Intervista a Vladimir Derevianko ‑ seconda parte

11 agosto 2007

Dall'1 settembre 2007 Vladimir Derevianko assumerà la direzione artistica del MaggioDanza, la compagnia di ballo del Maggio Musicale fiorentino.

Il grande ballerino russo mi ha concesso un'intervista che presento in due parti.

La prima parte prende le mosse dal suo nuovo impegno con il MaggioDanza e, passando attraverso la sua biografia e la sua formazione artistica, tocca diversi temi: la situazione della danza oggi, la figura di Rudolf Nureyev, il concetto di contaminazione fra le arti, l'importanza della notazione coreografica.

Il "piatto forte" è rappresentato dalla seconda parte dell'intervista, nella quale Derevianko racconta il proprio rapporto con Galina Ulanova, Vladimir Vasiliev, Ekaterina Maximova e con alcune étoile italiane, per poi entrare nella profondità di quei concetti che costituiscono la sua Weltanschauung artistica.

 

Prima parte ‑ Seconda parte

 

Lei ha lavorato con nomi altisonanti: Galina Ulanova, Vladimir Vasiliev, Ekaterina Maximova… Può raccontare qualche ricordo legato a loro?

Vladimir Derevianko in Paganini di Vladimir Vasiliev, Todi, 2005.

© Foto Alessio Buccafusca

Di ricordi ne ho tantissimi e la cultura russa sarà sempre dentro di me. Mi sono formato in Russia e là è nata la mia capacità di comprensione estetica e critica. Ci sono stati altri incontri e altrove ho anche appreso diverse nozioni artistiche, ma le mie basi sono state gettate dove sono nato e dove ho vissuto.

Vladimir Vasiliev e Ekaterina Maximova sono contemporanei di Nureyev, mentre Galina Ulanova e Maja Plisetskaja lo antecedono. Siamo di fronte a fenomeni storici. Pensiamo pure ad una Margot Fonteyn: ce ne sono solo due o tre ogni cento anni che rimangono nell'enciclopedia della danza per sempre. Lavorare con loro era per me necessario come lo è l'aria per chi vive sulla terra: non parlo di acqua, ma addirittura di aria. L'arte l'ho imparata direttamente da loro: così, tramandata in sala da persona a persona.

Vasiliev faceva creazioni per me e per Katya e creava opere per altri ma montandole su noi due.

Galina Ulanova mi prese a benvolere. Alle prove non ammetteva nessuno, eppure a me faceva entrare. Ricordo che una volta portai con me una mia compagna di classe. Entrammo in sala e la Ulanova non disse nulla, ma al termine della prova mi chiarì molto bene: "Se faccio entrare te, questo non significa che mi devi portare tutti." Era una donna assai riservata. Con la sua allieva Ludmila Semenyaka abbiamo danzato nello Schiaccianoci: sono spettacoli che non ti scordi per l'intera vita perché sono venuti bene. Galina Ulanova mi disse: "Ti faccio i miei complimenti: anche Luda si è accesa. E io i complimenti non li faccio spesso."

Ho sempre studiato con e seguito il mio maestro, Nikonov, che stava con me anche mentre io lavoravo con Galina Ulanova. Sedeva molto rispettosamente e non interveniva quando la Ulanova mi correggeva: lei era la maestra dei maestri. Era di poche parole. Quando l'attenzione era rivolta alla tecnica, ella dava spiegazioni tecniche: un po' più en dehors o altre indicazioni. Tuttavia quando si parlava di emozione, allora era di una collaborazione preziosissima.

Lei ha danzato con alcune fra le più grandi étoiles. Cito le italiane: Carla Fracci, Luciana Savignano, Alessandra Ferri e Viviana Durante. Ne può parlare?

La partnership con Carla è stata breve: venti giorni. Abbiamo danzato in Chopiniana. Mi fa piacere dire che, in questa occasione, ho imparato molto da Beppe [Menegatti ‑ ndr].

Con Alessandra abbiamo danzato una produzione di Amodio. Lei è molto piacevole sia artisticamente sia tecnicamente. Ci si accende reciprocamente.

Con Luciana è bellissimo, perché la sua personalità nella vita e sulla scena è una sola. Non c'è contrapposizione, come capita invece con altri artisti. Insomma: Luciana è bellissima come persona e come ballerina.

Viviana Durante è l'unica ballerina italiana non valorizzata quanto meriterebbe. Io farò del mio meglio a Firenze, ma cerchiamo di non perderla!

È cronaca fin troppo nota quella di ballerini italiani che vanno all'estero. Eleonora Abbagnato, che ha lasciato Palermo, ne è un esempio.

