Battista quasi latifondista

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

Ad un occhio poco attento la sua figura abbastanza alta dallo scheletro molto forte poteva farlo apparire magro. Il viso bruno, di quel bruno cotto proprio dei lavoratori della terra, dagli occhi ravvicinati, bruni anch'essi e poco espressivi, mi richiamavano un tucano abbacchiato; certo per via del naso robusto, prepotente che sovrastava la bocca ampia e ben disegnata. Battista era un sempliciotto privo di ambizioni. Così almeno fu sempre ritenuto; in realtà doveva essere ben diversa la faccenda se accadde quel che accadde.

Tutto ebbe inizio con l'avvento in Italia della democrazia. Fare della politica attiva fu subito facile. E un attivista di partito, sia pure in un ambito circoscritto, poteva avere la certezza di acquistare una certa qual popolarità. Questo l'effetto, ma per ogni effetto esiste sempre la sua brava causa che è la seguente. Battista da un po' di tempo si sentiva inquieto, insoddisfatto. Si accorse anche che il suo piccolo mondo non gli bastava più; il mondo cioè del ricco agricoltore ignorante, snobbato senza ritegno dal ricco intellettuale (l'intellettuale povero costituiva classe a sé). Per uscirne, l'unico mezzo a sua disposizione era la politica e Battista ne fece uso acquistando per contanti (prezzo salato anche, a detta di molti) la carica di segretario della sezione locale della dicì.

Subito ci si sfegatò diventando settario appassionato. Lui, che ci avrebbe pensato due volte prima di dire una parola più del necessario, fu sorpreso a concionare i suoi bergamini; con slogan da nulla, magari, del tipo o con Cristo o contro Cristo; oppure, pane e lavoro sotto lo scudo crociato. Però concionava.

Purtroppo rimaneva sempre cafone, sia pur con grana, nella considerazione degli intellettuali ricchi compaesani. Questo sapeva e gli doleva da matti.

Avvenne che ci fu una riunione di partito dove il nostro conobbe una ragazza (che era poi la sorella della moglie dell'ingegner Marinatti, anche lui acceso di furore sacro per la caccia alle streghe rosse) la quale era intervenuta a quella riunione in compagnia della sorella e del cognato, non perché si interessasse di politica, ma perché i suoi parenti e ospiti avevano espresso il desiderio che lei li accompagnasse.

La signorina Felicia abitava in un paese distante un venticinque chilometri da quello di Battista e all'epoca aveva già superato la trentina. Età questa che mette in ansia una ragazza interessata a trovar marito e che non veda nessun papabile all'orizzonte. Brutta non era; anzi, si poteva affermare, in tutta coscienza, che era più sul bello, ma sembrava, come dire?, spenta, vecchia fin dalla nascita, tanto che uno che le fosse stato accanto per più di mezz'ora non avrebbe potuto fare a meno di pensare che siamo nati per morire, che la vita è tutta una schifezza e via dicendo. Felicia era abbastanza rotondetta, ma essendo alta e ben fatta si poteva senz'altro definirla piacevolmente morbida. Aveva occhi azzurri, grandi quel tanto che basta per piacere senza sconvolgere; purtroppo spenti anch'essi come tutto il resto; naso tondeggiante ma non sproporzionato; bocca che diceva poco; capelli biondo scuro raccolti a cipolla sulla sommità del capo. Una ragazza che ogni vecchia madre in punto di morte raccomanderebbe al figlio scapolo e scapestrato, insomma.

La signorina Felicia spiegava il suo stato civile raccontando che, almeno dieci anni addietro, era stata vittima di una cocente delusione d'amore, tanto che ancora ne bruciava tutta; perciò non riusciva più ad innamorarsi di chicchessia: le mancavano coraggio ed entusiasmo.

Non così secondo la Dora della Gnigna, compaesana di Battista, serva di mestiere e sgualdrina per occupare il tempo libero. Chi poteva saperlo meglio di lei che aveva passato quindici anni a servizio di quei pidocchiosi dei Francesconi, muro muro con la famiglia della Felicia? Quella non aveva mai avuto un cane che la guardasse, altro che amore deluso!

Si sa come vanno queste cose. La gente, per quanti guai abbia in proprio, trova sempre tempo ed energia per occuparsi delle faccende altrui. "La Dora?" diceva qualcuno, "tu ascolta le sue chiacchiere e dopo un poco diventi ubriaco senza bere." "Eh, no, cari miei, è inutile andarci intorno, quando la gente parla se non è un lupo è un cane grosso." Questo asserivano altri. Non è dato sapere se queste voci siano giunte all'orecchio dell'interessata. Se lo fu ella ebbe tanta dignità da non lasciar trapelare nulla.

