Rossi Ettorino forse assassino

Questo racconto fa parte della raccolta di racconti inediti Anni quaranta-cinquanta, di Celeste Chiappani Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.

I nostri appartamenti davano sullo stesso pianerottolo, secondo piano d'una casa popolare; ed i rapporti tra le nostre famiglie non erano di quelli, come si suol dire, aver mangiato fagioli assieme. Erano rapporti che davano felicemente sul neutro, senza cioè antipatie o simpatie definite, con il vantaggio – almeno credo – d'una sottintesa certezza di poter contare gli uni sugli altri in caso di estrema necessità. Gli incontri delle nostre famiglie, dunque, erano esclusivamente casuali; e anche se passavano giorni e giorni senza che tali incontri si verificassero, nessuno ne soffriva, così come a nessuno al di qua del pianerottolo veniva in mente di saperne di più su quelli al di là.

Quella sera poltrivo a letto – ove è mia abitudine cacciarmi appena possibile, con la tazza del caffè fumante e un buon libro – quando fui disturbata da un vocìo e un pesticcìo particolari provenienti da appena tre metri oltre la mia porta d'ingresso. Pensai a tutta prima che si trattasse di quella coppia di ubriaconi che abitava al terzo ed ultimo piano, la quale si divertiva un mondo, mentre saliva le scale, a fermarsi ogni quattro o cinque gradini, per abbracciarsi e impostare duetti tratti da cori di montagna. A nulla erano valse le ripetute accese proteste di tutto il casamento così che si sopportava più o meno stoicamente.

 Attesi. Se fossero stati quei due balordi fra poco avrebbero doppiato il capo del pianerottolo attaccando la penultima rampa di scale.

Macché! il brusìo misto era in ristagno, quindi si trattava senz'altro dei Rossi. Bene, io non credo ai presentimenti in genere, tanto meno ai miei, visto che prevedo sempre il peggio. Ci fu solo una forza non definibile che mi spinse giù dal letto per farmi infilare pianelle e vestaglia e farmi accorrere.

Mentre compio tutto questo cerco di mettere ordine nei miei sentimenti. Ne ricavo che a me il signor Rossi non piace. Non nel senso fisico dato che sono una moglie infelicemente sposata quindi non mi verrebbe mai in mente di cercare legna grama nei boschi altrui. Non in questo senso, dicevo, ma nel senso che non stimo quell'uomo perché lo ritengo vanesio e montato, del tipo pallone aerostatico, per intenderci, senza altro interesse a questo mondo che non sia se stesso. Diciamo a sua discolpa, per quello che può valere, che egli è un quarantenne ben portante, con un bel viso non effeminato che pone termine alla figura atletica, asciutta. Potrebbe passare comodamente per un trentenne, e penso che ci provi spesso. Questo Rossi possiede una moglie pressappoco della sua età, buona, arrendevole e ciabattona. Purtroppo lei i suoi quaranta (erano coetanei), se li trascina con una certa fatica sulla figura grassoccia. Certe volte ho fin l'impressione che tenda al masochismo. Infatti, osservandola dimenarsi negli abiti ampi e nelle scarpe senza tacco (anche se non supera il metro e sessanta di altezza) ho l’impressione  che si diverta ad ostentare tutte le sue primavere. Le quali però le hanno risparmiato il viso. Esso è tondo, liscio e roseo, senza l'ombra d'una ruga; gli occhi poi sono larghi, caldi, picchiettati d'oro; ed il sorriso, un poco restìo per timidezza, parte sempre da lì, estendendosi subito a tutto il volto che si fregia di due dolci fossette.

Oltre che della moglie il signor Rossi vanta la proprietà di un figlio undicenne che ha la figura fisica della madre e quella morale del padre.

Oramai sono sul pianerottolo senza un pensiero definito; ma qui incomincio a preoccuparmi: almeno cinque persone, che riconosco come coinquilini, parlottano tra loro, a bassa voce, con aria costernata. Intravedo anche la porta dei Rossi spalancata, con le luci tutte accese all'interno dell'appartamento.

