Il nome
Questo racconto fa parte della raccolta di racconti
inediti Anni quaranta-cinquanta,
di Celeste Chiappani
Loda, ambientati nel ventennio 1940-50.
Da più di sei mesi ormai
si ostinava su quella strada, ed aveva collezionato
tanti di quei fiaschi, di quelle umiliazioni, di quelle delusioni di cui non
teneva più nemmeno il conto. Non un settimanale, non un mensile, non un
periodico qualsiasi, tanto meno un quotidiano o una casa editrice, che avesse
accettato una sua riga: tutto gli tornava puntigliosamente indietro
accompagnato da una lettera prestampata di rifiuto, quando la fortuna era dalla
sua parte; oppure avveniva che non sapeva nemmeno che
fine avessero fatto i suoi lavori. Non esisteva buco in cui Wolfango
non si fosse intrufolato portandole personalmente, ove fosse possibile, o
spedendo le sue fatiche. Solo una volta ricevette l'invito a presentarsi dal
direttore di un quadrimestrale quasi sconosciuto con velleità di fronda, dopo
quindici giorni che aveva consegnato un suo lavoro.
Il ragazzo non avrebbe
saputo dire quante volte lesse quella comunicazione, e se anche una parte del
suo cervello gli raccomandava di non abbandonarsi a visioni troppo rosee, non
seppe contenere la sua gioia e frenare la sua fantasia. Riuscì soltanto a non
esteriorizzarle con gesti o con parole, per il fatto che
era solo.
Consultò la pianta della
città. Tenendo conto che era un buon camminatore dal passo veloce
calcolò che in mezz'ora sarebbe arrivato sul posto. Bene, con un'altra mezz'ora
concessa agli imprevisti, sarebbe partito da casa alle
nove. Ma del mattino seguente, purtroppo, perché così
era richiesto. Come avrebbe fatto a far trascorrere
ventiquattro ore senza scoppiare?
Ma si sa che qualunque sia il nostro stato d'animo
il tempo scorre; e durante questo scorrere avvenne un fatto che turbò in modo
assai rimarchevole il povero Wolfango. Questo
qualcosa era il dubbio. Egli aveva fatto in modo di tenere a freno la fantasia
nel senso di non lasciarle creare mondi dorati che l'avrebbero accolto, ma non
le aveva proibito di lasciare spazio a discrete possibilità. E se anche queste
discrete possibilità fossero state troppo? Magari quel
tizio era un sadico che lo convocava per dirgli che lui, Wolfango
Volturi, era un emerito imbecille; oppure, forse in buona fede (ne capitano a
questo mondo di fatti strani!) per dirgli che gli parlava proprio come un padre
può consigliare un figlio; ossia, perché non lasciava perdere
quella strada, difficile a dir poco, e non si cercava un onesto lavoro
qualunque per campare la vita in modo sicuro?
Oh, basta, brontolò il
ragazzo a mezza voce, rigirandosi nella branda poiché si era già a metà
nottata, domani si vedrà. E con questa decisione finalmente prese sonno.
Fu ricevuto in un
ufficio piccolissimo ricavato nel cortiletto di una vecchia casa in Largo Richini. Appena entrato Wolfango
notò che il tizio, gobbetto e dall'aria discretamente
equivoca, teneva sulla scrivania le sue cartelle accuratamente dattiloscritte e
fermate da punti metallici. Mentre il ragazzo stava in piedi, perché nessuno lo
aveva invitato ad accomodarsi sulla sedia libera lì accanto, il tizio, tenendo
un indice curato e accusatore sui dattiloscritti, parlò senza alzare lo
sguardo:
– Potrei chiederle
perché scrive; ma mi sento buono questa settimana,
così spenderò alcune parole che, se ha cervello, le potranno tornare utili.
Questa roba non va. – Intanto spingeva i fogli verso Wolfango. –
Non va né per me né per nessun altro. Sì, il sentimento potrebbe anche andare;
noi italiani, poi! Ma la strada è sbagliata, lei
capisce. Dopo due guerre mondiali il suo tipo di scrittura è assurdo. Da molto
tempo si è cambiato tutto e si continua a cercare nuove tecniche, nuovi linguaggi, nuovi contenuti. Oggi il lettore è
smaliziato e vuole qualcosa di più… gustoso, diciamo.
Lei m'intende, vero? – Ed aveva riabbassato la
testa tenuta alzata per pochi secondi.
