Intervista al ballerino Fabio Grossi

1 ottobre 2007

Fabio Grossi: un danzatore italiano con esperienze internazionali, che mi ha concesso un'intervista proprio nel giorno del suo trentesimo compleanno.

È un piacere per me ospitarLa in Morfoedro proprio oggi che è il giorno del suo trentesimo compleanno. Tanta giovane vita e tanta danza sia dietro sia davanti a sé: possiamo già fare un bilancio, seppur parziale?

Fabio Grossi come Siegfried ne Il Lago dei Cigni con Sadaise Arencibia del Ballet Nacional de Cuba come Odette. Opera di Roma.

© Foto B. Farda

Desidero innanzitutto ringraziarLa di questo Suo affettuoso regalo di compleanno, che mi mostra la Sua stima ed il Suo interesse nei confronti della mia persona e che mi permette di comunicare attraverso questo accogliente spazio di cultura. Non Le nego che giungere al meraviglioso e temibile traguardo dei trent'anni mi emoziona profondamente, ed inevitabilmente mi invita a porgere uno sguardo pieno di tenerezza ma soprattutto di lucida riflessione a ciò che sono oggi ed a tutte le più diverse esperienze che mi hanno portato a questo mio interessante presente. Esperienze talvolta dolorose, tal'altra gratificanti, sempre significative e faticose specie se vissute con l'intento di servirsene al fine di progredire non nel mero percorso professionale ma innanzitutto nel proprio cammino interiore.

Concependo la Danza come comunicazione privilegiata, come sublime opportunità di evolvere un linguaggio personale che permetta all'individualità di giungere a verifica ed a maturazione, io l'ho utilizzata e la utilizzo essenzialmente come strumento di crescita che mi aiuta a capire le sfaccettature di me stesso e me ne fa scoprire molto spesso di nuove: prendendo coscienza del proprio talento ed assecondandolo, si può seguire la propria vocazione ritrovando se stessi. E dando modo alle predisposizioni più autentiche dell'essere di venire alla luce, si ha davvero la possibilità di realizzarsi spiritualmente nella coerenza di sé. La difficoltà è che il più delle volte sono gli ostacoli che la vita ci propone (sotto forma di invidie, di avidità, di falsità) a presentarci bruscamente le "ombre", ovvero le parti di noi stessi da illuminare e da superare, per una nostra sempre maggiore consapevolezza e determinazione alla completezza.

Mi può commentare i passi che ritiene più importanti della Sua biografia?

Ce ne sono talmente tanti! Ogni esperienza, anche quella apparentemente più negativa, mi ha donato insegnamenti importanti. Potrei raccontare del mio inizio, per gioco, spinto da un'insegnante che voleva assolutamente un maschietto su cui elaborare un saggio di danza fino a quel momento presentato con sole bimbe. Potrei accennare alla dura parentesi ospedaliera, a soli dieci anni, che per un fibroma osseo mi impedì di camminare per un anno e mezzo minacciando la mia nascente passione per la Danza. Vorrei raccontare dell'innamoramento vero e proprio, che mi colpì nel centro del petto poco dopo, con la forza di una deflagrazione fino ad allora sconosciuta: in occasione di uno spettacolo de Il Lago dei Cigni al Teatro dell'Opera di Roma nel 1990, mi lasciai rapire dalla magia della luce con la mia mamma che mi teneva per mano. E non si può immaginare l'emozione che ho provato, quattordici anni dopo, nel debuttare su quello stesso palcoscenico come protagonista di quel medesimo, meraviglioso capolavoro intriso di mistero.

Ma andiamo con ordine: ho vissuto le prime affermazioni appena diciannovenne quando, da allievo dell'Accademia Nazionale di Roma, nel giro di pochi mesi vinsi il Concorso di Rieti di Alberto Testa, il Diploma di Finalista al Concorso di Mosca di Yuri Grigorovich e il Premio Positano come giovane promessa del balletto italiano. Dunque venni chiamato da Mauro Bigonzetti all'Aterballetto di Reggio Emilia, una compagnia agile e dinamica di soli tredici versatili elementi, tutti potenziali solisti principali, con cui ho vissuto il mio vero debutto professionale ed uno svezzamento artistico che ricordo tuttora con riconoscenza ed affetto.