Il soggiorno della nostra eroina in casa della sorella era stato accuratamente pianificato allo scopo di iniziare una serrata campagna matrimoniale. Si diceva che il padre di Felicia, un vedovo benestante ma afflitto ancora da quattro figlie tutte stagionate, avesse proposto al genero Marinatti (cui aveva giurato eterna riconoscenza per averlo liberato dal quinto pondo) addirittura di aprire un agenzia matrimoniale. Sarebbe bastato che collocasse le sue quattro cognate per assicurarsi un cospicuo emolumento. La veridicità di questa notizia comunque non fu mai appurata. C'è da dire con certezza però che l'ingegnere e sua moglie, alla quale i soldi non bastavano mai, iniziarono di buona lena la loro battaglia partendo da Felicia che invitarono a casa loro e la presentarono a destra e a manca. Ed era logico che quella sera la portassero alla riunione di partito.

Qui c'era appunto Battista di nomina fresca. Se non fosse stato per questa investitura il buon uomo non si sarebbe mai sognato di alzare gli occhi su quel pezzo di figliola perché, in quanto a sesso non aveva nulla del grande amatore latino, oltre al fatto che soffriva di quel complesso d'inferiorità che abbiamo visto.

Invece li alzò eccome, gli occhi, pensando addirittura agli sponsali, pur sapendo che la ragazza era laureata in pedagogia. Scoglio non da poco tale differenza di cultura: quinta elementare e laurea, ma l'uomo aveva investito la sua carica di poteri tanto speciali da trarne forza bastante per puntare alto. In ciò senza dubbio aiutato dal fatto che era totalmente privo della bella facoltà che aiuta a distinguere il riconoscimento dei veri meriti da quelli acquistati con denaro sonante.

Anche per quanto riguarda la laurea, la Dora della Gnigna, che non stava più nella pelle dalla gioia di vedersi ascoltata dai compaesani, spiegò che i Francesconi parlavano spesso di come la Felicia, poverina, forse non ci arrivasse molto. Fatto si è che aveva frequentato la Cattolica per almeno sei anni fuori corso, non vedendo in tutto quel tempo un voto superiore al ventitré. "Non chiedetemi che cosa vuol dire di preciso", raccomandava a questo punto la Dora. "Io vi ripeto quello che dicevano quei malmaturi carogne dei miei padroni. Credo che intendessero dire che la Felicia è dura di comprendonio."

A parte queste sottigliezze le quali, anche se risapute da Battista, non lo avrebbero rimosso dal suo piano, egli sapeva perfettamente che, sposando quella donna, le porte che rimanevano chiuse con tanta ostinazione sul mondo nel quale sognava di entrare, si sarebbero automaticamente aperte. Forse non proprio spalancate, ma aperte senz'altro. E, chissà, in un eccesso di cameratismo lo avrebbero magari appellato "il professore". Sempre meglio comunque di quel poveraccio di Caramacino che aveva sposato la levatrice e che tutti ora chiamavano "il levatricio".

Appena la cosa trapelò, il parentado al completo, d'ambo le parti, a spingere a più non posso. Pare che la professoressa (che poi professoressa non era in quanto aveva continuato a fare la maestra elementare, suo inizio nel mondo della scuola)  nicchiasse un poco dapprincipio; ma alla fine due considerazioni fecero cadere il piatto della bilancia dalla parte di Battista: i trenta passati ed il fatto che il nostro era un bonaccione con soldi.

Ed ecco che in un radioso mattino di primavera, al suono della campana grossa, Battista che aveva l'aria di non credere a tanta felicità, impalmò la signorina Felicia Scarpatti che divenne signora Moreda.

Quando i due uscirono a braccetto dalla parrocchia intitolata ai santi Faustino e Giovita, la loro espressione non era più quella di prima, ma non nel senso di una trasparente felicità per aver coronato un sogno d'amore. La faccenda era molto più complessa. Infatti, con l'infilo dell'anello al dito della sposa il Moreda aveva tanto acquistato in sicurezza, in "ce l'ho fatta a dispetto di tutti", che gli si erano induriti i lineamenti del volto; e la sposa se n'era resa conto tremandone.

Lo sposo, mentre scendeva gli scalini e procedeva lungo il sagrato, nel suo doppio petto fumo di Londra, lanciava sguardi alteri sulla gente (più di metà paese) che faceva ali; mentre la sposa, paludata di bianco con il velo a strascico, a mala pena riusciva a tener alta la testa sotto la coroncina di zagare finte. Molto sensibile alle atmosfere pareva cedere sotto un peso che, sentiva, avrebbe dovuto sopportare per la vita. Intanto i parenti di lui, snobbati senza gran ritegno (matrimonio rato anche se non ancora consumato è sempre una certa garanzia) dai parenti di lei, scagliavano con forza manciatone di confetti addosso alla folla scatenando lo spirito agonistico dei monelli, sempre assai numerosi ad ogni matrimonio, i quali si tuffavano senza mezze misure ovunque ne cadesse uno, a costo di inzuccarsi a vicenda o di mandare a gambe all'aria chi fosse in equilibrio instabile, tutto preso dallo spettacolo.

