Intervista a Menotti Lerro: editoria e poesia
3 luglio 2006
Dottor Lerro, i lettori sono curiosi
di sapere come si lavora in una grande casa editrice come la Mondadori. Li può
soddisfare?
Lavorare nella Mondadori significa imparare come viene fuori
un libro, come viene immesso sul mercato, quanto lavoro di terzi si cela dietro
il lancio di un autore e tanto altro. Credo che questa casa editrice sia
davvero una grandissima azienda, impreziosita dal lavoro di molte persone
capaci e diligenti.
Che cosa pensa dell’editoria in generale?
Bisogna capire che oggi la poesia e il romanzo sono caduti
letteralmente in disgrazia. La televisione assorbe il tempo libero di quasi
tutta la popolazione e pochissimo spazio è concesso ai libri, soprattutto a
quelli meno fruibili come i testi letterari in versi. Se facessimo una
proporzione con il passato, soprattutto tenendo conto dell’incremento
esponenziale dei tassi di alfabetizzazione, direi che vi è un calo verticale
gigantesco delle letture rispetto, ad esempio, all’Ottocento. Per quanto
riguarda poi gli autori, i giovani in particolare, direi che il loro lancio sul
mercato incontra innumerevoli difficoltà poiché i sistemi dell’editoria moderna
sono incentrati sul solo guadagno e spesso gli editori, non potendo competere con
le grandi case editrici, sono costretti a vivere di espedienti. Ora, pur
volendo capire le loro necessità, devo dire che i metodi di tante piccole case
editrici sono francamente inaccettabili: chiedono soldi o di acquistare copie e
poi non fanno nemmeno circolare le poche copie che stampano e che non danno
all’autore. A volte il libro pubblicato non riceve nessuna recensione grazie al
lavoro della casa editrice, poiché la casa editrice non si impegna per lanciare
quel libro. Non inviano fax ai giornali tramite gli addetti stampa, né fanno
partecipare il testo ai premi letterari.
Tutto questo, chiaramente, fa emergere uno scenario
inquietante e fa capire quali possono essere le difficoltà per un giovane che
ipotizziamo essere bravo e che inoltre ha sborsato fior di quattrini per vedere
pubblicato il suo lavoro. La verità è che oggi è quasi impossibile pubblicare
un libro se non a pagamento. Non si investe, dunque, sulla qualità e questo
anche perché molto spesso i redattori stessi delle case editrici non hanno la
conoscenza letteraria adeguata per riconoscere lo spessore di un testo inviato
da un ipotetico genio letterario giovane e sconosciuto e comunque seppur ci si
accorgesse della grandezza di un giovane autore ci si renderebbe conto che
difficilmente i suoi testi avrebbero mercato (specie i testi poetici).
Il dramma degli scrittori sarà sempre questo: la mancanza di
onestà intellettuale, di preparazione, in altre parole di competenze specifiche
letterarie di chi dovrebbe riconoscere la grandezza artistica di questo libro
anziché quest’altro da lanciare sul mercato. Per tale ragione, se si continua,
come credo si continuerà, per questa strada si avranno sempre libri mediocri
che vincono premi letterari prestigiosi e autori geniali che marciscono
nell’oblio. Credo che l’editoria moderna stia mettendo in atto un vero e
proprio olocausto letterario poiché non vi è meritocrazia, ma questo non è solo
il problema dell’editoria bensì della società e dell’uomo in genere.
Come è giunto alla Mondadori?
Credo
che fu grazie ad una serie di coincidenze, come avviene spesso. Mi trovai a
Milano, mi proposi per questa casa editrice in un momento opportuno e mi
diedero questa chance.
Secondo Lei quali sono le doti che deve possedere un
traduttore?