– Per le corna di Berlicche, che succede? – chiedo a tutti e a nessuno. Mi guardano e non rispondono. Un comportamento incomprensibile che farebbe saltar la mosca al naso a chiunque; ma mi esorto alla calma passando in rassegna in un batter d’occhio ciò che potrebbe spiegarlo e giustificarlo. Forse sono maleducati senza colpa e senza cattive intenzioni; forse stai loro sui cosiddetti e non lo sai; forse sono così esterrefatti d’aver perso l’uso della parola; forse l’accenno alle corna del diavolo non è stato per nulla gradito …

Così richiedo il più gentilmente possibile: – Che cosa è accaduto ai nostri vicini? –

– È morta, – annuncia qualcuno del gruppo.

– È morta? Chi è morto? – Sono ancora io che chiedo ma non mi sembra nemmeno di parlare.

– La signora Rossi, – dice ancora quello che ha rotto il ghiaccio.

‑ La povera Antonia, - aggiunge una voce femminile.

‑ Che disgrazia, Maria Vergine. Quel povero bambino ... – un’altra donna

‑ Dentro ci sono i parenti, - stavolta è un uomo che parla.

In quella i militi della Croce Bianca faticano a far passare la barella, con il corpo pesante, su per le scale piuttosto strette. Intanto, un po' dall'uno un po' dall'altro vengo a sapere tutto che è quasi niente. Fu ricoverata in ospedale ieri sera ed ora eccola di nuovo qui mite, grassoccia, dal viso fanciullesco, ma soprattutto morta. Si fa presto a dire morto, gente. La morte è conseguenza della vita; tutti dobbiamo morire prima o poi; nessuno è eterno eccetera eccetera. Quante belle parole tutte inutili e cretine! Causa?, di questa morte, intendo. Non si sa. Nessuno lo sa con precisione. Congestione. Blocco renale. Cuore debole. I medici stessi non sono stati chiari senza ritenere però di dover fare l'autopsia.

La barella col suo triste carico ha finalmente varcato la soglia dell’appartamento, seguita dal vedovo (che orrore pensarlo in questo stato) abbacchiato che mai – il bambino non si vede. Ed ora la poveretta sarà già adagiata sul suo letto matrimoniale dove trascorrerà parte delle sue ultime ore su questa terra che però ha già lasciato. Sento il dovere di entrare: sono la vicina più diretta, in fondo.

Nel tinello piuttosto ampio, appena varcata la soglia, stanno sedute tre donne ed un uomo intorno ad un tavolo. Non conosco nessuno dei quattro. Appena entro mi sento scrutata quasi con ostilità: chi è costei? Mi sovvengo solo ora del mio abbigliamento indecente dato che è ancora presto. Chiedo scusa e spiego che, per ragioni di salute devo coricarmi molto per tempo. E’ la verità anche se, per essere completa richiederebbe più dettagli, ma non mi sembra proprio il caso. Specifico anche che sono la vicina di pianerottolo e sarei lieta di fare qualcosa di utile se serve.

Una signora già un bel po’ avanti negli anni, si asciuga gli occhi con un fazzoletto stretto nel pugno e mi invita, benevola, a prendere posto. Gli altri fanno coro. Sembrano meno trattenuti. Del resto come si fa a leggere il comportamento dei dolenti in simili casi? Ringrazio dichiarando che però preferirei vedere la povera defunta e porgere personalmente le mie sincere condoglianze al marito.

Senz’altro, senz’altro …

Mi porto in camera da letto aiutata con l'intuito dato che non fui mai in quell'appartamento. E vedo la povera Antonia stesa sul letto con gli occhi chiusi. Il suo viso pare ancora più dolce di quando era viva. Ora, penso, le tre donne di là, provvederanno a lavare e a vestire il cadavere. Di me quindi non c'è bisogno. Vigliaccamente ne provo un grande sollievo, però mi obbligo a fare una carezza alla defunta ormai fredda. Almeno quello! Porgo la mano al marito che è seduto su una sedia vicino alla moglie. Ho l'impressione che il suo dolore sia veramente profondo. Dopo di che mi congedo rinnovando l’offerta della mia disponibilità.

Ora posso tornare nella mia cuccia ma con un macigno al posto del cuore. Così messa non riuscirò certo ad iniziare la lettura di un nuovo libro preso alla Biblioteca Civica (tratta di re Leonida e della battaglia delle Termopili; un volume di gran mole), ma per la meditazione sono ancora valida, quindi metterò a punto un fatto dandogli il giusto peso – almeno spero.

