Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Finalmente il Consorzio
Agrario aveva scavato l'enorme pozzo, azionato elettricamente, per dare acqua
alla brughiera. Una vasta zona, questa, tutta piccoli poderi alternati a
tratti incolti invasi da rovi, gramigna, grossi sassi, e a poveri casolari
dislocati a notevoli distanze gli uni dagli altri. Essi stavano sepolti nelle spesse nebbie o rinserrati nei ghiacci
invernali, oppure sommersi dall'implacabile calura estiva.
Tutti i piccoli
proprietari, spiantati come tanti sanquintino, dopo calcoli snervanti e oculate
considerazioni avevano finito con l'aderire all'acquisto dell'acqua
nella speranza che il bilancio scarnificato si rimpolpasse un poco con i
raccolti resi più abbondanti dall'irrigazione.
Io, poco più che
bambina, ero rimasta subito coinvolta e affascinata dal gran parlare che si
faceva intorno a quel pozzo. Si nominavano tubi, canali, forza elettrica,
portata d'acqua computata in metri cubi correlati al tempo. Tutte nozioni che
non capivo ma che rivestivo di fiabesco.
Quando l'opera
finalmente entrò in funzione mi condussero a vederla. Cinque-seicento metri attraverso campi, coperti
appesa alla mano di uno degli zii, trotterellando euforica e rosa dalla
curiosità. Tra un ribollire di sensazioni le più varie, non tentai nemmeno di
operare un assemblaggio funzionale con i pezzi sparpagliati che la mia
immaginazione s'era andata figurando, dando corpo a
quanto si era nominato ad opera erigenda. Così, quando vidi quell'apparato non riuscii a capire che cosa, in realtà, mi fossi
aspettata di vedere, rimanendo assai delusa. Non era casa di fate, non era
castello di cavalieri e nemmeno stamberga di streghe, ed era pure quanto di
più lontano si potesse immaginare dal nostro pozzo che sorgeva a filo d'aia.
Verricello, catena, secchio e forza muscolare: solo con questi requisiti si
poteva dire di trovarsi davanti ad un pozzo secondo la mia esperienza.
Quella stranezza era
stata costruita nel gomito a novanta gradi che la provinciale formava con la straducola snodantesi
tra i campi per collegare le poche cascinette fino a
morire nella grande aia di un'importante fattoria dopo circa tre chilometri.
Io, intanto, ferma su questa straducola, abbarbicata
alla mano dello zio, continuavo a lanciare sguardi fuggevoli e incerti alla
costruzione misteriosa tentando di capire.
Un muretto che circonda
l'enorme basso cilindro in cemento, riparato da una copertura che fa da tetto e
che non supera il livello
stradale. Il tutto recintato da una robusta rete metallica interrotta da un
piccolo cancello, sempre chiuso con un grosso lucchetto, che si apre alla sommità di
una breve e stretta scaletta di ferro, la quale immette su una piccola
passerella in cemento che comunica con il cilindro. In fondo
ad essa un'apertura a rettangolo, di un metro per due circa, lascia vedere una
massa scura, quasi nera, paurosa: è acqua (del resto limpidissima, pura di
sorgente), che borbotta, sobbolle in un modo che a me pare sinistro e mi mette
i brividi: un mostro liquido e solito al tempo stesso.
– Vedi? –
spiega lo zio che mi aveva stretto maggiormente la mano. – È assai
pericoloso questo posto. Che non ti venga in mente di venire qui
da sola. –
– Ma ci sono orchi e streghe là dentro? –
– Be', può darsi.
Non si può sapere con precisione. L'importante è che te ne stia alla larga.
Anche senza orchi e streghe, se vai dentro lì sta'
tranquilla che non ne esci più. Ti immagini cadere in
quell'acqua nera e gelata? Eh, te lo immagini? –
Certo, me lo immaginavo
così bene da sentirmi tutta un ghiaccio.
C'erano sì alcuni
acquaioli che si avvicendavano per far funzionare la distribuzione dell'acqua,
tuttavia il pericolo, per un bambino, era reale, non essendo essi sempre
presenti.
Così la brughiera, la
vasta area cui era stato dato il nome di Campagna,
nome che nel lessico zonale aveva assunto il significato amaro di terra poco
meno che desertica, ora sarebbe stata valorizzata mediante la possibilità
d'irrigazione per il tramite di un canale manufatto in cemento che partiva dal
pozzo e si prolungava tra i campi per poche decine di metri, diventando poi
fosso biforcato in due diramazioni: sud e ovest; di mano in mano regolato da
chiaviche in modo da far defluire l'acqua negli adacquatori privati.