Ha fatto bene! Ci sono dinamiche legislative che ora fatico a comprendere, ma nel merito delle quali in futuro vorrei entrare. I ballerini che lavorano in un teatro hanno uno stipendio mensile, perciò un costo fisso c'è. Allora, mi chiedo, perché non li fai danzare? Il costo è lo stesso. Certo, a Dresda abbiamo preparato 80 spettacoli all'anno, e questo è l'optimum, però si può puntare anche su numeri più bassi. Ciò non significa che in Germania ogni cosa vada liscia, tuttavia alcuni risultati insegnano.

Be', se mi hanno chiamato a Firenze si attendono da me un cambiamento, quindi cercherò di coordinare gli sforzi di tutti perché si vada nella stessa direzione, visto che il budget per l'opera e per il balletto è unico.

Primo statement: è il cervello che deve comandare il corpo. Secondo statement: è l'anima che deve guidare il cervello. Vogliamo parlare di questo, anche tenendo a mente il tema del rapporto fra tecnica ed interpretazione?

Vladimir Derevianko in Paganini di Vladimir Vasiliev.

© Foto Alessio Buccafusca

È necessario cominciare con l'educazione mentale perché il ballerino ha come strumento il corpo e lo deve usare per i fini propri dell'anima. L'anima è creata da Dio, ma le emozioni vanno espresse. Il compito sia dell'insegnante sia del maître de ballet è quello di educare: arte e mestiere non sono la stessa cosa e senza mestiere non c'è arte. Essendo in possesso della tecnica, si va verso l'arte e il corpo diviene strumento, espressione dell'anima. Qualsiasi movimento dell'anima diventa legittimo sulla musica. Vivi sul respiro e sul tempo della musica e non sui tuoi. Poi subentrano il soggetto, le nuance, i rapporti con il partner… Ecco come io ho concepito la danza e come la sostengo. Il corpo è strumento dell'anima e in quanto tale va trattato: tecnicamente uno lo affila per essere libero di esprimere l'anima. Cerchiamo di concretare tutto questo prendendo un soggetto. Vasiliev ha creato per me Paganini, sulle variazioni scritte da Rachmaninov su un tema di Paganini. L'interprete si trova fra il personaggio (Paganini) e lo strumento (il violino). Paganini senza il suo strumento si può dire non esista. È una figura complessa: dotato di una tecnica difficilissima per il tramite della quale la sua anima si esprime in modo diabolico, quindi è un incompreso per la sua diversità ed è solo. In certi momenti il mio corpo diventa il violino di Paganini. Ma visto che io sto interpretando non la musica paganiniana bensì una variazione su un tema paganiniano, ho la libertà di essere me stesso come Vladimir Derevianko attraverso la mediazione musicale di Rachmaninov. È l'ultima opera romantica scritta dal musicista russo negli Stati Uniti: egli prende un tema del violinista genovese e vi compone una musica assolutamente russa con i grandi ricordi nostalgici.

Qualsiasi interprete ha bisogno di ispirazione. La danza non è dotata di parola e quando giunge l'ispirazione è un evento divino e l'artista diventa fertile. Sulla scena è necessario che abbia chiaro chi è, da dove viene, dove va e avere coscienza dello spazio che lo circonda. Non può solo uscire sul palcoscenico ed eseguire i passi: deve esserci prima. È questo che fa di un esecutore un artista e gli spettatori vedono la differenza. Certo ai ballerini vanno dati testi di valore, altrimenti non sanno dire e dare molto.

Quanto un direttore artistico può stare dalla parte del ballerino e quanto deve sapersi imporre?

Qui entriamo nella psicologia dei rapporti interpersonali. Non è il mio lavoro, però mi sono incontrato spesso con l'approccio psicologico, operando da direttore a Dresda. Ho avuto a che fare con sessanta ballerini e con venti amministrativi. Io ero il leader e dovevo stimolare e dare le direttive. Il direttore non è solo colui che risolve le situazioni, ma è colui che motiva. Questa è l'idea del mestiere di direttore. Certo, avere un'idea è raro, saperla realizzare è ancora più raro. Il direttore si pone a capo di un'équipe, il lavoro della quale collega e cementa tutto. Se scaturiscono idee di valore, c'è anche un seguito: con la banalità non si stimola. Quando si diventa direttori non se ne esce più: incontrare una compagnia è come incontrare una persona nuova. Per ogni cosa occorre trovare una soluzione; il direttore non ha tempo per pensare a se stesso: ha necessariamente da pensare agli altri. Non dimentichiamo poi che egli deve far sì che tutto sia funzionale al senso dell'opera. È quando qualcosa scaturisce solo in quanto desiderio di un singolo che il direttore deve mostrare polso: deve saper sacrificare le istanze individuali in nome dell'intento comune. Non può permettere che si apra una divaricazione la quale, poi, chissà dove porta. I principi della direzione generale non vanno mai traditi. È chiaro che non ci sono sempre la linea diritta e la luce verde, quindi ‑ ove necessario – risulterà utile cercare di raggiungere il traguardo con un percorso più lungo della linea diritta. Il direttore è un medico che ogni giorno fa diagnosi e prepara ricette. Del resto il grande dottore è in certo qual modo un artista: i chirurghi sono artisti, e divini, perché ti regalano la vita; noi ballerini al massimo regaliamo cibo per l'anima. Ma è solo quando hai la vita, quando stai bene fisicamente e non devi difenderti dagli spari e dalla fame (e non crediamo che se le cose non accadono a noi in Europa è perché non esistono!) che puoi pensare alla cultura e all'arte.

