Pietre di passo di Angelo Andreotti

Pasturana, puntoacapo, 2023

 

 

Scheda libro. 1

Contenuto. 1

L'autore. 7

 

Scheda libro

La copertina della silloge.

Titolo: Pietre di passo

Autore: Angelo Andreotti

Genere: poesia

Editore: puantoacapo

Anno di pubblicazione: 2023

Pagine: 92

ISBN: 9788866794042

Contenuto

Avevo altri libri da leggere e di cui raccontare, prima di Pietre di passo di Angelo Andreotti, ma l'attrazione che ho provato a "istinto" per questo volumetto mi ha spinto a pesare subito, con la testa e con l'emozione, i suoi 120 grammi di poesia.

Poi quei 120 grammi li ho lasciati riposare per tre settimane durante le quali la vita ha scritto e si è scritta, camminando, correndo, rallentando, sfogliando avvenimenti, seguendo stillicidi. E i ventun giorni hanno assunto il significato della stasi e della decantazione, forse al modo in cui propongono spesso i terapeuti della psiche: lascia che sia, perché tornerà quando servirà che torni. Del resto la poesia (l'arte in generale, per vero) funziona così: una folgorazione, un riposo, la dimenticanza, il riavvicinamento, una nuova immersione a distanza di tempo, quando si è diventati altro da quello che eravamo, la (ri)scoperta.

Tre settimane per diventare altro da noi possono sembrare un'insufficienza quasi blasfema, ma non è così. È assodato che evolviamo (involviamo, pure) giorno dopo giorno e ognuno di questi giorni è un transito lungo percorsi che proseguono incerti o baldanzosi, impervi o in discesa e che sono segnati dalla significanza di pietre di passo.

 

Il cardine della silloge (composta da tutti componimenti privi di titolo) di Angelo Andreotti sta in uno dei compiti della poesia. La quale forgia la nostra identità: non solo personale ma anche civile e sociale; non solo di autori di versi ma anche di fruitori. Lo fa dando voce a significati altri, grazie alla sollecitazione a usare i sensi che – per loro natura – non stanno a pensare: percepiscono d'un subito e rimandano. Quindi se noi creatori di versi ci spogliamo delle sovrastrutture di un'intellettualità troppo spinta, che a lungo andare risulta infeconda, noi fruitori ci troviamo nell'alveo di tanta sincera nudità che, priva di esibizionismi, ci permette di percepire – provenienti da noi e dal mondo – nuove istanze.

Ai sensi Andreotti assegna dunque l'incarico dell'ascolto che diviene conoscenza e scoperta attraverso una "tensione senza intenzione" di herrigeliana memoria:

 

"Ci sono luoghi in cui l'ombra non smette

e sono luoghi del vero nascosto

dove ti adagi, e umilmente accogli

il mite dispiegarsi dei tuoi sensi,

l'ampiezza dell'ascolto

 

quando sei in pace."[1]

 

Il senso cui maggiormente la poesia di Pietre di passo fa ricorso è la vista. Un buon posto è riservato all'udito. Un paio di volte si appella al gusto e al tatto e una all'olfatto.

 

Ecco l'incontro con i sensi prossimali:

 

Olfatto

 

"Piove […].

Certo, è l'odore dell'aria bagnata

e quello della terra, tutti odori

di questo adesso che non si ripete

pur restando nel sempre di quest'ora

che non sarà perduta, ma trovata

nei giorni felici, quei giorni

di luce in cui non servono i perché."[2]

 

 

Tatto

"Grido interiore

quel grido che fugge dagli occhi,

che trema la pelle, fissando

 

la scure del nostro disprezzo

la lama del nostro giudizio." [3]

 

 

"[…]

Non il mondo osserviamo

ma la sua piatta rappresentazione

che non ha occhi per vedere

né mani per toccare."[4]

 

 

Gusto

"Nel nostro tempo sazio e dissennato

abbiamo disimparato la vita

 

abbiamo perso il sapore del pane

 

la gioia della fame… quando mangia."[5]

 

 

"Raccogliere del giorno tutto il succo

e conservarne un poco per altre sere

di giorni meno felici."[6]

 

Qui i sensi lumeggiano: la possibilità data dai giorni felici cui attingere e conservare per i giorni metaforicamente di magra; il risentimento per l'insensatezza con la quale abbiamo sciupato l'opportunità della vita; la condanna per la cecità che porta a considerare non il mondo nella sua ricchezza e verità ma una rappresentazione che non ha vita.

