Intervista a Floraleda Sacchi, arpista eclettica
4 febbraio 2005
Da che parte cominciamo? Dall'arpa, verrebbe da rispondere, ma
Floraleda Sacchi non è solo arpista: è un artista completa. E lo è in modo vulcanico. Si è infatti occupata di arpa dal barocco al New Age; suona l'arpa classica e quella celtica; compone; si
occupa di teatro e di pittura; ha ideato spettacoli multimediali; ha lavorato
con fotografi; ha studiato danza; parla diverse lingue…
Di fronte a questa cornucopia, vorrei chiederti: eclettici si
nasce o si diventa?
Io
non ho mai cercato di essere eclettica. Sono curiosa e vivace di natura. Mi interessa l’arte in ogni sua forma e amo relazionarmi con
le persone, comprendere i vari aspetti del mondo… forse poi il risultato è
l’ecletticità.
Quando, come e perché hai intrapreso lo studio dell'arpa?
Non provengo da una famiglia di musicisti, ma da una casa
piena di libri, molti dei quali di arte. Penso di aver visto l’arpa per la
prima volta in qualche quadro. Poi a cinque anni mi hanno regalato un disco di
arpa che credo di aver ascoltato solo anni dopo, ma la foto in copertina mi
seduceva molto! Allora, per la prima volta, senza un motivo preciso, mi sono
resa conto di voler suonare, ma non c’erano insegnanti o arpisti nella zona in
cui abitavo. Poi un giorno a nove anni, passando con mio padre davanti alla
casa comasca in cui era nato nel 1931, ho visto la
colonna di un'arpa spuntare da una finestra del primo piano, ma mi è andata
ancora male. Ho preso qualche lezione, ma l’anziana signora proprietaria dello
strumento non suonava più e non ne voleva sapere di insegnare. Pioveva ed era una di quelle giornate di primavera un po’ giapponesi,
con i petali dei ciliegi che cadono. Ho pensato che l’arpa mi piaceva, che se
era lì doveva essere un segno, ma ho dovuto attendere altri cinque anni prima
di poter iniziare i miei
studi.
Tu componi ma sei anche la dedicataria di composizioni.
Conosco bene il mio strumento e mi diletto a comporre per
arpa o poco più, ma non posso fregiarmi della definizione di compositore, che
implica conoscenze che non ho, anche se forse, visti i tempi che corrono,
potrei. Sfortunatamente ho ancora del rispetto per la musica! Ho scritto della
musica per un libro multimediale nel 1999, per l’editore Multimedia. Era una
novità allora: testo, musica, immagini e voce recitante che creavano un libro
su CD, oggi riguardandolo è un po’ buffo per i suoi
limiti tecnici. Recentemente ho scritto e registrato dei brani per un CD che
spero esca a breve, due quali sono stati inclusi anche nel CD omaggio natalizio
della BMW. Sono per arpa, arpa e violoncello e trio
arpa, flauto, violoncello, con un gusto un po’ anni ’40
e accenni jazz.
Decisamente ho fatto molto di più
nelle collaborazioni con i compositori: una quindicina fino ad oggi. Assistere
alla nascita di un nuovo brano è un lavoro divertente: c’è chi scrive in
silenzio e consegna la parte finita, come ha fatto Louis Berenguer,
un allievo di Piazzola con una Sonatina Tanguistica
per flauto e arpa, o il bravissimo Peter Machajdik,
la cui musica è in ascesa e recentemente è stata eseguita anche dall’Opera di
Berlino. Peter vive in solitudine, ci siamo conosciuti tramite un amico
palermitano. Mi ha mandato una parte perfetta e di rara bellezza intitolata
“Nell’autunno del suo abbraccio insonne”. Siamo simili, in questi casi non c’è
nulla da dire. Ci siamo incontrati quando lo scorso anno ho suonato a Berlino
ed era come se ci conoscessimo da sempre. Può essere anche molto diverso: una
delle mie prime collaborazioni è stata nel 2000 con l’americano-olandese David
Clark Little: lui mi spediva le bozze della musica via e-mail e io le suonavo via telefono, finché lui dall’altra parte
dava l’ok. Per la prima esecuzione ad Amsterdam ci siamo incontrati e mi è
venuto a prendere per accompagnarmi in teatro in bicicletta. Il brano, ispirato
ai numeri frattali e al caos, è anche uscito su CD: ovviamente io ho registrato
in Italia e lui ha assemblato il tutto ad Amsterdam. Viene mandato in onda ogni tanto dalla BBC o da Concertzender e piace sempre molto.
Attualmente c’è un progetto a cui
tengo molto: la ripresa di un bellissimo concerto jazz per arpa e orchestra e
un concerto da abbinare che sta componendo per me Rodolfo Matulich.
Secondo te qual è la ragione per la quale l'arpa celtica
affascina tanto?
Credo che l’arpa in generale affascini e crei una magia.
Nella sua storia millenaria (i primi dipinti rupestri di uno strumento
triangolare con delle corde tese risalgono a 6000 anni
a. C.) è stata uno strumento musicale, un bell’oggetto, un privilegio sociale…
Il tempo l’ha ricoperta di mitologie, così un violino è solo un violino, il
pianoforte solo un pianoforte, mentre l’arpa anche un simbolo.