Mentre ascoltava Wolfango aveva continuato ad
annuire con il cuore stretto e con robusti cenni del capo. Sperava tanto che
l'altro non s'avvedesse che lui non aveva capito nulla
di nulla. Rimase impalato un paio di minuti ad attendere un gesto o una parola
di congedo, ma visto che niente arrivava mormorò un
grazie, buongiorno a fil di voce, si girò a spalle curve e guadagnò l'uscita,
con il suo malloppetto che gli bruciava tra le mani.
Una volta in strada
dove, in casi simili, di solito, bastava vedere gente perché i suoi giovani
anni avessero la meglio su tutto, si guardò in giro in
cerca ansiosa del solito conforto che però non venne. Stavolta era diverso. Frastornato si incamminò prendendo un percorso lungo;
camminando sperava di poter mettere ordine nel subbuglio dei suoi pensieri: che
cosa aveva inteso dire quel tizio?
Mentre procedeva
lentamente, urtando e lasciandosi urtare dai pedoni,
gli venne in mente all'improvviso quella scena svoltasi durante la seconda o la
terza settimana che aveva preso alloggio dalla signora Brigida.
Costei non aveva certo l'aspetto né della mamma né della sorella maggiore,
almeno così come dovevano essere tali donne secondo il metro del ragazzo.
Tuttavia nella sua sprovvedutezza quasi incredibile di diciottenne pulito, s'era lasciato andare a confidarle i suoi segreti, le sue
speranze, le sue aspirazioni (o era stata lei a provocare tali confidenze con
molta abilità? – per la prima volta pensò questo).
La donna, che con i tacchi alti lo superava di qualche centimetro, prosperosa e
volgare, lo aveva guardato a lungo, al di sotto delle
ciglia rigide di rimmel, mettendolo a disagio. Alla fine aveva esclamato:
– Certo, piccolino,
ti auguro ogni successo. Hai fatto bene, sai, a
confidarti con me. Quando vuoi sfogarti o avere dei buoni consigli, vieni pure
dalla tua Brigida che lei saprà capirti. – Quindi era scoppiata in una risata strana allungandogli una
carezza con la sua mano grande e forte dalle unghie lunghe laccate di viola. Wolfango era arrossito scappando con un pretesto puerile e
pensando che sua madre – o sua sorella se mai ne avesse avuto una –
non si sarebbero comportate in quel modo.
Subito dopo questa s'era aggiunta l'immagine dell'altra scena. Era sera e la donna, più truccata che mai,
con un vestito sgargiante che le dava sui quarant'anni portati male o sui
cinquanta (come ne aveva) portati discretamente, gli era entrata in camera
senza bussare. Il ragazzo aveva sussultato e lei aveva riso ancora in quel modo
che tanto lo disturbava.
– Allora, che fa di
bello il mio piccolino? – aveva esordito. – Sai, per via di quella
faccenda là sono venuta. Sì, del tuo scrivere, intendo. Perché non vieni nel mio letto qualche notte? Il mattino dopo, ti assicuro,
potresti scrivere un racconto, ma di quelli!… Ti insegnerei
un mucchio di trucchetti che, scommetto, non sai
nemmeno che esistono. Sono queste le cose che scrivono adesso. E scritte tutte
chiaro e tondo che se le leggi ti fanno venire una voglia matta. –
Egli aveva sorriso da
ebete e poi s'era affrettato fuori dalla stanza
borbottando che doveva assolutamente incontrare un amico. Doveva essere proprio
questo ciò che intendeva quel tizio. Non aveva più dubbi: tra le allusioni del
tizio e il comportamento della sua padrona di casa il nesso era strettissimo.
La convinzione lo riempì di disgusto. D'altra parte era stanco e affamato e non
poteva che dirigersi verso la tana dove avrebbe consumato un paio di panini con
una tazza di latte scaldata sul fornelletto a spirito.
Tana, non rifugio. Tra quelle pareti si era sempre
sentito un estraneo. Dopo le due scenate poi si era visto costretto a manovre
logoranti per evitare incontri con la signora Brigida.
Aveva anche tentato di chiudersi dentro a chiave. Ciò
che la donna indignatissima dichiarò essere un'offesa
personale che non avrebbe potuto tollerare. Anche qui dunque doveva andarci
cauto fin che avesse voluto battere quella strada senza altri buchi dove
rifugiarsi.