Il fatto è questo: io sono tipo da ragionare fin troppo su tutto quanto, e di trarre poi delle conclusioni alle quali mi affeziono molto; perciò mi sono fatta la convinzione che se ci costringiamo ad occuparci delle cose che ci fanno ribrezzo, ci sconvolgono, ci addolorano eccetera, ciò servirà a renderci la vita più schifosa di quello che è, ma ci salverà dalla tentazione pericolosa di cercare le gioie, che talvolta si trovano, e poi lasciarci da esse trasportare: di gioia si può anche morire in fin dei conti.

Consulto la sveglia che tengo sul comodino: la stessa ora di tre mesi fa, e sul pianerottolo, davanti all'appartamento dei Rossi, uno strano parlottìo. Lo noto subito perché da quando morì quella povera donna, ossia tre mesi fa, non si sentì più nemmeno baf trapelare da quelle pareti. Io, dunque, oltre ad avere sempre davanti agli occhi la figura della povera signora Rossi, mi angustio anche per i sopravvissuti. Non che non tenti di vincermi. Dal giorno fatale non faccio che ripetermi una serie di stupide parole del tipo: oggi a te domani a me (facciamoci le corna!); la vita continua; chi muore giace con quel che segue; ma ugualmente non riesco a sollevarmi il morale. Sono fatta così e non v’è speranza di miglioramento. Sono tanto condizionata da quel lutto da arrivare al punto di dover fare acrobazie, anche materialmente pericolose, per non guardare la porta dei vicini quando esco da casa mia: oramai per me è come la lastra che chiude un loculo cimiteriale.

Stasera dunque, mentre ascolto la voce del signor Rossi, incontestabilmente allegra, accompagnata da un risata di giovane femmina, forse un tantino vuotarella, ma non conta, respiro di sollievo: finalmente qualcuno si è deciso a venire a fare quattro chiacchiere in casa del vedovo inconsolabile. Bisogna ammettere però che lui non è tipo da incoraggiare qualche volonteroso a prendersi confidenze a fin di bene. È capitato anche a me." Come va, signor Rossi?" "Bene, grazie". E tac, la porta chiusa sul muso. Oh, non sbattuta con rabbia, questo no. Semplicemente chiusa con calma e decisione. Il che è anche più eloquente. E così anche con altri coinquilini. Invece stasera si vede che qualcuno è riuscito ad aprirsi una breccia nella corazza del Rossi. Oh, bene bene, mi sento sollevata.

Ma è una congiura questo rincorrersi di tre mesi con tre mesi. È passato ancora tale tempo da quella sera in cui il signor Rossi fece udire la sua voce rilassata per la prima volta nella sua qualità di vedovo; solo che stavolta non è sera.

Siamo verso il meriggio e nuovamente odo vocìo, scalpiccìo, brusìo; ma il tutto condito d'allegria, mi pare; fin troppo, in fondo. Subito ritiro il pensiero. Che diritto ho di giudicare? Però rimango in ascolto in stato neutrale e mi accorgo che dall’insieme emerge una voce inconfondibile. Ah, eccolo l'orfano, Riccardo detto Ric. Mi ero chiesta alcune volte dove fosse finito, ritenendo anche che poteva essere una coincidenza non averlo più incontrato dopo la tragedia. È proprio lui, pensai.  Nessuno potrebbe sbagliare udendo quel tono, che dà sull'arrogante acceso con notevoli frange di villana sufficienza. Ric sta chiamando pa-pà; ma lo spezza in due, sì che il suono così banale si presenta come lo scoppio di due piccoli petardi, uno subito dopo l'altro.

Immagino quel ragazzino ben piantato, dall’ingannatrice aria di angioletto che strattona la giacca del genitore. Di solito, almeno quelle poche volte che ebbi modo di vederlo, lo fa sul davanti, con grave rischio della bottoniera: pa-pà, pa-pà … Ed ecco la voce dell’interpellato, non certo traboccante dolcezza come suo costume: - Si può sapere cosa vuoi? –

E tutto finisce qui in quanto a botta e risposta perché una risata decisamente sul femminile sovrasta ogni altro rumore.

