Valsabbia
Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Una buona parte dei
valligiani conosce ed esercita solo il mestiere di carbonaio. Un'unica alternativa: l'emigrazione. Ma
anche il carbonaio deve rassegnarsi alla sua piccola emigrazione. Emigranti
nella loro terra, li ebbe a definire il giornalista Minelli una volta che ne
parlammo. Un'espressione che mi sembra efficace. Infatti
famiglie intere passano la buona stagione nei boschi cedui che daranno legna
per farne carbone. E questi boschi, a seconda di dove
si può trovare un padrone con cui contrattare, distano anche otto ore di
cammino dal paesetto, dove le abitazioni, per quanto umili, offrono grandi
comodità rispetto alle baite provvisorie che i montanari si fabbricano con
rami intrecciati e vecchie lamiere nelle radure, a volte assai strette, tra il
limitare del bosco e uno strapiombo.
All'interno di quegli
abituri è soltanto un focolare da bivacco e un giaciglio pensile, il "benèl". Palchetto questo che tiene metà del locale,
posto ad un metro circa dal suolo. Tre dei suoi lati
fanno corpo unico con le pareti della baita, mentre il quarto rimane libero per
accedervi. A maggior rinforzo, al di sotto, vengono
posti dei pali. Per materasso uno strato di erba essiccata colta in loco la
quale, dopo poche notti di pressione si riduce a tre o quattro centimetri di
spessore. Può darsi il caso che il "benèl"
sia troppo piccolo per il numero di coloro che ne devono
usufruire; ma ciò non è gran male: i dormienti pigiati riescono a scaldarsi a
vicenda bastando così gli indumenti portati di giorno e la "tapéna", vecchissima trapunta che lascia fuoriuscire
allegramente l'imbottitura dagli strappi numerosi; le notti in montagna, a
quote notevoli sono fredde.
Per quanto riguarda il focolare il discorso è notevolmente più serio. Lo squarcio
praticato nel tetto serve non già ad aspirare il fumo, ma a sottrarre tutto il
calore che, nelle giornate in cui conviene coprirsi e piuttosto frequenti,
farebbe comodo; poi serve ad attirare l'acqua nell'abituro durante le giornate
di pioggia; infine serve ad incanalare il vento il
quale, nel viaggio di discesa, trascina seco tutto il fumo che ha onestamente
tentato d'andarsene, spargendolo a grosse manciate maligne in ogni angolo. Mentre la donna di turno insiste coraggiosamente a far di cucina,
muovendosi a tentoni, lacrimando e tossendo come una vecchia locomotiva.
Nella baita è buio fitto. Martina ha appena spento la
lampada a petrolio la quale emana un afrore che mi colpisce come un incongruenza in questo esistere quasi da cavernicoli.
Aspiro voluttuosamente tale afrore: anche il lume a
petrolio, sebbene soppiantato da decenni dall'elettricità, mi serve da punto di
riferimento in capo al quale sta un mondo che sembra lontanissimo.
Duro fatica a prendere
sonno. Persino i pagliericci della mia infanzia mi sembrano il massimo della
morbidezza rispetto a questo fieno, forse misto a sterpi, il quale mi
punzecchia attraverso gli abiti che non mi sono tolta. Duro fatica a prender
sonno anche per la posizione costretta tra gli altri, così ascolto il silenzio
assoluto di questi monti che mi avvolge in modo palpabile. Cantano i grilli, stormiscono
le fronde dei rododendri e dei noccioli che strusciano sulla lamiera del tetto
tanto vicina alla mia testa, l'acqua gorgoglia sgorgando dalla roccia a poca
distanza, eppure a me il silenzio sembra assoluto: il silenzio
dei primordi.
Mi guardo attorno: sono sola. Devo aver dormito assai
profondamente, ma deve essere molto presto anche se i
miei ospiti sono già usciti per il lavoro. Con le ossa indolenzite che mi
legano i movimenti, getto le gambe dal "benèl"
scendendo con un saltello.