La nuova vita di Battista ebbe inizio. Per essere all'altezza della posizione conquistata pensò di crearsi un personaggio e di usare un linguaggio ad hoc, incominciando con il deporre le espressioni dimesse; così da quel momento iniziò a parlare tranquillamente di "penicillina dei treni ferroviari" che stava per pensilina delle stazioni ferroviarie; "capelli riflessivi" che stava per capigliatura lucente; "premuroso" che indicava il fatto di aver fretta; "offensivo" che stava per suscettibile; così come "appetitoso" stava per affamato, e via di questo passo.

Questo, inghiottendo amaro, il parentado acquisito glielo avrebbe anche perdonato. Ciò a cui non riuscirono mai ad abituarsi (Marinatti in testa che, ormai, coloro che l'avevano in antipatia chiamavano non più l'ingegnere ma il cognato di Battista Moreda) fu il fatto che l'uomo non volle mai presentare la moglie in modo normale: sarebbe stata un'occasione buttata stupidamente. Lui sua moglie la presentava così: Permette? La mia signora con laurea in pedagogia.

La causa involontaria di tutto ciò venne ben presto a trovarsi in una situazione insostenibile. Situazione aggravata dalle accuse dei suoi i quali ritenevano che era solo per pigrizia, per vigliaccheria che ella sopportava senza muovere un dito al fine di togliere sé e loro da tanta vergogna. Possibile che non avesse proprio alcun ascendente su quello zotico di marito? A queste accuse la poverina si sentiva premere dietro i denti la ritorsione sacrosanta: proprio loro, soprattutto suo padre, avevano fatto il diavolo a quattro per gettarla tra le braccia dello zoticone. Ma essendo profondamente cristiana ogni volta masticava quelle contraccuse ingoiandole: onora il padre (magari doppiamente, visto che la madre non c'era più).

Tuttavia s'era convinta che qualcosa doveva escogitare per por fine all'incresciosa faccenda, non foss'altro che per evitare il compimento di qualche atto inconsulto e tragico provocato dagli animi ormai esacerbati. Non fu cosa da poco, ma alla fine prese una decisione che le parve accettabile, anche se piuttosto macchinosa come soluzione da porre in atto. Si trattava di questo: non appena la signora Moreda intravedeva l'eventualità di una presentazione da parte di suo marito, cercava con ogni mezzo di precederlo con un precipitoso: Permette? Sono sua moglie. A volte tanta era la smania di arrivare in tempo che faceva un po' di confusione riguardo all'ordine logico delle quattro parole, così da invertirle in ogni senso: Moglie? Sono sua permette. Sono? Permette sua moglie. Sua? Sono permette moglie… Cose di questo genere, insomma, fino all'esaurimento di tutte combinazioni possibili.

Logorante al massimo e non meno ridicolo. Forse addirittura un rimedio peggiore del male – ebbe a confes­sare un giorno in gran segreto ad un'amica intima, la poverina. E poiché appunto le aveva raccomandato di tenerlo per sé tutti ne vennero a conoscenza in breve tempo. Manzoni insegna.

Non si seppe mai bene per quale ragione i coniugi Moreda rimandarono il viaggio di nozze di un anno, cosi da abbinarlo al primo anniversario del matrimonio. E quando tornarono – visto poi che la dicì aveva vinto alle amministrative – pensarono di dare un rinfresco nell'aula magna del palazzo municipale. Per non correre rischi, attingendo abbondantemente al portafoglio dei coniugi Moreda, tutto venne magnificamente organizzato dai Marinatti che il vivere del mondo lo conoscevano bene. I Moreda avevano dato carta bianca, anche se la vecchia madre di lui, contadina povera di origine, quando si trattò di vendere un manzetto per fare fronte alle spese, accusò immediatamente gravi disturbi alla regione cardiaca e iniziò a borbottare che se l'avesse saputo prima avrebbe fatto novena a Maria dei Sette Dolori perché la facesse morire secca piuttosto di dover assistere a simili follie.

Naturalmente né il figlio né la nuora l'ascoltarono e la festa ebbe luogo con un centinaio di invitati: un buffet guarnitissimo ed un giradischi ultimo modello al cui suono si ballò il boogie-woogie, lo spirù, la samba e le altre novità giunte dall'America assieme ai Liberatori.

Battista, festeggiato e anfitrione munifico, si sentiva al settimo cielo.

 Ma, ahimè ! non fu vera gloria.