Avendo una memoria formidabile per le voci sono sicura che quella che ho appena udito appartiene alla tizia che udii tre mesi fa … Oddio… E se?… Sono fermamente decisa a scacciare un'idea tanto mostruosa. Tre mesi più tre mesi fanno sei mesi. Impossibile. Perciò non ci voglio pensare, capito? (il monito è rivolto a me). Ma intanto le voci non scemano facendo miseramente fallire ogni mio buon proposito. No, decisamente non posso restare con questo dubbio che mi assilla, così decido di concedermi una meschinità di cui dovrei arrossire. E arrossisco prontamente giusto per mettere a posto la coscienza. Quando decido di essere a posto con l'arrossamento socchiudo la porta appena di uno spiffero e sbircio. Due, tre secondi sono sufficienti per capire. Il Rossi in antracite con fiore bianco all'occhiello, e lei, in un bianco molto "semplificato" con mazzetto di fiori in mano.

Subito mi ritiro inorridita, addossandomi alla porta che chiudo alle mie spalle, mentre, senza volerlo, la testa segue il mio no no no detto a voce non proprio bassa. Un pendolo che invece di far tic-tac fa no-no, no-no ... sinistra-destra, sinistra-destra ...

Il movimento si arresta alla fine e devo ammettere che in condizioni statiche il mio cervello è in grado di valutare meglio le situazioni di quando è sballottato. Per questo capisco di essermi arrogata un diritto che non mi appartiene, così ora, sono certa, passerò alla destabilizzante fase autocritica-con-rimorso+vergna. Le azioni del mio vicino di casa come quelle di qualunque altro non mi riguardano, purché si mantengano nel lecito.

Ma forse nessuno ha badato  alla mia sbirciatina così fulminea. Possibile, no? Ecco la supposizione benedetta che, pian piano mi calma. Gran bella cosa la serenità, il guaio è che nel mio caso specifico, duro uno sternuto. Rieccoci. Domanda sensatamente rassicurante, ma che non ha alcun appiglio cui aggrapparsi per diventare convinzione: sette o otto paia di occhi, ammassati in così breve spazio, hanno un bel peso.  Ed eccomi nuovamente impegnata nella corsa per individuare ed afferrare l'appiglio che si cela beffardo.  

   ... purché si mantengano nel lecito ...

Ecco, forse ci sono! – me lo grido esultante dentro di me, all'improvviso, seppure conscia di camminare sulle uova. Basterebbe che appurassi che l'azione del signor Rossi Ettorino ha danneggiato qualcuno. Vediamo un po': forse ha strappato la pupa dalle braccia di un onesto innamorato. No, non credo che attacchi, e poi non potrei provarlo senza ricorrere ad un'agenzia d'investigatori privati, i quali chi li paga? Bisogna tentare un'altra strada che, nel buio fitto che mi avvolge, non riesco a scorgere. Su, su, mi dico per rincuorarmi, sai benissimo che le ore più buie sono quelle che precedono l'alba. (Non ho mai capito se questa faccenda di buio e di alba sia una nozione scientifica ridotta a detto proverbiale o se è solo un'asineria tesa a fini consolatori, ma usiamola ugualmente, tanto è gratis). Frattanto però il tempo passa ed io mi sono rimediata un gran mal di testa. Purché non degeneri in colica addominale come il mio solito. Per due mammalucchi, poi!

Con questo e quello, per fortuna, è arrivata l'ora d'andare a letto così potrò tenermi la bolla dell'acqua calda sullo stomaco – il male adesso è anche lì – e sperare che mi si accenda la lampadina nel cervello.

Massì, perbacco, come ho potuto non pensarci prima?! Tutto sta in una piccola operazione aritmetica. Novanta più novanta uguale a centottanta, e centottanta giorni di vedovanza sono proprio pochini. Anche volendo concedere tutte le attenuanti sono sempre pochi. Da qui alle due conseguenti ipotesi che più logiche di così si muore, c'è un passo di formica: quell'uomo non amava la prima moglie e conosceva l'attuale da tempo.