Di lì, il tortuoso quanto necessario percorso internazionale che, in cinque intensissimi anni, mi ha permesso di danzare presso il Ballet du Grand-Théatre de Genève, il Leipzig Ballett di Uwe Scholz, il Teatro alla Scala di Milano e il Ballet National de Marseille di Marie-Claude Pietragalla, effettuando tournées un po' dappertutto nel mondo e proponendomi l'opportunità di un arricchimento non solamente tecnico-artistico negli ambiti coreografici più diversificati, ma soprattutto un confronto umano e sociologico nell'incontro e spesso nella condivisione con persone di differente provenienza culturale.

Lavorando poi presso l'Opera di Roma, ha proseguito un percorso artistico non convenzionale: dopo i primi passi (perdoni la metafora fin troppo scontata) mossi in Italia, a Roma in particolare, Lei è dunque andato a "riempire la valigia" ‑ prendo qui a prestito una Sua espressione ‑ all'estero, per far poi ritorno in Italia e ricominciare. Perché questo?

Perché ho avvertito la vitale necessità di tornare nel contesto dei miei affetti, di continuare il mio percorso di maturazione interiore nel loro inestimabile abbraccio, di ritrovare i luoghi dei miei inizi e trasformarli nella scena dei miei traguardi, di contattare un "mio" pubblico e, certo, di attingere a quella valigia di mille partenze piena di esperienze che è il bagaglio sudatissimo e sofferto di cui tuttora vado orgoglioso. Ma, più di questo, perché ho desiderato -per dirla con Marcel Proust- assaporare nuovamente la mia "madeleine" immergendomi nei profumi del passato che la mia famiglia ha sempre riempito d'amore.

La mia vicenda è un po' quella del protagonista de L'Alchimista di Paulo Coelho, il mio scrittore preferito, la cui ricerca parte con la Fortuna del Principiante e termina con la Prova del Conquistatore, trovando il grande tesoro a casa propria dopo innumerevoli avventure in un altrove che è sempre e solo la nostra coscienza. E certo di Prova si è trattato, al momento del mio ritorno a Roma dopo aver deciso di rimettermi totalmente in gioco un'ennesima volta lasciando la sicurezza contrattuale ed il prestigio con i quali il Ballet de Marseille mi aveva accolto e per molti versi coccolato sotto il benefico sole provenzale, tra quelle famose "calenques" che sono belle da mozzare il fiato.

Temendo la pesantezza dei meccanismi burocratici privi di senso che caratterizzano i teatri italiani di tradizione, di cui avevo avuto uno spiacevole assaggio alla Scala, ho rischiato affrontando con entusiasmo una nuova sfida, sottoponendomi alle audizioni attitudinali del Teatro dell'Opera (tre in totale, tutte superate guadagnando il primo posto) e rimboccandomi le maniche pronto a rimettermi in discussione. Naturalmente, il mio impegno ed il mio talento mi hanno aiutato a bruciare le tappe ed a ottenere in breve tempo i ruoli principali dei balletti di repertorio nonché molti ruoli creati apposta per me nelle nuove produzioni di danza, scavalcando ogni gerarchia interna ed elevandomi ai vertici della compagnia. Per dare una misura, però, della dimensione paradossale e grottesca dei contesti teatrali del nostro Paese posso ricordare un aneddoto che risale ad un sabato di luglio del 2004 quando, dopo un primo ed intenso anno romano, mi ritrovai a provare il ruolo del Principe Albrecht con l'étoile dell'Opera al mattino (per subentrare a Roberto Bolle nella recita di Giselle dell'indomani) per poi sostenere, quello stesso pomeriggio, la seconda audizione per le graduatorie della stagione seguente! Insomma, una situazione di costante e brusco divario tra l'inquadramento istituzionale e l'effettivo merito artistico. Inutile aggiungere, comunque, che il mio arrivo al Costanzi ed il rapido successo che ne è conseguito hanno scompigliato le carte di un microcosmo dalla mentalità molto chiusa provocando le invidie inaspettate che il dorato mondo del balletto camuffa più che bene con i "clichés" propri dell'immaginario collettivo.

