Intervista a Yolanda Rillorta,
traduttrice
28 giugno 2011
La vignetta in copertina del libro di Yolanda
Rillorta, Say it in English
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Vogliamo cominciare questa intervista facendo chiarezza sulle
diverse professioni che gravitano attorno alle lingue straniere? Spesso,
infatti, si ignora che non è sufficiente essere di
madrelingua per saper fare l'interprete o il traduttore. Non solo: essere
traduttore non significa automaticamente essere anche interprete.
Le molteplici figure professionali coinvolte nel mondo
vastissimo delle lingue e della traduzione spaziano dal traduttore al mediatore
linguistico, dall’interprete, all’insegnante, dallo scrittore al giornalista e
si potrebbe continuare. Giustamente, come dici, è chiaro che l’interprete deve
avere delle doti che non necessariamente sono richieste ad
un traduttore. L’interpretazione è simultanea o consecutiva e la buona riuscita
dipende dall'abilità, dall'esperienza, dalla formazione e dalla specializzazione.
Mentre il traduttore ha il tempo di produrre il transference,di
significare da testo a testo
(scritto, registrato, segno) e ha accesso a risorse come dizionari, glossari e
altre fonti, per produrre un documento fedele, l’interprete deve agire in tempo
reale: è fisicamente presente, oppure viene teletrasmesso oppure si tratta di
una traduzione telefonica. Queste abilità ovviamente non sono dono di tutti:
bisogna avere predisposizione e poi intraprendere uno studio specifico.
Quali doti deve possedere un buon traduttore?
Il traduttore, in genere, si specializza in un ambito
disciplinare o in un'area tematica. Oltre al
perfezionamento in una o più lingue, deve possibilmente conoscere elementi di
semantica, cultura, civiltà e istituzioni straniere, nonché
le terminologie proprie dei linguaggi settoriali. La forma mentis è soprattutto importante:
flessibilità e versatilità.
A volte ci si imbatte in traduzioni
cosiddette libere e a volte in traduzioni molto più letterali. Un traduttore
secondo quali criteri sceglie il proprio stile?
Shoshana Blum-Kulka,
israeliano, ed esperto in linguistica e comunicazione e in interlanguage pragmatics, sostiene,
a ragione, che le traduzioni “tendono ad essere più esplicite degli originali”.
Infatti ci si dibatte spesso fra coerenza e coesione,
e se è vero che c’è sempre la possibilità di dare un senso al nonsenso, è vero
anche il contrario. Le traduzione letterarie, inoltre,
pongono anche il problema dei dialetti, degli idioletti e dei socioletti
nell’ambito della traduzione dove sono molti i significati della parola
“stile,” dato che i diversi stili, intesi come varietà personali, regionali e
sociali di una lingua, possono richiedere a loro volta stili diversi di
traduzione in diversi contesti. Io mi considero un umile artigiano in mezzo
agli accademici e cerco di attenermi al testo, imparando sempre dagli altri,
concentrandomi sulla pratica e non tanto sulle teorie. Cerco di seguire
l’ispirazione che mi instilla ogni lavoro e rimanere
fedele a ciò.
In quale misura, secondo te, la traduzione di un classico può
o deve essere libera?
Per anni la traduzione è stata usata solamente come
strumento per insegnare una seconda lingua o lingua
straniera. Più tardi, con gli studi di esperti, si è capito che la traduzione
poteva essere un mezzo per trasferire la cultura, la scienza e l’ideologia di
una nazione ad altri nazioni attraverso altre lingue.
La traduzione perciò ci aiuta a conoscere, vedere le cose da una prospettiva
diversa e dare un nuovo valore alle cose che non conoscevamo. Vista così, la traduzione non solo gioca un ruolo tradizionale,
significativo come mezzo che ci permettere di accedere alla letteratura
originale, ma rappresenta anche una presenza letteraria concreta, con la
capacità cruciale di facilitare e di dare più significato al nostro rapporto
con coloro con i quali non avevamo alcun rapporto, sia come nazione sia come
individui. Mi verrebbe da dire dunque che la “libera” traduzione di un classico
consiste nell’avere l’abilità di comunicare con lungimiranza un tipo di
conoscenza.
È luogo comune che sia più difficile tradurre la poesia della
prosa. Che cosa ne pensi?
Sì, è un fatto risaputo, ed è perché questo genere di
letteratura è legata strettamente alla lingua originale. La problematica sta
non solo nelle parole e nel loro significato ma anche nella lingua figurativa,
nella cultura, nella dizione, nella rima, nel suono, nel ritmo, nella
sensazione e persino nella lunghezza delle parole. Tradurre una poesia
significa la trasmissione di un messaggio non solo da un sistema linguistico
all’altro, ma anche da un sistema culturale all’altro. Si tratta dunque di
trasferire non codici di gruppi separati ma il messaggio intero, di “ri-codificare” tutto il messaggio
in un’altra lingua. Un processo difficilissimo durante il quale,
inevitabilmente, si perde qualcosa.
Oltre alla tua attività di traduttrice, sei insegnante
d'inglese. Qual è il profilo del bravo insegnante?
Per me, per riuscire non tanto a insegnare quanto a far
apprendere una lingua agli altri, bisogna avere la capacità di istaurare un
clima di totale distensione e fiducia e riuscire a rassicurare lo studente,
facendogli vedere il suo progresso e apprezzare il poco o il tanto che riesce
ad assimilare. Lo studente poi, si apre all’insegnante e si lascia guidare dai
suoi suggerimenti. A volte significa arrivare a capire non solo il carattere di
ciascuno, ma anche le difficoltà particolari di ciascuno e proporre soluzioni o
“trucchi”appropriati (per esempio nella pronuncia o nel memorizzare i tempi dei
verbi). In questo modo si riesce a far sì che ciascuno progredisca nel modo a
lui consono. Ho visto che dai corsi sono nati dei rapporti profondi di stima e
di amicizia che continuano anche fuori dai confini di una aula
scolastica. Con questo metodo ho visto i miei studenti superare le proprie
paure e lanciarsi a parlare la lingua brillantemente, com'è capitato persino coi pensionati che hanno potuto fare solo la quinta
elementare e che ora viaggiano liberamente per tutto il mondo.
È uscito da poco il tuo libro Say it in English. Me ne parli?
Alcuni anni fa, uno dei miei studenti, insegnante
all’istituto d’arte, disse che suo marito, allora consigliere dell’albo
infermieristico, chiedeva se potevo organizzare dei corsi d’inglese per
infermieri. Iniziai perciò a insegnare l’inglese, ma dopo un anno o due, dalle
loro domande e richieste, capii l’importanza di abbinare l’inglese medico alle
lezioni perché potessero dialogare con i pazienti di lingua inglese al lavoro.
Feci ricerche e iniziai con lezioni sul sistemi del
corpo umano e della medicina dell’emergenza. Vidi il loro entusiasmo nel
raccontarmi che erano riusciti a spiegarsi con pazienti o capire i loro
bisogni, anche i più banali. Sono stati loro a suggerirmi di raccogliere le mie
lezioni in un libro. Tanti ritornavano e fecero tre, quattro e persino cinque
corsi con me. Ora alcuni tra i giovani mirano a lavorare all’estero e qualcuno
ha già superato colloqui e ottenuto contratti per lavorare per qualche mese a
Londra come infermiere, forte della base ricevuta. È davvero una grande
soddisfazione!
Il sito ufficiale di Yolanda Rillorta è http://www.yolandarillorta.eu/