, ma la miss aveva finito di bere, così battè
le mani interrompendola senza scrupoli:
– Ora a voi,
ragazzi. Presto ché il tè si raffredda. –
Anche Dibela si affrettò a finire il suo. Era curiosa di vedere
come si sarebbe conclusa la faccenda: visto che di
recipienti c'erano appena quelli, i due uomini avevano tre possibilità di
scelta: rinunciare al tè, risciacquare i recipienti sporchi, usarli senza
pulirli. Entrambi, con intenzione, usarono i recipienti sporchi. Donati volle fare il di più e chiese alla ragazza:
– Da che parte ha bevuto, lei? Vorrei approfittarne. –
Ah, no. Stavolta avrebbe
mandato a gambe all'aria il suo grande rispetto per gli altri ed avrebbe messo sull'attenti
quel casanova da strapazzo, senonché udì la padrona
di casa che stava rampognando Baldera, il quale
aveva tra le mani la sua tazza d'intruglio:
– Oh no, Aristide,
no. Quante volte ti devo dire che né tè né caffè si bevono con il cucchiaino ma
direttamente dalla tazza? –
Con la sua sghignazzata
che trascinava, il rampognato ritorse:
– Miciona bella, ti sei già dimenticata che questa non è una
tazza ma un rottame? –
La donna stava per
rimbeccare ma Donati intervenne dichiarando:
– Miss
Rory, stasera niente lezione d'inglese: dobbiamo
fare onore alla nostra nuova amica. –
– Oh, caro Giorgio,
questa sì che è cavalleria! – cinguettò l'insegnante. – Però
perdere così una lezione non è giusto. Coniugami
almeno il verbo amare al tempo presente. –
– Miciona, come sarebbe a dire? – saltò su Baldera con finta indignazione. – Sai benissimo che il verbo amare lo coniughiamo io e te, al buio. –
– Taci tu,
zoticone. Avanti Giorgio, ripeti con me:
I love,
you love, he loves… – e così fino a they
love il discepolo fece eco, comicamente zelante, tenendo gli occhi fissi sulle
labbra della miss; ma pronunciato l'ultimo love spostò lo sguardo in faccia a Dibela ponendosi una mano sul cuore:
– I love you, Miss Dibela – esclamò.
– Bravo, molto
bene! Sono felice di constatare che i miei
insegnamenti fruttano qualcosa. Cara, non ha nulla da rispondere al nostro latin lover? –
La ragazza si sentiva
imbarazzata e indispettita per non trovare immediatamente una frasetta di risposta, una piccola frase alla soda caustica
di quelle che lasciano di stucco. Così, con un sorriso che immaginò melenso, si
congedò bruscamente accampando una grande stanchezza.
Una carezza affettuosa
al cane e un freddissimo buonasera. La porta della sua
stanza era finalmente chiusa dietro di sé.
Fino a notte inoltrata li aveva sentiti schiamazzare senza
ritegno e non aveva potuto dormire che per tre o quattro ore prima di doversi
alzare. Si sentiva uno straccio e si chiese seriamente come se la sarebbe
cavata in ufficio. Per ripicca non si preoccupò di evitare rumori, anzi! Era
certa che la gentildonna dormiva ancora: tanto peggio
per lei. Riandando gli avvenimenti succedutisi con velocità incredibile
si convinse che la miss – saputo in qualche modo che lei avrebbe occupato
la stanza vicina – aveva macchinato e predisposto tutto: una moglie
redditizia per il Donati da cui ricavare una mancia competente; un marito per lei
(come che lei fosse tipo da Donati in genere) da cui ottenere gratitudine
sfruttabile. Bene, se le cose stavano così, vivaddio, la miss aveva sbagliato
proprio tutto.
La sera, rincasando,
aveva appena imboccato il lungo corridoio quando vide quell'orribile donna in
tutta la sua improntitudine, che se ne stava indolentemente appoggiata alla
sua porta aderendovi con una spalla, un mozzicone acceso tra le labbra senza
trucco.