Sono d'accordo. Non è un caso, infatti, che nelle nazioni occidentali l'orientamento valoriale delle generazioni cresciute nel dopoguerra si sia discostato da quello delle generazioni precedenti, spostandosi l'accento dai temi della sicurezza fisica ed economica ai temi della qualità della vita, dell'autorealizzazione, del soddisfacimento intellettuale ed estetico.

Senta, in seno a questa teoria del bisogno, in che modo collochiamo un Jean Weidt il quale, in un'epoca (anni Venti) dove in Germania era difficile trovare lavoro, decise di abbandonare il proprio posto di giardiniere per consacrarsi alla danza? Il quale, inoltre, dopo l'avvento di Hitler al potere fu il primo ad essere arrestato perché i nazisti avevano trovato alcune fotografie del suo balletto Potsdam.

Jean Weidt è una figura estremamente complessa. Esistono periodi in cui gli artisti reagiscono in maniera irrazionale. Probabilmente era giunto per lui il momento in cui avvertì chiaramente che doveva fare ciò che ha fatto. Soffermiamoci a pensare quanto agire razionale c'è nella nostra esistenza: poco o niente. Rifletta: quante volte al giorno lei dice "devo" ("devo prendere un caffè") al posto di "vorrei" e "voglio" ("voglio un caffè")? Quante volte ha reagito per razionalità invece che per desiderio? Facciamo una statistica e vedremo chi vive più di razionalità e chi più di istinto. Le cose di maggiore importanza, quelle vitali, sono fatte per istinto. Le spinte accumulate devono uscire: in Weidt è probabile che abbia funzionato questo. Un'altra possibilità che abbiamo per trovare una risposta è di analizzare la sua vita precedente la scelta. Certo è che ci sono svariate circostanze in cui si compiono scelte istintivamente giuste ma razionalmente errate. D'altronde se uno non fa, non saprà mai come potrebbe essere. È importante sentire in sé la priorità di che cosa si vuole intraprendere. Occorre lanciarsi: meglio fare che non fare. Darsi alla droga è un fare sbagliatissimo (è sempre opportuno bilanciare le proprie scelte con la mente), tuttavia nella creatività, così come nei rapporti umani, si deve osare. È ovvio che, in quest'ultimo caso, non bisogna ferire gli altri ed è necessario essere costantemente pronti a trovare soluzioni per i momenti di crisi.

Del resto l'uomo è un animale socievole.

Esatto. Persino i batteri sono socievoli: vivono in gruppi!

C'è una cosa che non ha ancora fatto e che vorrebbe fare?

Vladimir Derevianko e Viviana Durante.

© Foto Alessio Buccafusca

Esistono cose non fatte e che non farò mai, non perché le ho rifiutate: perché proprio non c'erano possibilità. Vorrei indagare il nuovo pur rimanendo nell'ambito dell'arte e della danza, dato che è lì che mi sento vivo e realizzato ed è lì che sono quel che sono. Mi piace ad esempio molto il cinema, però è tardi per lanciarmi in questo campo. Dedicarsi a tutto è un'idea utopica, ma fai finché riesci, fino all'ultimo respiro! Ora il mio compito è di dirigere il MaggioDanza per tre anni: dopo il triennio mi aprirò a nuove possibilità. Desidero dare ed evolvermi intellettualmente. Ci sono cose intellettuali per ora irraggiungibili: i miei miti letterari, musicali, filosofici nei quali mi intingo e che sono i miei maestri, i miei riferimenti forti! Non ci tengo a sembrare un pazzo, ma il mio punto d'arrivo – un traguardo che desidero fortemente raggiungere – è comunicare attraverso la danza il mio concetto filosofico più profondo. Vale la pena di vivere per questo. Voglio non essere recepito piattamente in quanto ho appena annunciato. Un discorso filosofico filtrato e proposto attraverso la danza lo affronterò con la collaborazione di coreografi, perché la mia ambizione non è certo quella di realizzare qualcosa di banale: se ciò che creerò sarà intelligibile, allora l'opera avrà il diritto di esistere. È questo che mi tiene in vita.

Vladimir Il'ič, siamo giunti alla fine di una lunga, affascinante, intensa conversazione. Per la generosità con la quale si è porto, sento di doverLa ringraziare dal profondo. Parlare con Lei è indubitabilmente uno dei più rari privilegi.

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