Per un'insperata fortuna
non aveva incontrato la donna al suo rientro. Con il fiato grosso girò la
chiave nella toppa addossandosi alla porta. Tanto era il bisogno di star solo
che avrebbe arrischiato le ire della strega. Ristette in quella posizione fino
a che il respiro divenne regolare. Alla fine, senza uno scopo preciso
attraversò il locale per affacciarsi alla finestra. Essa dava su un piccolo
cortile tipico delle case d'affitto della vecchia Milano, che avrebbe potuto
essere una casa della parte vecchia di qualsiasi città. Dal terzo piano dove
stava, il ragazzo vedeva di fronte, in un angolo del cortile, due porticine
rozze di assi ingrigite dal tempo, con la scritta CESSO contornata da ogni
sorta di disegni e frasi oscene fatti con il gesso o
con il carbone. Sul lato opposto invece, una fila di grandi pattumiere vaiolose
d'ossido, sempre rigurgitanti pattume e coronate di
gatti speranzosi e attaccabrighe. E rampe di scale strette, buie, soffocate che portavano ai ballatoi, un ordine per piano,
pavesati in continuazione da file di indumenti stesi ad asciugare i quali,
nella loro spenzolante staticità acuivano il senso di miseria fisica e morale
senza spiragli.
Il colore della vecchia
Milano, il colore di migliaia di città che si vede
tanto volentieri nelle cartoline o nei dipinti. Wolfango
si ritirò dal suo osservatorio con una sorta di enfiato avvilimento che gli
premeva contro le pareti della gabbia toracica.
Prese dal tavolo i suoi
manoscritti: ne avrebbe riletto qualcuno, sdraiato sulla brandina. Era un
passatempo che gli aveva sempre dato gran soddisfazione. Ma
ora? Armandosi di coraggio pensò che quella avrebbe potuto essere una prova,
una verifica. Privilegiò un racconto tra quelli che
gli sembravano meglio riusciti, "La fanciulla dalle lunghe trecce".
Iniziò a leggere:
"La fanciulla stava attingendo acqua dal pozzo vicino al grosso
gelso pensando al suo amore che, in quel momento, stava lavorando nei campi al
di là della collina che iniziava appena oltre l'orto. Ad
un tratto la sua attenzione fu attirata dal galoppo di un cavallo che si stava
avvicinando velocemente. Girò la testa e vide un bel cavaliere impolverato che
frenava la magnifica cavalcatura a pochi passi da lei."
Il ragazzo quando scriveva o rileggeva i suoi lavori riusciva sempre a creare
un mondo per sé, così vivibile da potervisi trasferire
anima e corpo. E tutti quei personaggi amava così come
gli uscivano dalla penna, senza notarne l'anacronismo, l'assurdità, la
gratuità. Amanda, comunque, la fanciulla dalle lunghe
trecce, era la sua prediletta. Con lei Wolfango
viveva e sognava. Casta e forte di una morale diamantina, pur accesa da improvviso
amore – ricambiato – per il bel cavaliere, non aveva esitato a
soffocare sul nascere ogni cosa per tener fede alla
parola data: solo con il suo contadino avrebbe concepito un'unione sempiterna,
ormai ...
Ma ecco, fellona, devastante,
un'immagine improvvisa, tanto oscena quanto chiarificatrice: l'accostamento Amanda-Brigida. Al poveretto si offuscò la vista mentre il
cuore perdeva qualche colpo.
La vita è tutta una coincidenza.
Innanzitutto quel nome così impegnativo: Wolfango.
Come qualcuno crede all'influsso degli astri sul destino degli uomini, così
egli credeva all'influsso dei nomi di battesimo. Oddio, non sempre capita. Anzi, se voleva essere onesto
doveva ammettere che le sue esperienze personali erano fatte apposta per
sbriciolare tale teoria. Difatti conosceva un Nazareno finito in galera per
stupro, un Benito sfegatato comunista, un Ercole
rimasto nano, una Regina che viveva di elemosina, un Costante che mutava parere
ogni mezz'ora. Ma forse Wolfango
era diverso. E come non bastasse questa convinzione basata su niente,
arrivarono anche i galeotti.
Prima il parroco del suo
paesino, che aveva la debolezza di parlare a vanvera dopo aver alzato il gomito
in solitudine privilegiando chianti. Wolfango, in quel borgo di quattro gatti passava per un
ragazzo intelligente e colto. Aveva superato con ottimi risultati il triennio
che portava alla licenza di avviamento al lavoro, ed
aveva poi seguito un corso serale di stenodattilografia che, all'atto pratico,
non gli era mai servito. Nei pochi uffici dei paesi vicini più importanti del
suo, dove s'era presentato per le prove, era saltato
fuori che batteva a macchina troppo lentamente e che faticava a decifrare i
segni stenografici da lui stesso tracciati.