Della poesia Grido interiore[7] diremo più diffusamente oltre.

 

Veniamo ora ai sensi distali. Non citerò tutte le occorrenze, ma darò conto di alcuni usi possibili di questi sensi pertinenti al dominio privato.

Spesso vista e udito trovano posto in una stessa poesia.

Leggiamo quella a p. 9:

 

"Nel tempo di un lampo che annuncia

l'attesa del tuono che arriva

- roboante e tombale -

a togliere un battito al cuore

con l'identico tremore

che fu nel sangue dei nostri antenati

 

s'impone lo stesso sgomento

vacilla la stessa superbia."[8]

 

Essa è esemplare di quanto l'essere umano ricorra ai sensi distali non per adoperare la distanza come strumento di conoscenza del mondo attraverso un giusto distacco spaziale, non per scattare una fotografia che gli porga la necessaria visione d'insieme per fruire correttamente del mondo stesso. L'uso contemporaneo di vista e udito è proposto nella metafora del temporale, dove ciò che colpisce la vista è un prodromo di ciò che colpirà pochi secondi dopo l'udito. Un lasso di tempo in cui si concentra tutta la fragilità umana, che si esplicita attraverso due sensazioni: sgomento e vacillamento. Sgomento per ciò che, fuori dal nostro controllo, si manifesta, rendendo pesante il mistero dell'ineluttabile; vacillamento della nostra superba sicurezza.

Vacillare. Non cadere, ma vacillare. Dunque una superbia non che rovinosamente crolla, ma che oscilla, in quel dondolio mostrando l'insensatezza propria dell'essere umano che potrebbe fare dello sgomento un'opportunità di riflessione e invece lo scotomizza a favore della propria presunta onnipotenza.

Nella poesia a p. 15, citata sopra, troviamo un'ulteriore analisi dell'atteggiamento umano, considerato non da un punto di vista esterno (l'osservazione dell'uomo di fronte a un temporale), ma interno. Qui l'udito ode - proveniente da un'interiorità sgomenta - un grido lì formatosi proprio mentre questo fugge dagli occhi, testimoni di due strumenti d'offesa: disprezzo che è scure e giudizio che è lama.

Interessante notare in questa poesia la presenza di un senso prossimale: il tatto. Lo sgomento, infatti, qui non è - come nella poesia presa precedentemente in considerazione - appaiato a una superbia non debellata, bensì al tremore della pelle. È un sentire appunto sulla propria pelle lo sbigottimento per i tagli che possono infliggere disprezzo e giudizio.

A raccogliere l'eredità dei due componimenti è la seconda delle poesie-intercalari che fanno il punto sulla natura di quelle pietre di passo che danno il titolo alla silloge:

 

"Ecco le facce nel ferro di Berlino

come foglie cadute dall'odio

che il piede incerto traballando sposta.

 

Dove sferraglia la pietra di passo

lo sguardo vacilla e si ingrotta

mentre il corpo barcolla

con l'anima persa nel nero.

 

Perdura ancora il ricordo trasfuso

nel sangue nel fiato

nel grido che muto t'inciampa."[9]

 

Qui ritroviamo, ripercorsi quasi a proporre nuovi significati, i due sensi distali e alcuni concetti espressi dalle due poesie analizzate.