Le difficoltà all'interno del Teatro, però, sono state direttamente proporzionali all'affetto e alla stima del pubblico della mia città che mi aperto le braccia calorosamente e clamorosamente, ripagandomi di tanto impegno e dimostrandomi di aver compreso la mia maniera d'essere artista e quell'umanità, fatta del più completo coinvolgimento psicofisico nell'arte, con cui ho fortemente voluto motivare la mia presenza in scena.

Lei è stato insignito del Premio Positano "Léonide Massine" per l'Arte della Danza: premio al Merito come giovane promessa nel 1997 e premio al Valore come Primo Ballerino nel 2007. Che cosa hanno significato questi riconoscimenti per Lei?

Al Premio Positano -al suo palcoscenico, alla sua spiaggia, ai suoi colori- sono legati alcuni tra i più preziosi ricordi del mio vissuto professionale ed umano: rammento ancora molto nitidamente l'eccitante sorpresa di ricevere il telegramma del mio primo importante riconoscimento, in quell'ormai lontano 1997 che mi vedeva ancora molto, molto bambino… Essendo sempre stato un piccolo grande appassionato di letture di settore ed un adolescente costantemente incline ad approfondimenti storici riguardanti la cultura di danza, il "Léonide Massine" rappresentava per me - nel momento di quelli che potrebbero definirsi gli albori della mia carriera ‑ non unicamente una prestigiosa gratifica ma anche un meraviglioso invito ad intraprendere un cammino difficile ma esclusivo, con una "carezza" tutta speciale. Il Premio al Valore, ad esattamente dieci anni di distanza, è arrivato con una cadenza cronologica che ha del miracoloso a ricompensarmi veramente del mio percorso di scoperta a ad accarezzarmi, di nuovo, a conclusione di un intensissimo ciclo di esperienze. È proprio al tema del ricordo, della rimembranza di ciò che ero ai miei inizi con la consapevolezza dell'uomo di oggi, che ho voluto dedicare la coreografia presentata un mese fa a Positano, ed originariamente nata come omaggio a Vittoria Ottolenghi che mi ha voluto tra i suoi "fiori" prediletti: Réminiscence (il cui titolo farebbe pensare alla famosa "reminiscenza" ‑ o "anàmnesis" ‑ di Platone, per il quale l'apprendere è un ricordare), una creazione di Michele Merola danzata con Susanna Giarola - entrambi, coreografo e danzatrice, provenienti dalla compagnia del mio debutto, l'Aterballetto, in una sorta di affettuoso anniversario "tra amici". Il secondo brano nato per il Premio, dal titolo ironico di Bela Bartok a-t-il souri dans la nuit? che ammiccava ai miei trascorsi francesi, ha rappresentato l'occasione di offrire la giusta visibilità ad un altro giovane autore italiano -mio coetaneo e insignito di uno dei premi di danza contemporanea a Rieti nel medesimo anno della mia vittoria- che è Enrico Morelli e che nonostante l'evidente, innato talento ed il garbo si trova nella difficilissima precarietà della maggior parte dei coreografi italiani che non sono supportati da strutture che ne vogliano valorizzare il lavoro: è stata la mia maniera di celebrare il mio percorso facendomi affiancare dagli artisti che più apprezzo regalando loro un pochino del mio Premio.

Riguardo a Léonide Massine coreografo, poi, non posso trattenermi dall'esprimere l'assoluto entusiasmo che mi ha donato il personaggio principale del suo famoso balletto Pulcinella, danzato all'Opera di Roma: un sogno, impegnativo ma appagante, sia per il cesello coreografico di assoluta sapienza musicale (c'è Pergolesi riecheggiato con l'incredibile maestria di Stravinsky), sia per la meraviglia dello spazio scenico sortito dal genio di Pablo Picasso (di cui si ha davvero l'impressione di fare parte, una volta in scena, immergendosi nella sua decisione cromatica e nella spigolosità formale alla quale la coreografia intelligentemente corrisponde), sia - infine- per l'eterno fascino con cui la maschera di Pulcinella mi ha sedotto, simboleggiando ai miei occhi l'intraprendente saggezza del popolo resa attraverso un'energia inesauribile, toccante e scoppiettante.