Così si stava
immalinconendo sui suoi sogni quando un bel giorno il buon prete fermò il
ragazzo per commissionargli un articoletto, da far circolare come una lettera
aperta tra fedeli e non fedeli, in occasione della Pasqua vicina.
– Abbiamo bisogno
di linfa giovane, caro il mio ragazzo, – aveva spiegato, – di nuovo
vigore, altrimenti si arrischia di venire schiacciati
da chi so io. –
Wolfango, assai lusingato, ce la mise tutta e fece saltar
fuori un paio di colonne dove si parlava di uova, di
ciliegi fioriti, di sole già caldo, di garrire di rondini; il tutto al suono
festoso di campane. Naturalmente un cattolico vedeva subito tra le righe
l'ulivo benedetto e la Resurrezione di Cristo. Anche il prete vide tutto questo
e si complimentò con l'autore esclamando e declamando:
– Ah, figlio mio,
hai la stoffa d'un romanziere e l'estro d'un poeta.
Quale peccato che tu non riesca a farne una professione! –
Per colmo di sventura
arrivarono subito anche quelli dell'altra sponda che avevano considerato lo scritto un tradimento e se n'erano lamentati con il padre di
Wolfango andando giù di brutto.
– Possibile –
avevano detto – che tu, compagno della prima ora, permetta a tuo figlio di
fare il voltagabbana? –
Il poveretto era rimasto
un male da cani e stava dicendo che avevano ragione,
che non aveva pensato che fosse una cosa grave, eccetera, ma non gliene
lasciarono il tempo e continuarono benigni:
– Comunque tutti si
può sbagliare. Si dà il caso che per tuo figlio ci sia la possibilità di
redimersi. Quel farabutto di Malincerti ha licenziato
un suo salariato, con l'appoggio dell'avvocato Quagliardi,
più farabutto ancora, il quale è riuscito a trovare un cavillo nel contratto
che nemmeno con la lente d'ingrandimento. Si tratta di scrivere una denuncia,
sotto forma di lettera aperta, che noi provvederemo a
tirare con il ciclostile e a far circolare. –
Anche stavolta Wolfango ce la mise tutta, un po' per togliersi la taccia
di voltagabbana che tanto aveva addolorato il padre, un po' perché il
licenziato aveva una figlia niente male. Oltre, naturalmente, al fatto che era
il sogno della sua vita quello di scrivere.
Stavolta lo
"scrittore" tirò in ballo il medioevo facendo sfoggio di termini come
feudatario, servo della gleba, castellano. E fu grande successo accompagnato
dalla frase fatale:
– Compagno, sei un
vero scrittore. Perché non tenti quella strada? C'è bisogno di scrittori nei
nostri quadri. Certo che se ti fermi qui non potrai combinare nulla di buono.
Milano, ecco, Milano: là puoi incontrare gente, fare tutte le esperienze che
vuoi. E uno deve conoscere la vita per poter parlare
agli altri. Lasciamelo dire: la tua strada è soltanto quella. –
I genitori poveretti
(avevano soltanto quel figlio) intuirono che scrittore è una parola grossa; capirono, anche se nebulosamente, che alle spalle di
uno scrittore ci devono essere gran tante cose, le quali cose non sapevano
elencare, ma sapevano con precisione che alle spalle del loro figliolo non
esistevano. D'altra parte che potevano fare? Senza idee chiare non si sentivano
di tener testa a chi ne sapeva di più. E poi il ragazzo ci teneva tanto!
Così ora Wolfango si trovava in quella situazione tragicomica.
Mentre pensava a ciò cercando qualche altro racconto da rileggere vide
scivolar fuori dal pacco un mezzo foglio di vergatina, coperto della sua
grafia larga, infantile. Il foglio ondeggiò un poco come una grande farfalla,
fino a che si adagiò sul pavimento da dove l'interessato lo raccattò
incuriosito. Subito ricordò: a lui piaceva leggere e, talvolta, quando incontrava
frasi che lo colpivano le trascriveva su foglietti
sparsi, senza metodo e senza un fine; foglietti che poi disseminava un poco
dappertutto dimenticandosene. Qui lesse di Chessman
che dice a sua madre, la "dolce" Hallie:
"Uno scrittore deve avere una fede; deve credere in qualcosa di più
importante della sconsolante, terribile, negativa realtà d'una
giungla e della propria capacità di sopravvivere a questa."
Che cosa intendeva Chessman? – si chiese Wolfango
alzando la testa per fissare il vuoto.