Ti sei mai accostata all'arpa storica?
Ho avuto la fortuna di suonare varie arpe storiche, in primo
luogo quelle della Fondazione Victor Salvi. Ho suonato arpe dei primi dell’800 e inizio 900, e mentre studiavo negli Stati Uniti
anche alcune bellissime arpe Lyon degli anni ’30. È interessante suonare sugli strumenti storici perché
si comprende la reale difficoltà e il reale effetto
del repertorio contemporaneo allo strumento. La tensione delle corde dell’arpa
è enormemente aumentata negli ultimi due secoli: questo crea non pochi problemi
quando si deve suonare per esempio della musica di inizio
800. La risonanza dello strumento era più breve di oggi, quindi bastava fare
molte note e non ci si stancava dato che lo strumento
era leggero. Oggi vale l’esatto contrario. La prima volta che ho suonato
un’arpa storica ricordo con quale facilità sono riuscita a rendere la leggerezza
che cercavo di dare alla musica.
I
compositori che prediligi.
Dipende, forse Ravel, Cage, Schubert…
Credo molto nella sinergia tra le arti. Vorresti parlarmi
delle esperienze che hai fatto al fianco di pittori e di fotografi?
Mi piacciono le arti figurative, quindi conoscendo artisti è capitato di lavorare con loro. Ho suonato tra le
bellissime tele di Omar Galliani, ho fatto delle fotografie con Maurizio Galimberti collegate ad effetti
sonori. Sono stata protagonista di una mostra di Andrea Podenzana
in cui appaio nei quadri e per cui ho realizzato degli arrangiamenti per arpa
di brani di Tori Amos che sono stati usati come
sottofondo musicale durante la mostra. Mi diverte lavorare con gli artisti, dato che il concetto di installazione è ormai parte dell’arte.
Credo anch’io nella sinergia tra le arti e mi piace
inventare anche degli spettacoli teatrali-musicali: ho lavorato con Fabio Peri,
astrofisico, realizzando un programma suggestivo per
il Planetario di Milano fatto di musica e testi che viene spesso riproposto, ho
accompagnato Ottavia Piccolo nella lettura di poesie e Quirino Principe nelle
lettura di Dante, inventato uno spettacolo sulla nascita del genere “horror” in
musica per arpa e quartetto d’archi.
La tua attività di musicologa.
Oltre ad aver curato alcune edizioni
musicali e scritto vari articoli, la mia principale ricerca è stata
quella sull’arpista-compositore Elias Parish Alvars. Questo mio lavoro è divento un libro edito nel 1999
da Odilia Publishing Ltd. Praticamente sarei l’esperto mondiale più accreditato su
questo autore, ma non sono presa sul serio da molte persone per via che non ho
l’età e l’aspetto che l’immaginario comune attribuisce ad un musicologo. Ho
scritto su Parish Alvars
per i principali giornali dedicati all’arpa: American Harp Journal, HARPA,
Harp Column e vedo che
la pubblicazione inizia ad essere citata nelle
enciclopedie musicali.
Sono stata invitata a partecipare, in
qualità di esperto in materia, a varie conferenze a Milano, Lione,
Londra e a Praga, dove mi hanno conferito il premio Harpa
Award. Il libro è diventato anche un “bestseller” vendendo più di qualsiasi
altra pubblicazione dedicata all’arpa. Ad oggi ha
infatti raggiunto le 1000 copie vendute in tutto il mondo.
Se le abitudini musicali di un pubblico non di nicchia si
ancorano al pianoforte, al violino, alla chitarra, al flauto traverso, non
facilmente si spingono fino all'arpa classica. Ti chiederei dunque di voler
spiegare com'è costruita e come funziona un'arpa.
L’argomento è un po’ complesso: l’arpa è l’unione di una
struttura in legno triangolare, composta da due lati
portanti e una cassa di risonanza, e di una meccanica complessa costituita da
pedali, tiranti e rotelle che permettono di tendere le corde così da poter
ottenere le alterazioni, cioè diesis e bemolle. In pratica le mani suonano le
note (come sul pianoforte, dato che l’arpa è uno
strumento polifonico) e i piedi muovendo i pedali permettono di cambiare
tonalità.
Un dettaglio tecnico che mi incuriosisce:
perché un’arpista non usa il mignolo?
Perché le dita per pizzicare le corde fanno leva su di esse,
per farlo la mano deve stare in una posizione
arrotondata e il mignolo non arriva a toccare le corde. Fino alla metà del
700, dato che la tensione delle corde era inferiore,
le mani venivano orientate verso l’alto, allora era possibile usare il mignolo.
Oggi c’è chi usa il mignolo, ma solo perché ha una struttura della mano che
permette questo. La tecnica su uno strumento si adatta sempre al suonatore.
Strumenti come l’arpa in cui le dita agiscono direttamente sulle corde sono
ovviamente più individualistici. Si possono trovare e inventare molte soluzioni
personali sia per le mani che per i piedi.