Lei si è distinto nelle coreografie di ‑ tra gli altri ‑ Balanchine, Forsythe e Kylián. Me ne può parlare?

Il mio primo approccio allo stile di William Forsythe risale a quando avevo vent'anni: è stato il primo grande coreografo con cui ho potuto confrontarmi. Ero da poco entrato all'Aterballetto ed ebbi la fortuna di lavorare con Anthony Rizzi (all'epoca uno degli interpreti principali del Frankurt Ballett) per uno dei tre ruoli maschili di Steptext, titolo storico creato proprio all'Ater per Elisabetta Terabust nel 1985: nel linguaggio decisamente post-classico della coreografia, in quel suo decontestualizzare l'accademismo in favore di un'asettica ma intensa fisicità contemporanea, in quel suo evolvere con una dinamica accelerata la linea estetica consueta, imparai a non ricercare posizioni esteticamente fini a se stesse (come avevo fatto, provenendo direttamente dal rigore scolastico, fino a quel momento) ma a privilegiare consapevolmente l'energia del movimento, l'attacco istintivo del corpo e la sfida a spingersi sempre oltre le forme prevedibili del balletto classico. Ebbi poi modo di riprendere Steptext in Svizzera quando, l'anno seguente, mi trasferii al Balletto di Ginevra con cui danzai un ruolo differente da quello sostenuto in Italia: questo mi permise di approfondire la conoscenza di questo balletto da un punto di vista diverso ma complementare.

A Marsiglia ho danzato invece in Approximate Sonata, un lavoro più recente (risale al 1996) ma alquanto simile, nella cui rarefatta atmosfera ho affrontato passi a due forse meno aggressivi fisicamente ma di tensione quasi ipnotica e dalla formalità sempre estenuata in una costante ricerca del rischio nel cosiddetto "fuori-peso", gestito e giocato per nuovi fini dinamici.

Di Jirí Kylián, con una soddisfazione così grande da rasentare la riverenza per questa geniale personalità della coreografia del nostro tempo, ho ballato Sinfonietta quando ero in Germania nella compagnia del compianto ed indimenticabile Uwe Scholz. In Sinfonietta, creato nel 1978, ciò che identifichiamo oggi con lo stile Kylián non è evidente: ho trovato per così dire un Kylián "prima maniera", molto più accademico di quanto non sia attualmente nei suoi capolavori al Nederlans Dans Theater, un Kylián di grande slancio (io ero il Solista nella sequenza dei ripetuti, aerei "grands jetés" del secondo movimento) ma ancora fortemente radicato in una riconoscibile tradizione neoclassica.

George Balanchine, sublime coreografo e musicista di origine pietroburghese che - avendo magistralmente evoluto uno stile poi riconosciuto come "americano" per astrazione narrativa e rapidità d'esecuzione ‑ rappresenta un ideale ponte di congiunzione tra i fasti accademici di Marius Petipa nel Diciannovesimo secolo ed i creatori contemporanei di cui ho parlato poco fa: con lui, l'emozione è distillata attraverso il movimento puro e svincolato da intervalli pantomimici o intenti drammatici ed il balletto sotto forma concertante diviene così una metafora drammatica della partitura musicale. A Marsiglia, sotto la guida di Karin Von Aroldingen del New York City Ballet, ho sostenuto ruoli minori in Stravinsky Violin Concerto e in Who Cares? e sono stato l'interprete principale del Sanguigno, uno dei momenti tecnicamente più impegnativi dell'adamantino e celeberrimo Quattro Temperamenti, un balletto su musica di Paul Hindemith del 1948 che possiede lo smalto senza tempo del capolavoro assoluto.

Quest'anno Lei è stato invitato da Concetta Lo Iacono presso la sede DAMS dell'Università di Roma Tre, per discutere del ruolo del danzatore-attore nel teatro di danza di oggi. Chi è il danzattore? Quale relazione c'è tra questo ruolo è il Teatrodanza di Pina Bausch?