Un forte bussare alla
porta lo fece trasalire. Subito la voce imperiosa della padrona di casa gridò:
– Apri, so che sei
lì! –
Il ragazzo fu preso dal
panico e rimase immobile trattenendo il fiato. Ma la
voce risuonò più rabbiosa:
– Apri, accidenti! vuoi che ci sentano tutti? –
Fu costretto ad aprire e
la donna si precipitò dentro ridendo nel suo modo sconcertante e scrutandolo
acutamente:
– Che, si fa il
prezioso con la Brigida? –
– No, signora, è
che devo mettermi a lavorare seriamente. Stavo appunto riordinando delle idee
che mi sono venute. Sono idee buone e credo che ne
ricaverò qualcosa di utile, finalmente. –
– Capisco,
piccolino. E se incominciassimo con la prima lezione? – Così parlando
aveva stretto fulmineamente nel braccio sinistro la testa del ragazzo, mentre
con la mano destra era scesa verso la patta dei suoi pantaloni ed armeggiava per aprirla.
Il malcapitato si
riprese subito dallo stupore e per prima cosa pensò: forse questa è una parte
della giungla di Chessman. Il pensiero gli diede la forza
di reagire così che con un colpo violento si liberò della donna mandandola a
stravaccarsi sulla brandina.
– Eh, no perbacco!
Me ne vado. Stasera stessa me ne vado da questa porcilaia. – Senza volerlo
lo aveva gridato con gran determinazione.
Non riusciva a credere
che chi aveva parlato era proprio lui.
La signora Brigida, intanto, si era alzata velocemente avventandoglisi contro come una furia. Ma
il ragazzo sentiva dentro di sé una meravigliosa certezza unita al chiaro
senso del diritto di salvaguardarla; per questo riuscì a fare in modo che i
terribili artigli viola non gli lasciassero segni nella carne. Pacifico di
carattere non gli era mai capitato di dover mettere alla prova la sua forza
fisica, ed ora trasecolava nel constatare come
riuscisse a non lasciarsi sopraffare da quel demonio scatenato, con una certa
facilità. Pure in questa lotta dura e assurda, davanti agli occhi gli passavano
immagini vive, meravigliose nel loro vero significato appena sbalzato dalla
foschia: realtà raggiungibile e godibile.
La sua vecchia casa di
tre stanze (oltre allo stanzone che fungeva da laboratorio di falegnameria del
padre), ove gli alberi piantati all'ingiro parevano
fatti apposta per proteggerla in ogni stagione. Essa era l'ultima prima che il
paesino perdesse la sua identità sommerso nel verde rigoglioso della ricca
campagna irrigua tutto intorno. Le api dell'arnia che il vecchio teneva in
fondo all'orticello, una quarantina di metri quadrati definiti da rovo e pruno
selvatico strettamente uniti, ronzavano in voli rigidi, rettilinei, non certo
innocui e leggiadri come quelli delle farfalle, ma pur sempre pieni di
movimento e di vita che tenevano compagnia, a parte la fornitura di un miele
squisito che faceva perdonare loro qualche puntura. Nella buona stagione gli insetti arrivavano
fin sulla soglia della cucina da cui sua madre li scacciava sventolando uno
strofinaccio: Andate via, bestiacce – gridava ridanciana – non vedete
che oramai sono un fiore appassito? Poi la gallinella americana e il cane
bastando che facevano a gara per ottenere ogni sorta di attenzioni da loro tre.
E quel tenero vecchio la cui figura asciutta e un poco curva, non andava mai
disgiunta da rozzi grembiuloni di tela sempre sporchi
di colla e di segatura. E quante altre cose ancora gli passarono davanti agli
occhi.
Wolfango le scrutava attento, timoroso persino che il
rievocarle con il pensiero in quell'ambiente potessero
uscirne insozzate.
Tra queste immagini la
frase di Chessman gli ronzava nella mente; in essa
era qualcosa che non appagava. Alla fine capì: non lo "scrittore",
così restrittivo, ma l'uomo in genere; e la realtà in toto. Un balzo. Aveva
compiuto un enorme balzo: tornare, ricucire gli strappi e vivere la "sua"
realtà ... che però richiedeva un tremendo sforzo per ammantarsi di positivo. Questo doveva fare, e subito. Ma chissà quante volte avrebbe dovuto cercare e ricercare,
conquistare e riconquistare la forza per farlo durante il cammino! E chi poteva
garantire che una simile rinuncia lo avrebbe reso un misantropo infelice,
insofferente di ogni forma di vita?