Nodo scorsoio,
racconti

pubblicato a cura dell'Autrice

Alter ego

Teatro del Pioppo

 

Alter ego

pubblicato anche sulla rivista Artecultura

[…]

Forse era stato proprio per questo, per umiliarlo, che il suo compagno di liceo, Nicola, lo aveva fatto salire in casa sua quella domenica mattina. Lui, Leone, stava facendo un giretto intorno all’isolato per ossigenarsi un poco prima di affrontare altre lunghe ore di studio, quando aveva incontrato Nicola che stava entrando in tutta fretta nel portone di casa sua.

– Dài, sali un momento con me, – gli aveva gridato.

Quel “coniglio d’un Leone”, come purtroppo sapeva che lo chiamavano i suoi compagni di classe, e forse tutti gli allievi del “Giuseppe Parini” tra di loro, non aveva saputo dire di no, al solito, e s’era messo dietro l’altro come un automa, faticando a tenere il passo.

Aveva appena fatto in tempo a entrare dalla porta aperta dell’appartamento del compagno che questi era corso nella sua stanza uscendone immediatamente con uno zainetto pieno.

– Dài, scendiamo! – aveva comandato passandogli vicino come un proiettile.

Leone, molto imbarazzato, aveva bisbigliato un saluto gentile alla mamma del suo compagno, che s’era fatta sulla porta della cucina, per chiedere al figlio quando prevedeva di essere di ritorno. Era stato proprio in quel momento che Nicola aveva dato la rispostaccia.

[…]

Teatro del Pioppo

La genesi di questo racconto è narrata nella rubrica Lungo il binario

Via del Pioppo è corta e larga e si trova nel centro storico della grande città, congiungendo a nord e a sud due piazze di cui una è abbastanza larga, piazza dei santi Pietro e Paolo con l’imponente chiesa romanica a loro dedicata; l’altra invece è molto piccola, piazza Ludovico il Moro, con un pretenzioso palazzo barocco che tiene tutto un lato; alte case d’affitto un poco malridotte, di un secolo più giovani, per il restante perimetro.

A metà via del Pioppo si apre qualcosa che potrebbe essere scambiato per un corto vicolo cieco. In realtà è un corto passaggio, delimitato sui due lati da alti muri e chiuso in fondo da un cancello a rade asticciole di ferro verniciato d’azzurro. L’entrata del piccolo teatro, che prende il nome dalla via, è appena sulla sinistra di questo cancello ad un solo battente. C’è una bacheca con recensioni e locandine, appesa proprio all’angolo della casa che delimita il passaggio al suo imbocco. Il tutto illuminato blandamente da una lampada al neon. Una freccia direzionale aiuta a non perdersi d’animo. Si fa fatica a pensare che un teatro si annidi così all’interno rispetto alla Via già tanto fuori dal movimento anch’essa. Eppure, una volta raggiunto, bisogna ammettere che esso può offrire, in dignità e funzionalità, non meno di tanti altri.

Stasera si dà uno spettacolo che tiene cartellone da quindici giorni. Ciò ha dell’incredibile se si tien conto che il pezzo si intitola “Sodalizio Ranieri-Leopardi”. Solo una compagnia che si raccomanda per i nomi del suo cast potrebbe osare tanto. Non è così ma lo spettacolo regge.

Il copione è di Giorgio Gallini, impresario, primo attore e regista che non è alle prime esperienze di questo tipo; la sua onestà d’intenti è fuor di dubbio, la buona volontà anche, tuttavia l’Arte, dispettosamente, gli sfugge sempre.

Buona parte del lavoro è un monologo tenuto da Gallini-Ranieri il quale è quasi sempre in scena, essendo gli altri personaggi poco più che comparse. L’attore punta molto sulle mani che muove con effetti non sempre felici, a volte veramente assurdi. Ora le raggriccia portandole a rassomigliare a nudi ragni, ora le tende irrigidendo e allargando le dita come fossero altrettanti punteruoli pronti a penetrare nella carne del prossimo, ora le passa sul volto e fra i radi capelli lunghi sulla nuca, in gesti gratuiti, istrionici. Ma nel complesso pare che il pubblico capti la sua buona volontà e dimostri di apprezzarla applaudendo ad ogni calar di sipario.

