La lingua del Belpaese in Canada
Una, nessuna, centomila
La sopravvivenza dell'italiano nella parlata dei giovani
oriundi si gioca in famiglia, a scuola e nella società. L'esperienza di una
donna, giornalista e scrittrice.
Montreal
Oggi l'italiano è una grande componente della mia vita
quotidiana. Ma non è sempre stato così. Oggi parlo l'italiano con i miei figli.
È una scelta importante, alla quale tengo molto, ma non è una cosa naturale: mi
sembra di nuotare controcorrente. Capisco perché molti genitori della mia
generazione, figli di italiani che sono cresciuti in Canada parlando un
dialetto o un italiano non perfetto, preferiscono seguire la corrente,
esprimendosi in francese o in inglese con i loro figli.
Dopotutto, bisogna ricordare che il nostro lavoro e la
nostra vita sociale - come pure quella dei nostri figli - per la maggior parte
si svolgono in una o nell'altra delle due lingue ufficiali. La mia generazione
è cresciuta tra il tira e molla delle culture e delle lingue: l'inglese o il
francese a scuola e sulla strada, l'italiano o il dialetto a casa. Quando ci
pensate, non è stata una cosa facile per i figli degli immigrati che non
avevano un legame diretto con l'Italia. Si sono sentiti forse tra qui e là, e
hanno voluto scegliere, quando sono diventati genitori a loro volta, di seguire
la strada corrente: la strada più facile.
Felicemente, però, ho notato negli ultimi dieci anni che il
numero di "giovani" che vanno controcorrente va aumentando sempre di
più. Ho parlato con diverse persone della mia età. Ci sono due modi di pensare
e di procedere: nel primo ci sono quelli che hanno rinunciato. Avendo parlato
loro stessi una lingua diversa dall'italiano, o avendo parlato un dialetto,
vogliono accertarsi che i loro figli siano integrati, usando soltanto una
lingua principale o tutte e due. "Perché stressare i nostri figli, la
scuola è già molto impegnativa - dicono questi miei coetanei -. Si
confonderanno con tante lingue, meglio parlarne una sola e bene". Ma
quello che ho constatato durante i miei anni come insegnante, ed ora come
direttrice di una rivista, è che quando la nostra società, o la nostra
comunità, producono persone che parlano una sola lingua, spesso anche quella
non è parlata perfettamente, per non dire addirittura che è parlata poco bene.
Le ricerche fatte dalla dottoressa Laura Ann Petitto, inizialmente
all'Università McGill di Montréal ed ora negli Stati Uniti, confermano che un
bambino che impara due o più lingue prima dell'età di sette anni non sarà
confuso, ma invece riuscirà a parlare le lingue senza accento. Poi ci sono
quelli che hanno sempre amato l'italiano e l'Italia (anche alcuni che non sono
d'origine italiana). E ci sono quelli che provano una vera rinascita, un
ritorno verso la lingua madre: la lingua dei loro genitori o dei loro nonni.
Talvolta questo ritorno è dovuto proprio al fatto che ora sono diventati
genitori loro stessi. O vogliono trasmettere la cultura e la lingua d'origine
ai loro figli, o lo fanno perché i nonni e i figli possano comunicare.
Tante lingue, un'identità evoluta
Ho notato anche un ritorno verso il nome originale per
riflettere la lingua madre: anni fa, fuori casa, Maria diventava subito Mary;
Antonio mutava in Tony, Massimiliano cambiava in Max, Carmela in Carmie, Nicola
in Nick. Questo non soltanto per rendere più facile la vita ai non italiani che
non pronunciavano bene, ma anche per integrarsi più facilmente con l'ambiente
anglofono; per staccarsi dalle origini italiane. Ora sento sempre di più
l'orgoglio dei figli di italiani che si chiamano - e vogliono essere chiamati
dai loro colleghi - correggendoli continuamente quando c'è un errore: Riccardo
e non Rick, Vincenzo e non Vince, Marco invece di Mark, Elisabetta e non Liz,
Aurelio, Pellegrino, Elvira, Matilde, Gian Carlo, ecc.