Tre passi e sono
all'aperto in un bagno di solitudine. L'aria è fredda e la sua limpidezza è
perfetta. Non c'e bisogno di alcuno sforzo per capirla: è la pelle stessa che
assorbe questo lindore di catarsi e se ne purifica contemporaneamente ad ogni pensiero, il tutto in una miscellanea di profumi
sottili. Per un attimo mi assale il desiderio pazzo di stendermi per terra, di
allargare le braccia per cingerne il più possibile al fine di seppellire in
essa le piccole grandi miserie di ogni giorno.
È, questo, un
valloncello incassato tra cime che lo circondano come un'impervia e stupenda
corona. Forse è l'ora che lo fa apparire gonfio di mistero, con tutte le sue
zone d'ombra umida, non ancora svaporata. Ombre umide sui ciclamini che
profumano a mazzi tra la borracina e la bassa vegetazione del sottobosco; ombre
umide che giocano gioiose sul rivoletto d'acqua, quasi diaccia,
sgorgante dalla viva roccia e incanalata fino al suolo dalla corteccia di un tronco d'albero; ombre
umide sulle corolle dei rododendri che sorridono con il loro rosa carico; ombre
umide e cupe che proteggono le felci, gli equiseti e tutte le anfrattuosità
della roccia, affiorante nuda solo a tratti, ammantato com'è, questo suolo, di
superba e svariata vegetazione.
Intanto il sole, con
lenta sicurezza guadagna il cielo, caldo e maestoso, accendendo ora questa ora
quella cima. Fra poco incomberà sul valloncello fugando, insieme con l'umidità,
quella sorta di pudicizia di cui tutto è solenne intorno a me.
Ma ecco che un acre odore di fumo spinto dalla mia
parte da una bava di vento mi colpisce come un qualcosa completamente fuori
posto. Subito ne vedo una colonnina che si leva, quasi riluttante, alla mia
destra. L'aria la impigra
tra le volte ed i festoni di fronde e la disperde con lentezza. Quel fumo denso
e scuro, pure se in sottilissime volute, è come un fastidioso richiamo, uno
sgradevole atterraggio. Ma come ho potuto dimenticarmi
che tra queste bellezze c'è gente che lavora, gente che vede solo legna da
tagliare a prezzo d'improba fatica, che non sente nulla al di fuori della
stanchezza, del sonno, dello stimolo della fame forse non sempre del tutto
appagata? La psicologia ci insegna che l'abitudine smussa i sentimenti; non
solo quella, penso convinta, ma anche, forse soprattutto, la fatica costante, i
desideri più elementari frustrati, le dure rinunce quotidiane.
Il fumo che mi ha strappata dall'età dell'oro si alza dal "poiàtt" sulla vicina "jall".
"Poiàtt" e "jall",
due termini usati in un ambito geograficamente molto circoscritto e che io
trovo affascinanti. Secondo me, in essi, c'è tutta una musica aspra che sa di
fatica; termini poetici per gente che non sa di poesia e che si avvale dei
pochi vocaboli di cui è fatto il suo linguaggio per esprimere ogni sentimento,
quando ciò avviene.
"Poiàtt": la catasta di rami verdi tagliati tutti ad una misura standard, disposti poi in modo sapiente che
risponde a regole precise. In un lentissimo processo di combustione si
trasformeranno in carbone di legna.
"Jall": la piccola radura ben livellata in precedenza
per piazzarvi il "poiàtt".
Nonostante la perfetta solitudine il
tempo trascorre in fretta quassù. Almeno fino a che ho tante cose da scoprire.
Ho accarezzato corolle di serici rododendri, mi sono inginocchiata per odorare
cespi di ciclamini e per toccare trine di felci, ho parlato ad
un ardito ciuffo di stelle alpine protese su un dirupo sperdendo, di tanto in
tanto, lo sguardo, sospendendo il pensiero. Ora sto tornando lenta verso la
baita godendomi queste stasi, quand'ecco scorgo i miei montanari che stanno
scendendo attraverso una pietraia piuttosto ripida, agili e sicuri come le loro
capre. Questa destrezza è sorprendente se si pensa che calzano
zoccoli chiodati di fabbricazione casalinga, i "söpèi
de burdù", e con i quali io duro fatica a
mantenermi ritta anche su terreno pianeggiante.