Deve essere soprattutto un artista a sua volta. Questo
perché il testo che uscirà fuori dopo la traduzione di un libro sarà – per così
dire – un libro completamente diverso dall’originale. Chiaramente intendo non
dal punto di vista dei contenuti ma del linguaggio. Quindi sarà fondamentale
saper ricreare determinate atmosfere, situazioni, sensazioni, tenendo conto che
lo si farà in una lingua diversa, quindi con altre regole, altre assonanze e
suoni tra le parole. Sì, colui che riscrive il testo mediante una traduzione
deve essere consapevole che sta scrivendo un altro libro, sebbene i contenuti,
le immagini, sono tutti già stabiliti…
Restiamo in tema di traduzione. È noto che è meno difficoltoso
tradurre la prosa che la poesia. Che cosa ne pensa?
Credo sia vero. La poesia ha in sé spesso un’ambiguità e una
complessità nei contenuti e nella forma difficilmente traducibili. Ricordiamo
poi che la poesia si gioca sulle rime, le assonanze, le figure retoriche. Tutti
elementi difficilissimi da rendere simili in un’altra lingua considerando che
non si deve cambiare il senso e le parole dal testo originale da cui si
traduce. Ma la traduzione permette a chi non conosce la lingua di base di un
determinato autore, di accostarsi comunque ai contenuti e dunque alle
"verità" e genialità artistiche dell'autore medesimo e dunque
l’importanza delle traduzioni è enorme. Pensi a quanta gente non avrebbe mai
letto Shakespeare o Miguel De Cervantes, tanto per citarne due dal valore
indiscusso.
Lei predilige la prosa o la poesia?
Io amo la letteratura tout
court. Ho forse una lieve predilezione per i testi letterari in versi, ma
sono solito intendere "poesia" un testo talmente bello da essere
"poesia". Credo, infatti, che "poesia" sia in realtà un
giudizio critico e dunque potrebbe esserlo anche un testo in prosa. Oggi
comunque si parla anche molto di poesia prosastica e di prosa poetica…
Se dovesse dare una definizione di poesia, che cosa direbbe?
Come si può definire qualcosa che per definizione è
indefinito? Volendo comunque avventurarmi in tale definizione direi che è
poesia quel testo che riesce a creare attraverso i suoi significanti quel
significato di valore universale, dove la bellezza può essere data da
molteplici fattori interni al testo e ai riferimenti esterni. Credo che un
sinonimo di grandezza sia dato dall’ambiguità, dove più alta sarà l’ambiguità
più alta sarà la temperatura del testo poetico. La grande poesia nasce,
inoltre, dalla sottrazione, non dal dire ma dal tacere. Interessante pensare
che la poesia non può essere riassunta: non riassume poiché è essa stessa
riassunto, quintessenza; Deriva dall’essenziale, dal prosciugamento. Infine,
vorrei aggiungere che a mio avviso il fine supremo dell’arte (e dunque della
poesia) è quello di insegnare e quindi l’arte suprema ‑ la poesia ‑
è anche quella che riesce a dare quante più soluzioni possibili ad un dato
problema.
So che ha pubblicato saggi sulla poesia. Ce ne può parlare?
In Passi di Libertà Silenzione, il mio secondo libro, ho dedicato qualche
pagina alla poesia da un punto di vista teorico dove essenzialmente dico ciò
che ho affermato nella domanda precedente; inoltre sto curando i percorsi
poetici di vari autori contemporanei miei conterranei attraverso gli annali cilentani editi dal Centro
promozione culturale per il Cilento, rivista diretta da Piero Cantalupo e
Luigi Rossi.
Ed ora Le proporrei di condurci nel mondo della poesia
inglese. La Sua tesi di laurea ha affrontato il rapporto tra T. S. Eliot e
Montale. Ce ne può parlare?
Thomas Stern Eliot ed Eugenio Montale sono i simboli del 900
italiano ed europeo. Il primo rappresenta l’essenza del modernismo, il secondo
l’essenza del modernismo italiano. Nella mia tesi ho messo in evidenza la
relazione stretta che c’è tra questi due autori poiché è chiaro che Montale fu
influenzato palesemente da Thomas Eliot grazie soprattutto al lavoro di un
professore italiano che insegnava in Inghilterra in quegli anni come Mario Praz il quale mostrò il lavoro di Eliot fresco di stampa a
Montale. È anche vero comunque che il germe modernista era già in possesso di
Montale poiché sue poesie, scritte prima di leggere Eliot, andavano già in
quella direzione.