– Finalmente,
cara – esordì impaziente schiacciando con il tacco della scarpa la cicca
che aveva gettato sul pavimento. – Io ho il dono di saper inquadrare la
gente. Gliel'ho già detto, vero? Lei appartiene a
quella meravigliosa ma poco numerosa categoria di persone che godono nel compiere
piccoli sacrifici in favore del prossimo. Perciò ho pensato di affidarle Pussi per la sua passeggiata quotidiana. Inoltre già che c'è, per favore, arrivi fino al bar di via Pace, quello vicino
al negozio di mobili, lo conosce vero?, e compri una veneziana a questo povero
amore. È meglio andare fin là perché sono sicura che hanno
merce fresca. Vero, amore? – Si era rivolta al cane chinandosi. Poi la
donna, con decisione, piantò in mano a Dibela il
guinzaglio con attaccato Pussi e se ne andò senza
lasciarle il tempo di aprir bocca. La ragazza entrò nella sua stanza al colmo
dell'indignazione seguita da Pussi che teneva le
orecchie abbassate e la coda tra le zampe. Quando chinò lo sguardo sulla
bestiola Dibela sentì la sua
stizza aumentare, se possibile, contro quella volgare avventuriera. Accarezzò
il poveretto assicurandolo che non ce l'aveva con lui.
– Però scusami, eh Pussi. Io sono stanca.
Non puoi pretendere che ti accompagni fino in via Pace. Qui a due passi ci sono
veneziane che vanno ugualmente bene. T'accontenti di anche
di quelle, vero? –
Il cane scodinzolò
felice leccandole una mano.
Quando rientrò, Miss Rory era ancora
assente. La ragazza non poteva che attendere e l'avrebbe fatto nel modo
migliore che conosceva. Ossia seduta sul lettino non molto alto con la schiena
appoggiata alla parete contro cui esso aderiva con una
sponda. Una posizione che le permetteva di riposare e di
leggere con attenzione. Se si fosse sdraiata era sicura che il sonno l'avrebbe presa.
E qui le capitò la cosa
più strabiliante della sua vita. Zelante, con la lingua già pronta, Pussi le si avvicinò puntando
direttamente tra le sue gambe.
La poveretta saltò in
piedi con la testa in subbuglio. Automaticamente si chiese se l'ambulante-poeta
era poco prestante o se la carampana era insaziabile. Quindi si chinò poi sul
cane, che la guardava perplesso, cercando di fargli capire, con un facile
discorsetto, che la veneziana gliel'aveva regalata,
quindi lui non aveva alcun bisogno di ricambiare. Intanto si chiedeva se quel
cagnetto era da compiangere o no.
La carampana tornò di lì
a poco provando la maniglia della porta che dava sul corridoio; ma, vedendo che
resisteva, si mise a gridare:
– Cara, venga,
corra: è successa una cosa splendida! –
Dibela aprì senza avere il coraggio di guardarla in
faccia, ma quella neanche s'avvide; corse dentro
mettendo sotto il naso della ragazza un cartoncino formato cartolina.
– Guardi, non è
meraviglioso? L'ho trovato adesso nella mia cassetta della posta. Senz'altro
l'hanno portata a mano. Oh, la vita è pur bella! – Ora stringeva al petto
il cartoncino e cantava qualcosa tra i denti danzando.
La ragazza,
dall'occhiata veloce che era riuscita a dargli, aveva ravvisato l'effigie di
Lenin, molto diffusa in quei tempi. Non seppe che cosa dire e attese senza
nascondere il disgusto che provava misto a pietà.
– Ha letto? Legga
dietro, cara, e guardi che viso intenso, che fronte spaziosa propria dei geni
e degli artisti. Oh, la vita, che sorprese riserva! –
Finalmente Dibela riuscì ad avere tra le mani il rettangolo e fu certa
che si trattava della fotografia di Lenin. La girò e lesse:
"Alla mia adorabile e sempre giovane Rory De
Catalani, con tutto il mio amore disperato che un crudele destino mi vieta di
esprimere. Suo per sempre V. L."
La ragazza si chiese chi
avesse potuto cadere così in basso da fare uno scherzo
simile, sia pure ad una spudorata come quella.
Contemporaneamente decise che già dall'indomani avrebbe iniziato a
cercarsi un altro alloggio.