Giungo alla baita con
lieve anticipo sugli altri e vi trovo Nanì – è
lei di turno, basta scendere dal bosco un'oretta prima degli altri – che
sta rovesciando la polenta. Una polenta dura, all'uso montanaro, ma saporitissima,
che brilla sulla tafferìa posata su un ceppo con
altri ceppi per sedile: unici mobili presenti.
Ora ci sono tutti. Dopo
aver posato gli arnesi ed essersi sciacquati frettolosamente le mani, si
servono con i soliti gesti lenti, misurati. Anch'io taglio la mia fetta di
polenta e la faccio saltare nel piatto d'alluminio che tengo sulle ginocchia.
Un po' scottandomi un po' soffiando sui bocconi che stacco con la forchetta di
ottone, la finisco in un baleno insieme con lo squisito formaggio di latte
caprino. Qualche sorsata d'acqua assunta direttamente tenendo la bocca aperta
sotto il getto e sono a posto.
Io, almeno, per un
giorno, due, quattro… Ma loro?
All'improvviso, come spinta in basso da non so quale forza, cala sul valloncello
una grossa nube nera che ci precipita in un buio totale. Il residuo di fiamma
rimasto dopo la cottura della polenta sfrigola, crepita, si contorce come un
piccolo animale impaurito, sotto l'urto del vento che, nel frattempo, s'è
levato furioso penetrando dal tetto. Quasi subito esso ha ragione della
piccola fiamma indifesa e, nella baita, non rimane più nemmeno quell'esiguo
filo di luce.
Penso alle tregende.
Dovevano essere così: tuoni, rombi che rotolano giù da grandi altezze, tutto intorno rami che si schiantano con rumore secco di fucilate,
e buio spesso, duro, accoltellato ogni tanto da lampi vividi e accecanti che
lasciano sotto le palpebre abbassate la loro luce cruda e offensiva.
La baita scricchiola
sinistramente. Non sembrano scricchiolìi a dire il
vero: alla mia immaginazione esasperata sembrano piuttosto la voce adirata e
terribile dello Spirito vendicatore della Montagna; lo stesso, per intenderci,
che fa muovere valanghe e slavine. D'altra parte la capanna non potrebbe non
scricchiolare. Trovo molto strano, anzi, che sia ancora in piedi. Ma ciò è dovuto sicuramente al fatto che è addossata alla roccia,
tanto da avere la quarta parete costituita da essa.
Intanto la grandine, i
cui chicchi raggiungono comodamente la grossezza delle noci, spinta dalla furia del vento, penetra da tutte le larghe e
numerose fessure minacciando d'inzuppare ogni cosa e di farci dei bernoccoli
grossi così.
– Sono frequenti
bufere di questo genere? – Le parole mi escono smozzicate perché batto i
denti per il freddo e per la paura.
– Così violente
sono piuttosto rare; forse un paio all'anno. –
Dopo una breve pausa, quasi a prevenire una mia domanda, Martina aggiunge:
– In questi casi
non c'è altro da fare che raccomandare l'anima a Dio. – Non c'è scherno
nella sua voce, e nemmeno spavalderia; c'è solo quella estrema,
compatta indifferenza che stringe il cuore. Nessuna emozione, dunque, potrà
scuotere questa gente? I loro visi, vecchi a quarant'anni, come scolpiti in
terracotta smaltata, rimangono immobili davanti ad
ogni avvenimento.
Ed ecco ad un tratto, così com'è venuto, quell'iraddiddio
di temporale se ne va; e subito si può stendere l'animo e i pensieri ad un
fulgido sole, in un cielo lavato, rimesso a nuovo.