Ranieri è tormentato da acerbi rimorsi e rivive la sua vita passata con l’amico Giacomo, in modo drammatico. L’impressione che il Gallini crea nello spettatore è falsata: si potrebbe pensare che Ranieri veda continuamente l’ombra di un’amante che in vita aveva tormentato. L’attore—autore pone in luce la miseria di una convivenza (si potrebbe dire unico pregio di questo lavoro che assume così valore informativo per i frettolosi che non sono mai andati oltre il concetto Leopardi = infelice senza amore) fatta di biancheria sudicia da lavare, di stanze lasciate in squallido disordine, di grette golosità e di ingratitudini da parte di un essere tanto beneficiato, quale fu il Leopardi dal Ranieri stesso. Quotidianità fatte di mugugni spazientiti e di rimproveri aperti da parte di quest’ultimo. Chi lo sa? forse non scevri da invidia per il genio. Ora Giacomo non è più; e dalle intolleranze ricordate i rimorsi tormentosi come il fuoco della Geenna. Né vale a guarirli la dolce, saggia sorella Paolina.

 

Carissima amica,

mi rammarico tanto che non abbia potuto assistere a nessuno dei miei spettacoli. Peccato veramente questa tua improvvisa obbligata partenza per il Cile. Ieri sera c’è stata l’ultima rappresentazione. Sono riuscito appena a coprire le spese, ma questo era previsto. E mi basta. Ci rifaremo con Pirandello.

Innanzitutto lascia che ti ringrazi per gli ottimi consigli che mi hai dato circa la regia: l’accompagnamento discontinuo, discreto con musica barocca, il recitato fuori scena di parte de La ginestra e de Il venditore d'almanacchi a palcoscenico quasi totalmente buio con tutti gli attori immobili, mentre solo Ranieri si muove con energia per attirare tutta l’attenzione degli spettatori sul fatto che sta riconoscendo la grandezza dell’amico e le proprie colpe nei confronti di quel genio. Idealmente vestendosi di sacco e cospargendosi il capo di cenere spera di trovare un po’ di pace. Tutto ciò è stato apprezzato dal pubblico. Sono convinto che gli applausi tributatimi siano dovuti alla regia e all’impegno piuttosto che al modo con cui ho fatto rivivere Ranieri. Non così comprensiva è stata la critica che ha usato il piccone senza pietà. Ma non era ciò che volevo? Sono tanto contento di aver superato la prova. Una prova molto difficile, ti assicuro. Dal punto di vista emotivo è stato terribile dover rivivere quegli anni, giorni, ore, minuti. Mi sono sentito tutto scorrere sopra e sotto la pelle. E’ veramente terribile il rimorso. Lasciati tiranneggiare piuttosto; lascia che ti facciano vittima innocente, ma non correre il rischio di trovarti un giorno dilaniato dai rimorsi. Naturalmente tutto questo vale per chi crede ad una coscienza capace di rimordere.

Ecco, non pensavo certo a Ranieri sulle tavole del palcoscenico: pensavo a me; non pensavo certo a Leopardi, pensavo a mia madre che, una volta, picchiai. Sì, picchiai mia madre. Una sberla soltanto, ma data con rabbia, con voglia di farle male. Da quasi un anno l’accudivo io, in tutto, anche nei suoi bisogni più intimi e ripugnanti, mentre lei era là inchiodata in quell’orribile lettino, con il cervello logorato dalla sclerosi. Solo quando potevo permettermi di pagare qualcuno per un giorno o due, oppure quando — che il cielo la benedica sempre — la mia vicina di casa mi sostituiva per mezza giornata, potevo respirare un poco. Allora me ne andavo dove capitava: lungo, il fiume fuori porta, nel parco, in un vicolo dove mi accoccolavo per terra, in una chiesa..., in qualsiasi posto insomma dove non sentissi quell’odore indimenticabile di umanità in disfacimento. Mi portavo sempre i libri e un paio di panini male accompagnati. Questo inferno durò tre anni.

