Il fascino indiscusso del didjeridu. Intervista a
Papi Moreno
26 settembre 2009
Papi Moreno nelle sue tournée
ha inserito anche Villa Dho di Seveso (Monza e
Brianza) dove, nell'ambito dell'evento Notturni,
il 26 settembre 2009 ha suonato i suoi didjeridu in duo con Roberto Zanisi
alle corde mediorientali. L'ho intervistato durante le pause dello spettacolo.
Come sei approdato al didjeridu,
strumento dal fascino indiscusso?
Da
sinistra: Roberto Zanisi e Papi Moreno.
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Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Ho imparato a suonare questo strumento anni fa da solo, a
Torino, con una forte sensazione di solitudine e di isolamento
per l'impossibilità di reperire informazioni o persone che mi indicassero come
fare. Avevo assistito ad una rappresentazione di un
gruppo aborigeno dove il didjeridu accompagnava canti
e danze tradizionali. Rapito dal suono dello strumento
mi avvicinai al palco e rimasi per tutta la durata della rappresentazione a
osservare la tecnica che il suonatore utilizzava. Non potevo immaginare che
cosa stesse succedendo: si stava instaurando in me
l'embrione del mio nuovo vivere. Da quel momento il lavoro di pubblicitario, la
mia agenzia, le consulenze presero via via la forma
di un ricordo che sbiadisce con il tempo. Per me suonare il didjeridu
non significa solo emettere dei suoni entro schemi ritmici, ma anche entrare in
contatto con quegli aspetti miei più profondi che soltanto in momenti di
particolare intensità riesco a raggiungere. Con il didjeridu
vado nei miei spazi interiori e attingo in modo intuitivo dall'infinita
creatività che vi dimora.
Com'è costruito il didjeridu?
Suggestioni a Villa Dho. Da sinistra: Giulia Martini e
Martina Belloni.
© Foto
Gloria Chiappani Rodichevski
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È un tronco cavo di eucalipto giovane. Cavo perché viene scavato dalle termiti
australiane che si nutrono delle sostanze organiche presenti nel midollo. Di
fatto questo strumento si basa sul bordone, cioè sull'emissione costante di una
sola nota.
In alternativa all’eucalipto "termitato",
io realizzo strumenti in agave scavati con ferri roventi e fissati con
gommalacca.
Vedo che stai osservando un didjeridu
in mi.
Lo osservo perché ha, tra quelli che hai usato stasera, il
suono che preferisco. Inoltre ha interessanti decorazioni sulla superficie.
Sì. La tradizione vuole che si usino ocre gialle e rosse,
gesso, ossidi di manganese, minerali ferrosi, carbone polverizzati
e diluiti con acqua. Le decorazioni simboleggiano i cibi, i totem del
clan o il sogno personale dell'artista. Tali simboli, tuttavia, non vengono assolutamente usati per gli strumenti destinati alla
vendita, per i quali, pur attingendo all'arte originale, si usano altri
simboli.
Stasera hai eseguito anche il canto armonico. Me ne vuoi
parlare?
Suggestioni
a Villa Dho: Eloisa Manera.
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Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Attraverso il canto prolungato delle vocali e grazie ad un particolare uso della lingua è possibile cantare
contemporaneamente alla nota di base, detta tonica o fondamentale, delle note
secondarie "fuori tono", più acute, chiamate armonici o ipertoni. Cantati con la voce, all'ascolto sembrano flauti,
fischi, sibili provenienti non si sa bene da dove.
Questi possono essere anche generati da molti strumenti musicali e sono
comunque presenti in tutti i suoni, anche se a volte sembrano impercettibili...
Con il didjeridu la tecnica
è simile a quella usata nel canto. Li possiamo trovare in tradizioni molto
diverse e lontane tra loro: nei mantra dello Yoga e
dei monaci tibetani; nei canti rituali dei nativi americani; nei canti
tradizionali islamici. Il canto degli armonici è molto antico, ma solo
recentemente è "uscito allo scoperto". È un canto arcaico e magico.
Il tuo nome è legato al didjeridu,
ma non solo. Ultimamente, infatti, ti sei dedicato ad altri strumenti.
Suggestioni a Villa Dho: Elisa Sargenti.
© Foto
Gloria Chiappani Rodichevski
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Come
hai sentito stasera, utilizzo il canto armonico nei concerti, nei seminari e
ultimamente sto dedicandomi un po' allo shakuhachi,
il flauto zen giapponese. Per il momento lo sto solo studiando e proponendo
tramite il mio sito dove si possono vedere diversi flauti realizzati da
Federico Bianchi. A differenza del didjeridu, che
rimane uno strumento a fiato istintivo e libero da partiture musicali, per lo shakuhachi è importante una
dedizione e una disciplina molto ferrea perché è nato come strumento di meditazione e preghiera, perciò il suo studio comporta anni di apprendimento. Oggi viene utilizzato
nelle varie espressioni della musica giapponese, da quella tradizionale a
quella contemporanea.