Ogni goccia era preziosa
ed i contadini, con i pantaloni rimboccati fin sopra
il ginocchio, che lasciavano scoperte gambe impressionanti per il loro bianco
anemico appetto a viso, collo, braccia e piedi
incredibilmente scuri per la continua esposizione al sole, armati di vanga e di
sveglia, ove non possedessero orologio da tasca, si muovevano sulla loro terra
con frenesia, facendo grande attenzione a che non si aprissero falle fuori
luogo nell'argine dei fossatelli. Quando ciò accadeva s'affrettavano a topparle con porche sapientemente
rubate alla capezzagna e incollate sul pertugio con pochi ma decisi colpi di
vanga, per impedire all'acqua di disperdersi prima di giungere sugli
appezzamenti predestinati alla bevuta vitale.
Anche Cordella e Lamiani, che confinavano con le loro minuscole proprietà,
avevano acquistato mezz'ora d'acqua settimanale. Nonostante la vicinanza (o
forse proprio a causa di essa) tra di loro non s'erano
mai potuto instaurare rapporti amichevoli. E ciò malgrado Cordella fosse
tollerante al massimo, dotato d'ingenua acrisia che lo portava immancabilmente
a giustificare le cattive azioni altrui, quando le notava; come a dire che il
suo stato miserabile non aveva agito sul suo spirito da acido corrosivo. Al
contrario di Lamiani a cui
tale stato aveva acuito l'irascibilità, la prepotenza, l'invidia innate. E ciò
costituiva l'intoppo insormontabile al nascere di un rapporto almeno di buon
vicinato. La frequentazione reciproca, quindi, se non fosse stato per i loro
campi confinanti i quali, volenti o nolenti, li obbligavano a certi contatti,
era ridotta a zero. Le due famiglie preferivano ricorrere agli abitatori di
casolari anche molto lontani per i soliti piaceri: una
manciata di semente in prestito, un arnese, una mano in occasione del
parto della mucca e cose simili. Mogli e figli più grandicelli seguivano
l'esempio dei capifamiglia; persino ai figli più piccoli il Lamiani
aveva proibito di frequentare i coetanei Cordella.
La faccenda dell'acqua però aveva costretto Lamiani ad umiliarsi davanti al
vicino. Infatti l'adacquatore di quest'ultimo poteva
fornirsi direttamente dal fosso consorziale, mentre il terreno dell'attaccabrighe,
a valle, era ubicato in modo tale da non poter godere di una felice autonomia.
Per questo, scaduta la mezz'ora d'acqua di Cordella, Lamiani
avrebbe potuto usufruire della sua solo grazie al fossetto
del vicino. Pur facendo di tutto per non darlo a vedere a nessuno sfuggì come
questa dipendenza gli pesasse, anche se il pacifico Cordella non faceva nulla
per rimestare nella piaga nemmeno con allusioni larvate. Nonostante ciò il
tarlo rodeva con caparbietà il cervello di Lamiani
che stava sempre in agguato, sperando che si presentasse l'occasione per farla
pagare a quel "santificeto" che si faceva
bello di bocca dicendo in giro: "Ha dovuto farlo il piscio quello a venire
ad umiliarsi davanti a me." Non era vero niente,
ma a lui, Lamiani, non sfiorò nemmeno il dubbio che
avrebbe anche potuto non essere oro colato. La voce era stata messa in giro da
alcuni incoscienti e si era propalata alla svelta così che ora si trovava più
spesso dell'auspicabile qualcuno pronto a ripeterla al Lamiani
con uno sgradevole sogghigno di accompagnamento; lo facevano solo per il gusto
di vedere l'uomo, ben poco amato, stringere le mascelle e illividirsi di
rabbia. Purtroppo a nessuno passò per la testa che quello poteva essere un
gioco pericoloso, così che tali sfottò, sedimentando puntigliosamente, aggiunsero tarlo al tarlo raddoppiandone la forza. Nel contempo
l'iracondo pensava, rimuginava, osservava. Fu così che notò come il frumentone
del nemico fosse (o gli parve) più rigoglioso del suo. Come mai? Stesso terreno,
stessa semente, stesso concime, stessa lavorazione,
stessa … Ecco qui: l'acqua era sì la stessa per qualità, ma non per quantità.
Sicuramente il marpione gliela rubava. L'aveva in pugno finalmente!
Naturalmente un furto
del genere, anche volendolo compiere, era impossibile, dato
che allo scadere della mezz'ora, orologio alla mano, quel demonio era
pronto con la chiavica a deviare il corso dell'acqua sul suo terreno; ma queste
erano sottigliezze di pensiero che non potevano rompere le barriere erette da
un livore tanto corposo quanto gratuito nel cervello offuscato, oltre che
ottuso di quel demonio.
Ormai era deciso; con
uno stratagemma
da bambini l'avrebbe colto sul fatto ed avrebbe così potuto sputtanarlo
davanti a tutti, dopo averlo caricato d'una man di botte da lasciarlo
tramortito. Questa soddisfazione nessuno gliel'avrebbe tolta.