Innanzitutto scopriamo uno sguardo che vacilla, non nel modo in cui prima la superbia ha vacillato senza cadere, ma come persistenza di un nascosto scorrere liquido e doloroso al di sotto di uno strato indurito dal dolore stesso. E questo interiore scorrere è smarrimento al pari del piede incerto che traballa spostandosi su volti-foglie caduti; è l'anima che si perde nel nero, mentre il corpo che la ospita barcolla.

E poi troviamo un grido ascoltato attraverso il ricordo, che è presenza senza parola alcuna e con uno scopo ben preciso: disturbarti come pietra d'inciampo per renderti consapevole di ciò che è stato e che, purtroppo, non è detto che di nuovo non sia. Il riferimento è a Shalechet (Foglie cadute), l'installazione permanente nel Museo Ebraico di Berlino, realizzata nel 1997 dall’artista israeliano Menashe Kadishman (1932-2015).

 

Vista e udito li incontriamo spesso separatamente.

A p. 49 troviamo un udito che solo dopo essere stato - condicio sine qua non, questa - al cospetto del silenzio, si appresta ad apprendere daccapo una lingua che deve essere pronunciata di nuovo perché la vita non cada nell'anonimato:

 

"Apprendi da capo la lingua

che dal silenzio ha tratto tutti i nomi

 

pronunciali di nuovo, dagli un volto,

una luce, ricordi da serbare

affinché la vita non resti anonima."[10]

 

La poesia a p. 48 ribadisce, chiarendolo, il concetto di ascolto appena esposto, con l'indicazione di una sequenza temporale che detta prima il "distinguere, / imparare, ricordare" e soltanto poi la capacità di pronunciare "le parole, quelle giuste":

 

"Non affidare alla parole ciò

che le parole non sanno, ancora

altri linguaggi dovrai distinguere,

imparare, ricordare.

Le parole, quelle giuste,

vengono dopo l'ascolto dei mondi

 

di tutti i mondi abitanti terrestri."[11]

 

In linea con questa concezione è la poesia a p. 57:

 

"La terra conserva memorie

che gli alberi a volte raccontano

 

e il vento raccoglie e consegna

da un albero all'altro.

 

Ascolta il fruscio di quel suono

farsi bisbiglio e parola inespressa.

 

Non soccombere al dover capire:

 

non c'è nulla da capire

in ciò che è soltanto se stesso."[12]

 

Qui l'udito è un ascolto-filtro e semplificazione; è abbattimento delle sovrastrutture ("non c'è nulla da capire / in ciò che è soltanto se stesso.") perché voler capire è un inutile (deleterio, anzi) soccombere. È, difatti, facendosi vergini che si può andare alle origini e accedere alle memorie della terra.

 

Prendiamo in considerazione la vista, come si trova nella prima poesia-intercalare:

 

"Così ogni transito, come ogni tragitto,

è sempre un attraversare alla cieca

 

un passaggio dal noto all'ignoto,

e ignoto è anche il passo che ancora

 

non tocca pietra. E tuttavia, sempre,

tutto ha più di una sintassi.

 

Il percorso non è mai lo stesso

il ruscello dissotterra le pietre

 

cambia l'assetto del camminamento

e la tenuta non è più sicura.

 

Si va a intuito. Si valuta.

Si sceglie, ma ogni giudizio

 

è una scommessa dall'esito incerto

 

comunque ineluttabile."[13]

 

Qui l'autore si esprime sul concetto di percorso, connotato come transito. Il suo attraversamento "è sempre […] alla cieca" e rappresenta "un passaggio dal noto all'ignoto". Dato che "il percorso non è mai lo stesso" e "la tenuta non è più sicura", occorre contare sul proprio intuito, valutare, scegliere. Proprio per questo motivo, oltrepassare il limes diventa "una scommessa dall'esito incerto".

Nella poesia a p. 53, invece, la valutazione non sta nell'incertezza, bensì nella cautela e il passaggio del limes è in confidenza nella luce:

 

"Si profila al mio sguardo il percorso

ma è il piede a doverlo attestare

 

punto d'appoggio per ogni passaggio

misurato da pietre di passo.