Purtroppo la sua luce
illumina crudamente lo scempio che ha compiuto la grandine con rabbia
forsennata. I miei ospiti si avviano al lavoro macchinali,
senza commenti, ciascuno racchiuso entro confini ben guardati. Chinandosi sulla
soglia, mentre la oltrepassano, raccoglie ognuno
l'accetta e la roncola che vi aveva depositato prima di pranzo; in lenta fila
indiana si incamminano su per la pietraia, oltre la quale c'è il bosco che
interessa, la cui confusa macchia verde da qui si vede molto bene.
Rimango nuovamente sola,
come stamane, ma la natura dilacerata, oserei dire ansimante e stordita per la
violenza che ha dovuto subire, mi opprime, mi sconvolge. Con l'intento di porli
in un barattolo pieno d'acqua stacco alcuni rametti di rododendro che pencolano
tristemente, con i poveri petali sfrangiati o del tutto mutilati – il
suolo circostante è ricoperto di foglie, fiori, rametti frantumati della
vegetazione che vi cresce – ma non ne faccio nulla. A che servirebbe?
Soltanto le chiocciole, che vedo in gran numero sul sentiero tra l'erba,
sembrano felici di tutto questo. Escono a irrorarsi lente e incuranti, così
fragili e indifese da fare tenerezza.
Devo aver dormito tre o quattro ore perché i miei ospiti
sono di nuovo rientrati per la cena. E fuori fa quasi buio per via del luogo
così incassato. Dopo un frettoloso pasto, copia fedele di quello di
mezzogiorno, è ora di coricarsi. Prima però le donne lavano le poche stoviglie
strofinandole con una manciata di foglie di nocciolo
sotto il getto dell'acqua, mentre gli uomini si concedono il lusso di una
fumatina. Luigi e Gusto, i più anziani, seduti in terra con la schiena
appoggiata alla parete esterna della capanna, tirano alcune boccate dalla pipa,
con fare goloso. Il loro sguardo, opaco di stanchezza, vaga da una cima all'altra,
ormai nera, coperta dalla notte. Sollecitati mi
spiegheranno con un giro contorto di parole, che il loro rapporto con la
montagna è un rapporto d'amore e odio, sentimento del resto comprensibile,
logico. Andrea invece, giovane e scontento, seduto con le gambe incrociate
all'uso indiano, si confeziona una sigaretta con ingenua baldanza; i suoi gesti
vorrebbero essere spigliati e destri, ma non lo sono. Le mani tutte un callo con le dita tozze, si muovono goffamente per
ogni atto che non riguardi il suo lavoro di taglialegna.
Nel cielo nero, che si
apre al di sopra di noi come un grosso imbuto,
brillano vivide stelle che riescono a sgomberare quasi del tutto il mio spirito
dal ricordo sconvolgente di poche ore prima, lasciandolo così libero di
accogliere nuove suggestioni. Un'ultima occhiata lassù e poi entro in coda a
tutti per affrontare la mia seconda notte nel "benèl".
Sembra che ciascuno sia
già immerso nel sonno ed anch'io vi sto scivolando
dolcemente, quando la voce di Nanì, priva di
qualsiasi inflessione, si alza inattesa:
– Ho visto una
vipera attraversare la "jall", oggi. Veniva
per di qua, verso la baita. –
– Come? –
salto su allarmata. – Una vipera qui nella baita! ma
è pericoloso … – Il mio tono deve apparire loro molto comico dal momento
che sento ridere.
– Non è la prima
volta che vediamo vipere. Ce ne sono da queste
parti. –
– E voialtri lo
dite così, come niente. Ma è pazzia. –
– Che ci potremmo
fare? –
Già, che cosa potrebbero
fare? Giusto, chiaro, maledettamente logico, così anche l'argomento vipera è
chiuso, inchiodato e non lascia spazio ad argomenti contraddittori. Ma anche i giovani sono macerati in questa passività? Penso
alle stelle che mi erano parse beneauguranti, mentre ora le immagino
opacizzate dall'ombra della morte a coronamento d'una vita di fatiche
incredibili, di mortificazione della carne e dello spirito.