Foto
Gloria Chiappani Rodichevski
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Ho l’impressione di
trovarmi tra le mani uno scampoletto di fine batista e di fare su di esso
progetti assurdi come, ad esempio, quello di ricavarvi un abito seminvernale.
Il mio scampolo è un
fatterello che mi ha molto colpita ma che ho tentato di ridimensionare conscia
della diffi?coltà di dare corpo alla concatenazione narrativa di sequenze così
fragili.
Malgrado ciò mi accorgo
che non so resistere alla tentazione di almeno tentare.
È il primo giorno
d’estate e il caldo coscienzioso lo dimostra; ma è fuori luogo un caldo così
solido, almeno secondo il parametro di mesi e di stagioni.
Le mie aiuole
scarmigliate, ma deliziosamente esuberanti di libera selvatichezza ospitando
solo erbe spontanee, accusano con grande evidenza una sete tormentosa. Al di là
(e anche al di qua, illegalmente, ad invadere il ghiaietto) di un bordo di
ceppo, tra le cui infossature, cavernette, interstizi, s’annidano timidi ed
arroganti insieme, grumi di musco, c'è gran quantità di mammole. È un errore
prenderle a simbolo di timidezza e di modestia: esse sono assai tenaci e
invadenti. Ma anch’esse non sanno resistere alla sete di modo che ora, assieme
alle piante che hanno saputo opporre loro resistenza, rubando un po' di
terreno, si afflosciano. E tale spettacolo non posso sopportare. Mai. È una
vera angoscia la vista di quelle foglie cuoriformi, lanceolate, sagittate,
verde scuro o cinerino che stanno andando sul giallognolo così in fretta, in un
boccheggiare di preghiera: al cielo acqua che non vuole dare, alla terra umori
che non può dare. Alibi inattaccabili di quest'ultima le sue biancastre
screpolature. Così do di mano alla canna di gomma per annaffiare, spostando il
getto qua e là e spostandomi quando esso non arriva più dove voglio dissetare.
In tal modo vengo a trovarmi, ad un certo punto, accanto al susino, così
vecchio, poveraccio, che nemmeno più fruttifica; su cui le formiche deambulano
instancabili nei loro finalizzati andirivieni. Tuttavia sono decisa a lasciarlo
lì, nel luogo che lo vide tanto tempo fa, pollone di belle speranze, fin che
morte naturale non lo colga. Soffrirà?
Seppure immersa in
questi pensieri noto sul tronco dell’albero, ad appena un paio di spanne dal
suolo, una lucertola dai fianchi anelanti che si sta crogiolando. Avvicino
lentamente il molle cordone dell’acqua che scende compatto, ma senza violenza,
dalla gomma rosso stinto che tengo ad altezza di lucertola. Ora l’acqua è parallela all’animaletto che rimane
immobile. Gli occhi a capocchia si fissano su quella mollezza ialina, amica.
Oramai essa è ad appena due millimetri, forse meno, dalla testa triangolare che
rimane ferma, un po’ girata verso di me.
Mi sento stupidamente
tesa; in modo nebuloso so che capiterà qualcosa. Anche il mio sguardo ora e il
mio braccio sono immobili: il tempo è sospeso in una stasi d’irrealtà.
E qualcosa accade
realmente; qualcosa a cui mai ebbi occasione di assistere. L’animale, di colpo,
apre la bocca portandola a contatto dell’acqua. Ne assume un sorso, poi un
altro – pochissime gocce in tutto, credo. Sono così vicina che riesco a
scorgere i dentini aguzzi della bestiola. Essa rimane ancora qualche secondo
con la testa rivolta dalla mia parte, poi se ne va senza paura,
tranquillamente, perdendosi tra l’erba.
Tutto qui il mio
scampolo di batista.
Tratto da Celeste
Chiappani Loda, Nodo scorsoio
Pubblicato anche sulla
rivista Logos