Sì, è vero: con mia grande sorpresa, lo scorso mese di maggio Concetta Lo Iacono, con cui avevo studiato Storia della Danza al Liceo Coreutico dell'Accademia, mi ha chiesto di parlare della mia esperienza di interprete ai ragazzi dell'Ateneo, con peculiare riferimento al concetto platonico di "paideia". Questa parola greca, che nella Repubblica ateniese indicava la formazione culturale dell'uomo sulla base della conoscenza delle verità filosofiche, è stato dunque il punto di partenza per tutta una serie di riflessioni personali ‑ e non poteva essere altrimenti, non essendo un insegnante!

Superando le iniziali timidezze, ho dunque esposto il mio modo di immergermi nel mondo di un personaggio, studiandolo attentamente ed inserendolo nel suo contesto distintivo: con l'aiuto di ogni tipo di fonte culturale (coreografica, musicale, scenografica o più generalmente iconografica, storico-letteraria, psicologica), voglio sempre inquadrare il carattere da affrontare nel suo universo d'appartenenza, di cui riflette le caratteristiche, per esacerbare da un involucro superficiale l'essenza che quel personaggio sta a rappresentare nel suo senso assoluto. A quel punto, mi scavo dentro per ritrovare quel "colore" speciale, quell'Idea dentro di me (perché in ognuno di noi c'è già tutto, se lo si vuole trovare, e la "tavolozza" interiore ‑ specie se vi si attinge con la sensibilità dell'artista ‑ è inesauribile), per filtrarla a modo mio e rendere ciò che di me c'è di più vero in quel personaggio. Un personaggio che automaticamente si attualizza perché gli si dà voce attraverso un tramite che è l'interprete di oggi. Inoltre non si scinde mai l'interprete dal ruolo interpretato, ma entrambi si fondono a rappresentare un valore universale: rifiuto sempre, quando si parla di teatro, il termine "finzione" privilegiando la parola "illusione", l'illusione del reale che diventa reale attraverso la verità. A questo proposito, la celebre ballerina americana Gelsey Kirkland - nella sua controversa biografia Dancing on my grave del 1986, e poi nel successivo The shape of love che ho letto a Londra anni fa con grande interesse- racconta di non adottare completamente il metodo Stanislavsky (e dunque la determinazione a prendere possesso dell'inconscio al fine di esercitarvi un controllo cosciente per ritrovare al suo interno le risorse artistiche che vi sarebbero state represse dai vincoli della società), ma di essersi resa conto prestissimo ‑ con la fantastica semplicità che è propria dei bimbi più sensibili ‑ che l'ideale di "bellezza" dovesse in qualche modo dipendere da quello di "verità" e che, nello specifico della danza teatrale, i principi geometrici del linguaggio tersicoreo fossero chiamati all'interno del sacro cerchio scenico per far sì che, attraverso il fluire dell'energia fisica, la bellezza dell'essere umano potesse rivelare l'intricato tessuto di dramma e verità che è la condizione prima del concetto di danza come mezzo di comunicazione.

Questo lavoro di introspezione che porta alla rappresentazione pubblica, è secondo me valido sia per i ruoli drammatici di più evidente complessità psicologica sia per i ruoli cosiddetti astratti. Infatti nel caso di un balletto concertante, di puro movimento, si è comunque in scena con se stessi, con la ricchezza della propria anima e con il vissuto personale, con tutti quei tormenti e quelle singolarità che ci definiscono come persone e quindi pure in questo ambito, seppur in misura minore che nel repertorio "attorale", è la persona che viene fuori. Del resto persino Balanchine, nel suo percorso creativo costantemente teso a spogliare il balletto tradizionale dalle sue potenzialità recitative ed insistendo sulla spontaneità dei danzatori, asseriva che con un uomo ed una donna in scena insieme, semplicemente, il dramma scenico era già artisticamente "innescato".

Nel teatro di danza di oggi, dunque, il ruolo del danzatore-attore è il ruolo di colui che sceglie d'esser tramite tra l'universale e l'individuo contemporaneo filtrando il presente con occhi consapevoli.