Il correlativo oggettivo ripreso da Montale ad esempio è –
per così dire – estrapolato dal lavoro di Eliot (nonostante a darne una prima
definizione non fu neppure Eliot). Ad ogni modo la critica ha voluto spesso
giocare sul discorso legato all’influenza del poeta inglese su quello italiano,
ma io credo che sia in realtà molto marginale nel giudicare la grandezza
poetica di Eliot e soprattutto del grande imputato, Montale. I due vanno
giudicati per altro e soprattutto perché sono stati due magnifici interpreti
del sentimento e del paesaggio fisico del loro tempo. Hanno portato, insieme ad
altri autori, come ad esempio Ezra Pound, innovazioni determinanti in poesia come il verso
libero, la frantumazione metrica creando, anche da un punto di vista della
forma artistica, quell’aridità e secchezza che determineranno lo scenario
fisico di secchezza e aridità che caratterizzerà il dopoguerra.
Con loro sparisce il poeta vate, che crede di sapere e di
essere in grado di dare risposte ai piccoli grandi quesiti dell’umanità.
Concetti ottimamente espressi in “Non chiederci la parola” da Montale dove
tutto ciò che i poeti sentono di poter dire a coloro che vorrebbero una qualche
risposta è: ciò che non sono e ciò che non vogliono. Con Eliot e Montale
cadranno tutte le certezza e la realtà non potrà più essere colta se non
tramite frammenti. Le strade dell’impersonalità nell’arte, la necessità di
un’arte che si stacchi dalla vita dell’autore (cara ai romantici) sono ormai
impossibili da non percorrere e non a caso tutta la critica novecentesca sarà
improntata su tale necessità. Ricordiamo, a questo proposito, autori come
Thomas Mann, Benedetto Croce, Flaubert, Dostojevski,
James, Yeats, tanto per citarne alcuni.
Quali altre presenze inglesi in Montale ritiene siano degne di
nota?
Credo che Thomas Stern Eliot basti e avanzi come presenza
inglese. Montale ha tanto di suo…!
Che cosa pensa dell'interpretazione della Waste
Land da parte di Giorgio Albertazzi?
Emozionante.
William Butler Yeats è il poeta di
cui si sta occupando in questo momento. Che cosa la lega, per così dire, a
questo grande?
Lo amo come poeta e sono affascinato dalla sua vita. Inoltre
mi attrae come soggetto di studio il genere autobiografico e William Butler Yeats ha scritto un testo molto rilevante in questo
campo: Autobiographies. È un testo di rottura
rispetto al passato e soprattutto rispetto alle autobiografie vittoriane dove
per esempio si concepiva il ruolo della memoria come mero strumento registrativo e dove l’autore arrivava a scusarsi quando non
riusciva a ricordare con precisione i fatti passati. Con Yeats (e James) ‑
in linea con le nuove idee moderniste ‑ tutto cambia e la memoria ricopre
un ruolo diverso. Con Yeats l’auto-bio-grafo non vuole essere lo storico di se
stesso, vuole essere libero da qualsiasi condizionamento. Non esiste più una
verità oggettiva legata agli eventi passati, ma si ripercorrono le immagini dei
ricordi partendo dal momento in cui si scrive, consci che quei fatti ora
rivissuti’ di altro non vissero che di luce riflessa: di quella del mondo,
degli altri che diedero ad esse un qualche, da noi allora dato, senso.
Il mio studio si incentra su questo o meglio si incentrerà
poiché ad ottobre svolgerò questa ricerca presso l’Università di Reading in Inghilterra grazie ad una borsa di studio che mi
è stata concessa dall’Università degli studi di Salerno.