Statuina
Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
– Faüstì, dàmen en quart, alà; gó na
sét, ma na sét. En cö, de diśnà, gó mangiàt el tòno
e adès gó na sét. Gó e pó
a fat rìder el Signùr… – (Faustino,
dammene un quarto, va là; ho una sete, ma una sete. Oggi a desinare ho
mangiato il tonno e adesso ho una sete. Ho anche fatto ridere il Signore –
ossia: ho mangiato tutta la polenta lasciando la tafferìa
vuota).
Statuina (proprio una
bella statuetta doveva essere stata da giovane) avrebbe dovuto dire
"tu" e non "tòno" perché nel
dialetto bresciano la seconda forma non esiste in tal senso. E l'illogico
termine nel mezzo della cantilena, per le prime volte che lo udivano faceva
perdere agli avventori un po' di tempo a cercare il nesso tra il tono e la
sete. Poi allungavano il collo e aguzzavano la vista per vincere la
semioscurità che sempre regnava nel locale dal basso soffitto, sostenuto da due
colonne appena rastremate, molto vicine l'una all'altra. Alla fine, dietro una
di esse, immersa nelle sue strambe visioni o nei suoi tristi pensieri, si
scorgeva Statuina. Minuta e sporca, con una ispida peluria sul labbro
superiore, dava l'idea d'un magro botolo che avesse finito proprio allora di
azzuffarsi.
Fin dal primo momento in
cui si poneva a sedere incastrava la sua liscia figura infagottata in vesti
sformate, tra il bordo del tavolino e lo schienale della sedia, rigida e
scomoda, in uno spazio esiguo. Ciò la manteneva eretta fino alla fine anche se
il capo andava reclinandosi sul petto con il trascorrere delle ore. Gli occhi
socchiusi, le palpebre tremolanti, dal cui bordo ammiccava perenne un velo di
lacrime, la tapina centellinava un quartino dietro l'altro di vino rosso, con
metodo e lentezza, fino a pomeriggio molto inoltrato. Fino a che chiedeva a
Faustino, o a sua moglie, di aiutarla ad alzarsi e di pilotarla fuori dalla
porta. Uno dei due era sempre pronto ad eseguire lasciando la donna addossata
al muro esterno, con la testa ciondoloni e le spalle curve, a borbottare
oscenità. Dopo vari minuti l'aria le snebbiava il cervello quel tanto che
bastava per raggiungere il portone di casa sua, situato a pochi metri sullo
stesso lato del marciapiede.
Per la prima ora dalla
sua entrata nel locale non faceva altro che ripetere la storiella del "tòno", con immutato zelo ogniqualvolta il quarto di
litro rimaneva secco. Poi iniziava a parlare d'altro. Strani incidenti che le
capitavano, per lo più provocati dall'invidia del vicinato e dalla cattiveria
umana in genere, i quali le avvelenavano l'esistenza. A questo punto non aveva
più bisogno di ricorrere al pretesto del tonno; avendo molto acquistato in
sicurezza attirava l'attenzione dell'oste con un energico colpo del vetro vuoto
sul ripiano del tavolino. Faustino lasciava cadere nel nulla i primi due o tre
colpi (molti di più se vi era appena un cliente o due); alla fine arrivava con
il bottiglione rifornitore, non troppo lestamente, perdendo ancora un po' di
tempo qua e là, durante il tragitto che lo divideva dalla sitibonda.
– Ce ne hai messo
del tempo, inculato. Hai i piedi piatti? –
Il giovane né sorrideva
né s'imbronciava; il suo viso largo e sincero diventava solo un poco più
serio. Non che Statuina lasciasse conti in sospeso; ma al giovane dispiaceva
vedere la vecchietta abbrutirsi fino all'ultimo stadio. Una volta accennò
vagamente ad una profonda rassomiglianza tra Statuina e una defunta nonna a cui
aveva voluto un mare di bene.
La prima volta che misi
piede nell'ambiente lo feci con estrema diffidenza. Mi convincevano poco, tra
l'altro, i tre gradini che bisognava scendere appena scostata la tenda fatta
con i tappi di latta delle bottiglie, schiacciati intorno a cordicelle che
riempivano, statici o tintinnanti, l'occhio della porta. Un antro quello
stanzone lungo e buio a cui le cromature della macchina del caffè espresso sul
bancone quasi addossato alla parete in fondo, non davano nessuna allegria.
Tutta la sua luce veniva da una finestra con inferriate affacciata ad un
vicolo.