Bene, cara amica, è incredibile come tu sia stata così buona da darmi quei consigli, che sono poi risultati preziosi, da ascoltare quanto andavo progettando pur avendo accennato in modo vaghissimo ai motivi che mi spingevano a ciò. Sono convinto che con la tua sensibilità e intelligenza abbia intuito molto, ti sia avvicinata assai alla verità; ma sei troppo generosa per forzare confessioni dagli altri in cambio dell’aiuto che sai offrire con tanta semplicità. Ecco, ora è venuto il momento di dirti tutto. Oh, quanto ho sognato questo momento! ma non con l’enorme distanza che ci separa. L’ho sognato seduti in platea a teatro vuoto, ad esempio, l’ho sognato sdraiati su una coperta stesa in un prato, o anche in un caffeuccio silenzioso, appartato, con un paio di bibite davanti. Non è andata cosi, ma non importa. Importa soltanto che ora posso finalmente dirti tutto.

Dunque diedi una sberla a mia madre. L’avevo appena cambiata e, nei due piccoli locali che occupavamo, avevo steso tutta la biancheria lavata sperando che asciugasse alla svelta perché i cassetti erano vuoti e lei aveva bisogno continuo di biancheria pulita. Me ne stavo seduto al tavolo di cucina, ricordo sempre; dietro di me il lavello rigurgitava di stoviglie sporche, ma dovevo studiare e dovevo rimandare la rigovernatura all’indomani. Mia madre sembrava che dormisse tranquilla: era proprio quello di cui avevo più bisogno in quel momento. Ad un tratto (la porta dell’altra stanza dove stava lei era aperta di fronte a me) la udii gridare che ero un mascalzone e che dovevo vergognarmi a lasciarla in quella sporcizia. Balzai in piedi in preda ad un’ira incontenibile. Ricordo che la sedia su cui stavo seduto si rovesciò scheggiandosi, la scavalcai furiosamente, mi precipitai di là e la mia mano destra colpì forte, una sola volta, ma forte. La testa scheletrica di mia madre (semisdraiata con tre cuscini dietro la schiena) battè contro la testiera del letto rimbalzando in avanti. Gli occhi spalancati mi guardarono straniti. Anch’io la guardai senza rendermi completamente conto di ciò che era accaduto. Ricordo soltanto che una gran debolezza m’invase tutto: oramai l’ira era sbollita. Nemmeno una parola pronunciò la poverina, ma prese la mia mano, la mano che l’aveva percossa, se la portò alla bocca, la baciò, poi se la passò dolcemente sulla guancia colpita sussurrando, nel contempo, una cantilena che mi cantava da bambino: Dormi, dormi/bambino di panna./Dormi felice/sul cuore di mamma.

Dio mio, perché si deve sopravvivere a certi fatti?!

Mia madre visse ancora per tre interminabili anni ed io le fui accanto toccando molte volte il fondo. Ti posso assicurare però che fui così forte da non lasciarmi più prendere dall’ira, anche se le “provocazioni” furono molte. Tuttavia, nonostante il mio sacrificio, oserei dire la mia abnegazione, ancora non riuscivo a tacitare il rimorso. Sentivo che avrei dovuto fare ammenda, in certo qual modo, pubblicamente. E lo spettacolo che ideai con il tuo aiuto, mettendolo poi in scena, mi parve un prezzo adeguato per il mio riscatto, per ritrovare la mia pace, senza la quale, ero certo, avrei finito con il perdere l’uso della ragione.

Giorgio Gallini che si offre al giudizio del suo pubblico confessando un crimine commesso molto tempo prima. (Non per nulla metterò subito in scena Non si sa come di Pirandello, anche se quel grande conoscitore di uomini, nella commedia in questione, dice esattamente che i delitti involontari non ti causano rimorsi, mentre io sono del parere contrario). Giorgio Gallini senza una maschera, che si presenta davanti ad un pubblico abituato a vederlo solo quando egli presta se stesso a decine di altri personaggi. Chi è Giorgio Gallini se non, di volta in volta, il signor Ponza, Luca Cupiello, Beranger, Estragone e decine d’altri?

Ora dimmi, carissima, che cosa ne pensi? Se qualcosa vale l’onestà d’intenti io credo di meritarmi il perdono.

Ti abbraccio con la calda preghiera di scrivermi il più presto possibile,

tuo Giorgio.