L'arpa elettrica: c'è chi la detesta di tutto cuore. Qual è la
tua posizione?
L’arpa elettrica non è ancora perfezionata, è uno strumento
un po’ difficile da controllare e il suono spesso non è di buona qualità perché
l’applicare un microfono per corda smorza le
vibrazioni della tavola armonica. Nell’epoca in cui viviamo in cui i volumi
sonori sono alti o regolabili bisogna però essere
aperti almeno all’arpa amplificata. Buoni peak-up applicati all’interno della
cassa armonica permettono di fare molto, anche di distorcere il suono, che di
base è migliore, e di entrare nella musica pop.
In un mio nuovo progetto sperimentale, al quale sto
lavorando con il compositore Henoel, suonerò l’arpa
amplificata ed a volte il suono sarà distorto per
ottenere nuove sonorità.
Rimaniamo sempre nell'area tecnica. Arpa classica e arpa
celtica: differenze e comunanze, dal punto di vista costruttivo e non.
Prima di tutto è diversa la dimensione con un conseguente
numero diverso di corde. L’arpa celtica è ovviamente più piccola. Poi se l’arpa
a pedali, appunto grazie ai pedali, può suonare in qualsiasi tonalità, l’arpa
celtica utilizza un sistema di levette che vanno azionate
a mano e permettono di suonare solo in 16 tonalità, variabili a seconda
dell’accordatura di partenza e ovviamente modificabili in modo minimo durante
l’esecuzione di un pezzo: se si suona non si possono certamente muovere levette
in gran quantità! Ovviamente l’arpa celtica è leggera da spostare, ci si
affatica poco a suonarla, ha un suono più brillante e per suonare la musica
etnica o pop è l’ideale. L’arpa a pedali è uno strumento complesso che permette
di suonare qualunque repertorio. Chi suona l’arpa a pedali con piccoli
accorgimenti e un minimo di pratica può sonare benissimo l’arpa celtica, ma non
funziona viceversa.
Sono stati fatti molti esperimenti di arpa preparata? Sono
nati prima questi o quelli di pianoforte preparato? Che cosa ne pensi?
La definizione di strumento “preparato” a me ricorda subito
Cage che ha scritto dalla fine degli anni ’30 sia per
pianoforte che per arpa preparata. Se per preparato si intende una distorsione del suono, l’arpa ha allora una
lunga tradizione, molto più lunga del pianoforte. Molti “effetti” erano in uso
già nel 1700, e oggi pochi lo sanno e suonano correttamente (mi riferisco per
esempio ai suoni alla tavola o ai glissati di pedali che non venivano
nemmeno indicati in partitura perché normale prassi). Bochsa
e Parish Alvars all’inizio dell’800 sperimentano cercando “nuovi” suoni. Bochsa nel 1838 pubblica il primo libro sugli “effetti
speciali” dell’arpa. Solo nel 1919 si ha però il definitivo trattato che ha una importanza fondamentale sul 900: il Modern Study di Carlos Salzedo
in cui vengono elencati 35 effetti possibili sull’arpa: dagli armonici alle
percussioni per arrivare alle sordine di carta tra le corde. Sequenza II di Luciano Berio del 1962 viene da lì e il brano di
Heinz Holliger dello stesso anno, Sequenzen
über Johannes I, 32, che include dei suoni ottenuti facendo scorrere un
cacciavite sulle corde è per l’arpa una minestra riscaldata. Quell’effetto l’ha
inventato Parish Alvars nel
1843 e Berlioz infatti quando
l’ha sentito suonare ha scritto “questa è musica di un altro mondo” e
“quest’uomo è un mago”. Come ho detto l’arpa è personalizzabile, individualista
e quindi sperimentale per eccellenza.
Quali sono i tuoi prossimi impegni artistici?
Sarò impegnata in tre concerti con il flauto: l’11 febbraio
a San Severo di Foggia, il 12 al Teatro Marrucino di Chieti per i Concerti Aperitivo, il 18 a Busseto, nel Palazzo Barezzi, in
un concerto per presentare il CD con tutte le Sonate per flauto e arpa di Krumpholtz uscito recentemente dalla casa editrice Aulia e distribuito da Aulia e CNI. Il 14 febbraio suonerò invece da sola nel castello di Uster vicino a Zurigo. Sono impegnata
però con altre registrazioni quest’anno e nell’organizzazione di
concerti e riprenderò a viaggiare intensamente dal prossimo aprile.
Un'ultima domanda che nulla ha a che spartire con la tua arte,
ma che sono proprio tentata di porti. Com'è nato il tuo nome, dal fascino
sottile, delicato connubio tra la dea della primavera e la conturbante Leda?
Da un dipinto pompeiano raffigurante Flora
che corre con una cornucopia lasciando dietro di sé una scia di fiori e da un
omaggio alla letteratura e alla mitologia greca. Due elementi presi dalle due
culture, greca e romana, che sono alla base della nostra. L’ho detto forse
all’inizio: i miei genitori si occupano di storia dell’arte e mio padre anche
di botanica. Il mio nome unisce le loro passioni e hanno pensato che fosse di
buon auspicio.