Ero tremendamente stanca
quel mezzogiorno passato, dopo essere corsa di qua e di là, per tutta la
mattinata, come da troppo tempo ormai, solo per ricevere rifiuti nudi e crudi,
sorrisi di compatimento, promesse vaghe, più false di giuda, alle mie richieste
di lavoro. Per questo scesi i gradini, strizzando un poco gli occhi, senza
immaginare che sarei diventata, in seguito, quasi una cliente abituale. Con i
pochi soldi, che dovevo dosarmi con oculatezza indicibile, potevo scegliere tra
un panino con cetriolo sottaceto (il pasto più importante delle mie giornate)
o un caffè. Quella volta mi permisi il lusso della seconda alternativa perché
le avevo conferito un significato speciale: l'illusione di potermi offrire il
superfluo. Me lo concedevo, sia pure assai di rado, questo lusso. Lo stomaco
avrebbe reclamato solo dopo un'oretta – faceva sempre cosi – nel
frattempo, mentre avessi rimestato lo zucchero nella tazzina, badando bene di
nascondere sotto la sedia i sandali rotti sui piedi nudi (preoccupazione
sciocca, in fondo, visto che avrei dovuto nascondere tutto quello che mi era
addosso), potevo cullarmi in un'altra illusione: l'inserimento in una società
che faceva di tutto per mantenere ben definiti i confini entro cui rinchiudere
i suoi emarginati. L'inserimento in un trantran che può portare
all'appiattimento, alla noia, alla nausea persino; condizioni tuttavia da
accettare in blocco, a scatola chiusa piuttosto della fame, della nera miseria.
Faustino e sua moglie
(una ragazza belloccia e assai sveglia) da dietro il banco mi sorridevano quando
i nostri sguardi si incrociavano. "Come va il lavoro, signorina?".
Me lo chiedevano di rado. Sapevano? Un modo gentile di prenderla alla larga per
un interessamento sincero? Non volli mai grattare la vernice ed essi non mi
diedero motivo di dubitare della loro sincerità.
Anche l'ultima goccia di
caffè nella tazzina spariva alla fine. Con studiata indifferenza mi avvicinavo
al tavolo di Statuina appoggiandomi alla colonna, proprio al suo fianco, per
avere il pretesto di fermarmi ancora un poco. Al mio arrivo la donna non
muoveva un solo muscolo del suo corpo; l'unico segno che aveva notato la mia
presenza era dato dal nuovo indirizzo che veniva prendendo il suo soliloquio.
Nell'ostico dialetto bresciano, dalla cadenza così marcata e dall'andatura lenta, parlava a mio esclusivo beneficio,
tenendo sempre fisso davanti a sé gli occhi lacrimosi.
– È triste essere
vecchi. Oh, com'è triste, cara la mia ragazza. – La voce faticava a
prendere l'abbrivo e le usciva arrochita dall'alcool e dalla sua solitaria
infelicità. Dopo una breve pausa ripartiva incespicando solo nei plurisillabi,
ma senza più fermarsi:
– Tu, anche se te
la passi male, puoi sempre sperare in qualcosa di buono. Chi te lo proibisce?
Non costa nulla sperare. Ricordati che giovinezza vuol dire speranza e fino a
che uno spera non dovrebbe lamentarsi mai. Anch'io quando ero giovane speravo
sempre nel giorno dopo. Anche se tutto mi andava male speravo ancora. Mio
marito si ubriacava e poi mi batteva. Mio figlio piangeva perché non avevo
nulla da mettergli nello stomaco. Eppure speravo. Ed ebbi ragione perché la
frittata finalmente si voltò. Quel disgraziato del mio uomo crepò pieno di
vino. Io mi diedi da fare, capisci, vero? L'ho data via per allevare mio figlio
come si deve. Non guardarmi adesso, ma da giovane piacevo agli uomini. Ostia se
piacevo! Clienti ne avevo a volontà, così ho fatto studiare mio figlio da
perito industriale alla Moretto. È un'ottima scuola quella, la migliore in
città. Ci vanno molti ricchi. Lo sai, vero? Gli ho dato una posizione. Solo che
la frittata si girò un'altra volta. Ora è mio figlio che mi batte, anche
senza ubriacarsi. Dice che sono una troia e che si vergogna di me. Con tutto
quello che ho fatto per dargli una posizione. È un mezzo signore, ma dovrebbe
crepare anche lui, dovrebbe. Oramai sono vecchia e non ho più nulla, nemmeno la
speranza. Sì, cara la mia ragazza, sono molto infelice. Per fortuna ci sono
questi due bravi giovani che mi aiutano a tirare avanti… –
La prima volta avevo
tentato di mormorarle qualche parola di conforto, ma lei mi aveva subito
zittito:
– Va a farti
chiavare. Cosa vuoi che me ne faccia delle parole? Se vuoi ascoltarmi stai
zitta. Io ho bisogno di sfogarmi con qualcuno se no va a cagare sulle
ortiche. –
Così l'ascoltavo in
silenzio, fino a che la disgraziata lasciava sgorgare, lungo le guance vizze,
lacrime a goccioloni lenti. Alla fine me ne uscivo, al sole o sotto la
pioggia, cercando di dare corpo al messaggio di speranza che Statuina mi aveva passato
con convinzione.