 

Lì azzardo il peso

confidando nel vaglio degli occhi.

 

Incedo nudo nel mondo più nudo

come la luce che sbaraglia le tenebre

 

un poco alla volta, col chiaro."[14]

 

Qui gli occhi hanno un preciso compito di supporto. Dopo aver scoperto il percorso, coadiuvano il corpo che si appresta a camminare, vagliando per esso il terreno, al fine di evitargli cadute. È fondamentale che lo sguardo sia sempre vigile perché è esclusivamente affidandosi ad esso che il corpo può incedere "nudo nel mondo". Nudo al pari della verità che si manifesta come stordimento di "luce che sbaraglia le tenebre". Ci vuole tempo e cautela ("un poco alla volta"), ma alla fine, grazie a chi ha scelto e allineato le "pietre migliori"[15], esse diverranno "per tutti ponte e non azzardo"[16].

 

Definirei la silloge di Angelo Andreotti un atto di coerenza.

Non solo per quelle nove poesie-intercalari che rappresentano stazioni di sosta, utili per riflettere sul modo e sulla direzione del nostro andare; sulla bisaccia e sul bordone che ci accompagna; su quali passi abbiamo metabolizzato per giungere fin qui e su quali ancora vorremo o dovremo percorrere. Non solo per quelle poesie, dicevo. Da qualunque parte ci si volti, infatti, si trovano riscontri ai concetti esposti in altre pagine. Riscontri sostenuti da metafore, ricorrenze di verbi o di lemmi, azioni.

Un atto di coerenza che rappresenta non già risposte definitive ma soglie da attraversare, contando sui silenzi fondanti della parola, sulle trame di un caos da decifrare, sul prosieguo di un ravvedimento. E su quel "qualcosa" che inesplicabilmente accade.

L'autore

Angelo Andreotti (1960-2023) ha vissuto a Ferrara, dove ha diretto a lungo i Musei d’Arte Antica e Storico Scientifici, e successivamente le Biblioteche e gli Archivi del Comune. Laureato in Filosofia, è stato membro a vario titolo delle riviste “Museoinvita”, “Laboratori critici” e “Avamposto poesia”, nonché del gruppo promotore dell’Accademia del Silenzio e del Consiglio scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Oltre ai numerosi saggi in riviste, cataloghi, collettanee, ha pubblicato: Il maestro dei mesi (Interbook 1987); La soglia dell’inaccessibile. Saggio attorno a Cézanne (Aspasia 1995); Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica (Mimesis 2014); Il nascosto dell’opera. Frammenti sull’eticità dell’arte (Italic Pequod 2018). Per la poesia ha pubblicato: Porto Palos (Book 2006); La faretra di Zenone (Corbo 2008); Nel verso della vita (Este 2010); Parole come dita (Mobydick 2011); Dell’ombra la luce (L’arcolaio 2014); A tempo e luogo (Manni 2016); L’attenzione (puntoacapo 2019, prefazione di A. Prete); Tra parola e mondo (Manni 2021). Ha inoltre pubblicato la raccolta di racconti Il guardante e il guardato (Book Salad 2015, introduzione di F. Ermini, postfazione di P. Garofalo).



[1] Angelo Andreotti, Pietre di passo, Pasturana, puntoacapo, 2023, p. 56.

[2] Ibidem, p. 75.

[3] Ibidem, p. 15.

[4] Ibidem, p. 30.

[5] Ibidem, p. 20.

[6] Ibidem, p. 76.

[7] Ibidem, p. 15.

[8] Ibidem, p. 9.

[9] Ibidem, p. 17.

[10] Ibidem, p. 49.

[11] Ibidem, p. 48.

[12] Ibidem, p. 57.

[13] Ibidem, p. 11.

[14] Ibidem, p. 53.

[15] Ibidem, p. 69.

[16] Ibidem, p. 69.