Forse la colpa è da attribuirsi ai cocktail che i Marinatti non si stancavano di raccomandare caldamente, trovando il modo, di tanto in tanto, di buttare là con signorile noncuranza, che erano andati personalmente al Golden Bar, in città, luogo estremamente raffinato e specializzato in queste misture esotiche, per farsi dare le varie ricette: americanino, manhattan, bloody mary, eccetera.

Comunque sia l'attacco lo sferrò proprio un tizio che avrebbe dovuto tenersi quieto in un angolo ed essere grato a tutti di non averlo ancora emarginato. Era costui il farmacista Morosi, figura sfatta e tossicodipendente al punto da iniettarsi la droga restando dietro il banco della farmacia, appena girando fulmineo le spalle ai clienti, senza nemmeno più denudarsi il braccio. Seguì a ruota il veterinario Zanta, bell'uomo aitante, ricco del fascino sottile delle tempie spruzzate di grigio e delle quasi impercettibili zampe di gallina intorno agli occhi color miele. Diviso dalla moglie aveva sentito il dovere di autonominarsi consolatore di quella dell'amico Morosi.

Pare che quest'ultimo si fosse dato alla droga proprio perché la moglie, piuttosto spesso, avesse gran bisogno di ricrearsi lo spirito davanti ai tavoli da gioco dei casinò vari. Così, tra questo giro vizioso di irresponsabilità coniugali, si muovevano allucinati due rampolli, otto e quattro anni, che giravano soli per l'appartamento temporaneamente vuoto, mentre il padre smaltiva i sogni in fiale (lasciando libero il commesso di farmacia di azzardare sovrapprezzi sui medicinali per rifarsi delle perdite a canasta della sera prima) e la madre sfarfallava tra roulette e chemin-de-fer. Se l'accompagnatore di turno della donna non era lo "zio Zanta", rimasto anch'egli scornato e ciondolante in attesa che la bella tornasse, i due bambini si aggrappavano al suo collo, il quale pareva adatto alla bisogna nonostante tutto.

Due campioni della morale, dunque, ai quali si accodarono altri volontari dal cocktail ingrato, aprirono la strada alla rovina del povero Moreda che, stringi stringi, era un brav'uomo.

– Allora, Battista, raccontaci qualcosa del tuo viaggio di nozze. –

– Ah, fu una cosa stupendevole. –

– D'accordo, ma dove sei stato di bello? –

– Siamo andati a Canness, vero cara? –

Enne e esse che si tagliavano con il coltello. Se almeno avesse guardato la sua "cara", forse in un modo o nell'altro ella sarebbe riuscita a farsi intendere e a rabberciare alla meglio gli squarci. Purtroppo quel "vero cara" era un intercalare che Battista aveva imparato da poco e che, secondo lui, sarebbe dovuto servire a dimostrare quanto raffinato e nobile fosse il suo sentire. Infatti il suo sguardo non si posava mai sulla moglie quando pronunciava le due paroline, ma, come farfalle impazzite di gioia in mezzo a mille fiori profumati, gli occhi di Battista si spostavano velocemente dall'uno all'altro degli invitati per poter misurare, dall'invidia che credeva di leggere nei loro visi, l'altezza del suo stato di grazia.

Le domande intanto incalzavano. Solo la dabbenaggine dell'interrogato vietava al medesimo di scorgervi tutta la palese tendenziosità.

– Che cosa vedesti di bello? –

– Cose magniloquenti. Siamo fino andati in cima alla criniera di un monte circonvicino per raccogliere i fiori rupestri. –

– Ah, bene. Racconta, racconta: hai gustato qualche piatto speciale? Dove eravate alloggiati? –

– Eravamo alloggiati in un otello lussurioso e abbiamo mangiato, tra l'altro, sgorbi freschi con salsa tartara. – Domande e risposte a ritmo assurdamente accelerato.

Anche su Battista i beveraggi avevano prodotto il loro effetto disastroso agevolando così i maramaldo (o giuda) già tanto avvantaggiati in quel campo.

La schermaglia gratuitamente crudele durò ancora pochi secondi. E poi fu la fine.

Sempre Morosi, con quella sua laida bocca dalle labbra pendenti come un infisso scardinato, scoppiò in una irrefrenabile sghignazzata. Preoccupandosi però di rifare il verso all'allibito Moreda e indicandolo nelle pause per riprender fiato, al fine che tutti si rendessero conto di quanto era stato in gamba a far zapillare la ridicolaggine di quel buzzurro.

Com'è logico aspettarsi almeno il novanta per cento dei presenti si fece scrupolo di imitarlo contribuendo coscienziosamente, con il suo piccone demolitore, a smantellare il piedistallo che Battista aveva creduto di essersi costruito in modo così solido.