Nel mio piccolo, ho vissuto la dimensione del "danzattore" ogni qual volta ho fatto i conti con quei meravigliosi personaggi tratti da alcuni capisaldi della letteratura di tutti i tempi, e pensati per le mie qualità espressive.

Uno di quelli che mi hanno permesso di discostarmi maggiormente dalla consuetudine è il ruolo di Goneril, la maggiore delle figlie traditrici del Re Lear di Shakespeare: accostandomi alla tragedia (composta all'inizio del 1600 ed ispirata al leggendario Leir di Britannia, sovrano portato alla rovina dall'avidità della sua stessa progenie) sono rimasto colpito dalla sconcertante attualità sociologica e politica di un testo così antico. Assecondando la scelta registica di danzare "en travesti" ‑ come ai tempi del teatro elisabettiano, quando il palcoscenico alle donne era precluso ‑ ho deciso di non rinunciare ad una grinta prepotentemente maschile che, in perfetta sintonia con i toni aggressivi della terribile Gonerilla, mi evitava di scadere in un ritratto banalmente parodistico ed ho lasciato semplicemente che il costume di scena dalla lunga gonna rivelasse all'impatto visivo la connotazione femminile del personaggio.

Ma il primo dei miei "amori" (come mi piace chiamare le interpretazioni che sento essere più profondamente "mie") è sicuramente Mefistofele, il ruolo centrale del balletto Dal Faust di Goethe che Luciano Cannito ha creato al Teatro dell'Opera un paio d'anni fa e che ha segnato una tappa importante nella mia carriera: cogliendo al volo l'ampia libertà di adattamento interpretativo e addirittura coreografico che Cannito mi ha concesso, ho potuto personalizzare moltissimo un personaggio che più intrigante non si può, colorandolo di una vasta gamma di sfaccettature dinamiche ed espressive fino a farmelo diventare una seconda pelle. Tale era infatti la fiducia riposta in me e la mia predisposizione fisico-interpretativa a quel tipo di universo ‑ sensuale e ironico, torbido e beffardo ‑ che posso confessare di aver creato io stesso molte sequenze, sia di "mise en scène" che più propriamente danzate, gestendo la complessa evoluzione del personaggio secondo il mio più peculiare istinto teatrale.

Qui desidero ricollegarmi ad un concetto fondamentale per l'Arte, dopo aver parlato di bellezza e di verità, che è per l'appunto l'esigenza di libertà. Non l'assenza di regole ma lo stato dell'essere che, intelligentemente, le trascende. E mi riferisco alla Sua domanda su una delle personalità più originali del teatro di danza (che diviene "teatro-danza") della nostra epoca, Pina Bausch, la quale parafrasando le parole del suo grande maestro ‑ l'espressionista tedesco Kurt Jooss ‑ ha sottolineato la vitale necessità di esprimersi con libertà, in quanto nella danza non esistono regole se non quelle da contraddire. Rivelando propositi quasi rivoluzionari nei confronti di qualunque canone precostituito, la sua gestualità ‑ che attinge dal quotidiano per arrivare all'assoluto ‑ non ha confini perché traduce i sentimenti e i sentimenti di confini non ne hanno. E spinge ancor più in là il lavoro di personalizzazione di cui parlavo a proposito del mio approccio al Faust: la Bausch parte direttamente dall'autobiografia propria e dei suoi interpreti per fornire acute osservazioni sui rapporti umani negli innumerevoli aspetti della vita, esplorandoli con un tocco talvolta cinematografico (tradendo un notevole interesse per l'opera di Federico Fellini) e tal'altra persino psicanalitico.

Le confesso che, quando verrà il momento di lasciare il palcoscenico come danzatore, non mi dispiacerebbe affatto avventurarmi in ambiti creativi così avanzati e stimolanti o persino tentare la modalità espressiva che considero come l'evoluzione naturale del mio presente artistico: il teatro di prosa.

L'autentico proposito dell'Arte, seguendo il pensiero di Friederich Schiller, non è semplicemente quello di trasferire l'essere umano in un momentaneo sogno di libertà, ma è piuttosto quello di renderlo realmente e completamente libero.

A Fabio Grossi è stata dedicata una galleria fotografica.


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