Fra un paio di giorni
sarebbe stato il loro turno di irrigazione. Lamiani usava portarsi sul posto cinque minuti prima che
scadesse la mezz'ora di Cordella. Anche quel giorno lo fece:
calzoni rimboccati, grandi piedi nudi e spessi che allargavano le dita in modo
prepotente sulla terra confondendovisi per il colore,
vecchio cappello di paglia dalla tesa rosicchiata calato alla bruta sul capo e
vanga in ispalla, più protervo che mai, si rivolse al
vicino seccamente:
– Devo fare una
corsa a casa. Starò via un quarto d'ora. – Parlando aveva posato altrove
il suo sguardo obliquo, reso più infido dall'ombra che il cappello faceva
cadere su metà del volto. – Fammi il favore di regolare l'acqua. –
Cordella lo guardò
stranito: quella richiesta riguardante l'acqua era assurda, incomprensibile.
Comunque mormorò un va bene consultando la grossa
sveglia che aveva posato sulla biforcazione d'un gelso. All'ora esatta avrebbe
deviato l'acqua sul campo del vicino poi avrebbe falciato un po' di medica ai
bordi del suo adacquatore.
Naturalmente Lamiani non andò a casa (un
quattrocento metri più a valle). Si incamminò da
quella parte ma per nascondersi subito dietro una montagnola di sassi misti a
terriccio magro e coperta di rovi, caprifico, robinia e ogni sorta di
sterpaglia, strettamente confusi gli uni agli altri, allietati da varie specie
di fiori spontanei, molto belli, anche se magrolini. Una specie di bocconi di
terra di nessuno che, abbiamo visto, esistevano nella
zona e molto spesso servivano da confine tra podere e podere.
Lamiani, là accucciato, non muoveva un muscolo, non
pensava nemmeno alle vipere che vivevano in quei cumuli lunghi cinque o sei
metri e larghi circa due, chiamati rivoni. Avvertiva
soltanto la terribile tensione che lo faceva tutto tirato come la pelle d'un tamburo. L'aria ne vibrava: quello era il "suo
giorno".
Intanto il tempo
sembrava scorrere troppo lentamente. O era già passato il quarto d'ora che s'era preso come termine? Lo temeva; tuttavia non osava
controllarlo sull'orologio che teneva nel taschino dei calzoni: era convinto
che il buon esito dell'impresa dipendesse dal suo sguardo incollato, con forza
caparbia, alla figura che, a pochi metri, attraverso la cortina di calura che
già iniziava, ma soprattutto attraverso il suo sguardo offuscato dall'odio,
aveva perso i chiari contorni di
figura umana diventando una massa imprecisa e fluttuante, quindi indebolita,
facilmente soverchiabile. Se ne avesse distolto gli
occhi il potere magico che gli garantiva la sua supremazia sul nemico si
sarebbe sciolto miseramente facendone un vinto anziché un vincitore.
Oh, ecco! Ecco,
finalmente … Ora!
Con uno scatto raddrizzò
il suo lungo corpo aprendosi un varco tra il groviglio, senza nemmeno sentire
le spine che gli penetravano nella carne, puntando la vanga in avanti come una
lancia pronta per l'assalto.
– Ladro!
Ladro!… – badava a gridare avvicinandosi velocemente a Cordella.
Anche quest'ultimo stava
usando la vanga. S'era accorto di un punto debole
nell'argine del suo adacquatore così, deponendo la falce, aveva deciso di
rabberciarlo con una zolla di terra affinché l'acqua non si perdesse a scapito
del vicino. Proprio questo atto di lodevole lealtà era
apparso al cervello ottenebrato dell'altro la prova tanto attesa: Cordella gli
rubava l'acqua. Nemmeno domeneddio in persona sarebbe riuscito a fargli
intendere la ragione.
Oramai gli era ad un
passo. Più alto d'una buona spanna lo dominava vomitandogli addosso
l'accusa con spessa ferocia nella voce:
– Ladro, ecco
perché la mia acqua non basta mai e tu hai sempre raccolti
più buoni. –
Cordella ascoltava a
bocca aperta, senza capire completamente. "Sentiva" soltanto la
vanga dell'altro sospesa sulla sua testa. Alzò allora
la propria in un gesto istintivo di autodifesa. Purtroppo tale gesto agì
sull'altro come un atteso segnale inequivocabile: paonazzo, stravolto Lamiani vibrò un colpo di taglio con il suo arnese
spaccando il cranio al vicino.
Il poveretto, ad occhi sbarrati, si afflosciò piano, avvitandosi su se
stesso; quindi, con un movimento scomposto di tutto il corpo si adagiò a terra
finendo con la testa spaccata nell'acqua ora non più limpida.
Ma essa non smise di
fluire: lenta e ignara continuò a scorrere trascinando seco
la vita e la morte.