Eccitatissima mi agito nel letto dove dorme anche mio marito. Si sa che le idee sono come le ciliegie, l'una attira l'altra ed io ora non potrei più fermarmi nemmeno se lo volessi. Le mie idee, dunque, turgide di chiara logica, spiccano in un bel grappolo l'una accanto all'altra. La signora Rossi è morta in circostanze poco chiare, ma i medici non avevano alcun motivo di sospetto. Io invece sospetto, eccome! Non che possa provare alcunché: è solo questione di certezza interiore; tuttavia basterà che ripeta una mezza dozzina di volte, dentro di me, il mio elaborato mentale e poi sarò a posto.

 Certo che se potessi parlarne a qualcuno sarebbe un altro paio di maniche. Non parlarne per sentire il parere dell'altro, ma parlarne nel senso di dare corpo al mio pensiero per il tramite di onde sonore che vanno diritte a colpire qualche timpano. È questo un metodo che ho già sperimentato: non appena la mia voce esce per entrare in padiglioni auricolari altrui, ciò che vado esponendo diventa immediatamente certezza, qualora vi fossero ancora dei tentennamenti.

Eccitata butto in fondo al letto la bolla dell'acqua calda, ormai appena tiepida perché sono io che scaldo lei, e quasi grido:

– Ho trovato! –

Colui che mi è compagno per la vita solleva appena una palpebra e mi chiede che cosa avessi perso. Mi sento a terra anche se avrei dovuto aspettarmi questo e altro da lui; purtroppo non riesco a farci il callo. Sono sue reazioni tipiche che mi sbalestrano, mi infastidiscono, mi addolorano, mi fanno uscir dai gangheri, a seconda del mio stato d'animo e ogni volta mi riprometto di non svelargli proprio più nulla dei miei pensieri; ma quando è il momento e lui è lì, a portata di mano, fatto così o cosà, spiattello tutto: è mia convinzione che troppi segreti sepolti nell'intimo danneggino la salute. Solo che quell'uomo reagisce come abbiamo visto, definendo, per soprammercato, questo suo modo di fare, "senso pratico" (lo dice pieno di orgoglio); io ribatto convinta che è solo un eufemismo per definire la sua brutalità di sentimenti. Le cose stanno così da sempre e nessuno dei due fa qualcosa per modificarle; perciò anche stanotte (è già calata la notte, ormai) mando mentalmente il mio coniuge, che ha ripreso a russare, a quel paese e poi gli avvicino all'orecchio la bocca, annunciando piuttosto a bassa voce ma tutto d'un fiato:

– Veleno, capisci? Veleno! –

Finalmente sono riuscita a scuoterlo, perbacco! Gongolo dentro di me vedendo che si mette a sedere. Solo che la mia soddisfazione si tramuta in fifa santa quando lo sento urlare ad occhi spalancati:

– Ah, è così. Mi hai avvelenato alla fine. Perciò il brodo di questa sera aveva un sapore orrendo. –

Tremando mi ritraggo velocemente contro la testiera del letto facendomi scudo con il guanciale; ma un po' mi tranquillizzo quando mi viene in mente che il nostro ultimo pasto è stato a base di risotto e non di brodo. Ripreso coraggio mi metto ginocchioni sul letto cercando di assumere un atteggiamento aggressivo ma, in realtà, restando sulle difensive. Così messa gli espongo la mia teoria il più velocemente possibile perché quello sta già riadagiandosi.

Purtroppo, però non appena ho proferito l'ultima parola, stavolta ben desto il bruto si mette ginocchioni di fronte a me, massiccio e terribile. Le sue mani dure come d'acciaio mi tengono ferma per le spalle, mentre con sguardo da basilisco mi sibila:

– Ti rendi conto di quello che dici? D'ora in poi ti proibisco, nel modo più assoluto, di darti a tutto ciò che è giallo: romanzi innanzitutto, film, barzellette, canarini, fiori, abiti, limoni. Sono certo che, per la devozione coniugale che ti distingue, non ti farai ripetere l'invito. Ed ora dormi e lasciami dormire. –

Veramente non capisco bene che cosa c'entri la seconda serie di cose gialle e sarei tentata di fargli notare che ha dimenticato la polenta e il popolo cinese, ma non ho il coraggio di cimentarlo oltre. Viste le cose come sono andate preferisco lasciarlo nell'illusione di avermi convinta.

Così lui dorme come un giusto ed io sono ancora qui con il bisogno di togliere quella bava di dubbio rimasta appiccicata alla mia sofferta teoria.