Ammetto che mi esprimo meglio e con più facilità in inglese,
cioè mi sento più a mio agio in questa lingua che ho imparato a sei anni, dopo
il francese, ma prima dell'italiano. Non c'è dubbio, molte lingue hanno
contribuito all'evoluzione della mia identità culturale. La persona che sono
oggi è la somma totale delle lingue (e delle culture) che mi hanno influenzato:
ossia, in ordine cronologico, il cavarzerano, il francese, l'inglese,
l'italiano, il tedesco, lo spagnolo. E sì, la lingua italiana è quarta in
ordine cronologico. Sono nata a Cavarzere (in provincia di Venezia) dove tutti
parlavano el cavarzeran ; è seguito poi uno sradicamento a quattro anni, e un
periodo nel quale i miei genitori parlavano il dialetto per mantenere il nucleo
familiare e un legame di tipo protettivo con il loro paesetto d'origine. Nei
primi anni a Montréal ero circondata da amici di famiglia, pochi, ma quasi
tutti di Cavarzere o dintorni.
Alla scuola Marie Clarac ho imparato il francese. Ma la mia
istruzione è avvenuta in maggioranza in inglese. Al CEGEP e all'Università
tentai di portare avanti l'inglese e il francese. Non è una contraddizione che
abbia studiato il francese all'Università McGill, e scritto una tesi di
dottorato in inglese all'Università di Montréal. Nel mio lavoro e nella mia
vita quotidiana, ora l'inglese e l'italiano predominano.
All'inizio ho imparato l'italiano parlando, leggendo,
scrivendo. Alcuni anni fa ho seguito dei corsi di lingua su Internet.
Ma è proprio quando sono diventata mamma che mi sono dedicata a trovare libri
in italiano per poterlo insegnare ai miei figli. Leggendo ai miei bimbi, ho
imparato e continuo ad imparare tuttora. Quando i bimbi sono piccoli è molto
più semplice, assorbono come spugne tutto ciò che sentono. Ma come sapete,
quando crescono hanno le loro opinioni e contestano. Non è una cosa facile.
Quando escono di casa e vedono che fuori si parla francese e inglese, chiedono:
"Perché noi parliamo l'italiano?". La domanda torna sempre, anche se
accettano la spiegazione: i nonni parlano l'italiano, mamma è nata in Italia, e
quando andremo in Italia capirai quello che dicono i cugini, gli zii, ecc.
Ora che Liana e Dario vanno a scuola, quarta e seconda
elementare rispettivamente, noto che parlano inglese tra di loro. Li sento
parlare, giocare, cantare in inglese, e quando vengono da me per chiedermi
qualcosa lo fanno spontaneamente in inglese:
Liana:
"Mom, can we have the cake for dessert tonight?".
"Non ho capito", le rispondo.
E allora traduce istantaneamente: "Possiamo mangiare la
torta stasera?". Dopo il mio "sì" corre dal fratello e sento una
voce felicissima: "We're going to eat the cake tonight". Seguito da
strilli di felicità.
Ma la loro gioia è interrotta dal mio: "Parlate
italiano" e rispondono in coro: "Sì, mamma".
Parlano in italiano alcuni minuti, poi si dimenticano e
tornano all'inglese. Eppure l'italiano è la prima lingua che hanno imparato. A
Decio, che ha 3 anni, parlano in italiano perché pensano che il fratellino non
capisca altre lingue. Invece capisce, non solo, ma ripete le parole in francese
e in inglese che sente da altri. So che non appena uscirà dal nucleo familiare,
anche lui si volgerà all'inglese o al francese. Non possiamo seguirli ogni
momento del giorno, ma bisogna sempre guidarli, farli tornare all'italiano. Non
è cosa facile, anzi sarebbe più facile lasciarli parlare inglese.
Il rischio dell'oblio
La realtà è che la maggioranza dei miei coetanei si trova in
nuclei di lavoro e sociali dove
l'italiano non è presente. E i loro figli, una volta fuori casa e
occupati dalla scuola e da altre
attività, vedendo meno spesso i nonni che gli parlano in italiano, alla
fine lasceranno perdere questa lingua.
Si spera di no, ma da quello che ho notato è così. Molti genitori mandano a
scuola d'italiano i figli il sabato
mattina. È una buona cosa, ma da quello che sento, i figli lo vedono come un sacrificio, un'altra cosa che sono
obbligati a fare. In alcune scuole, come Pierre de Coubertin, a St. Leonard, l'italiano è integrato al programma e
gli studenti lo studiano tre volte la
settimana. E io ne sono grata, perché è proprio quando i miei figli
vedono che anche i loro compagni lo
studiano - e che parlandolo già a casa loro si trovano in vantaggio - che
smettono di contestare.
Per poter avere una nuova generazione che parla l'italiano,
bisogna integrarlo nella vita quotidiana: il sabato mattina secondo me non è
sufficiente. Bisogna trovare la maniera di aiutare i genitori che vogliono
continuare a promuovere la lingua delle loro origini. Bisogna far sì che
l'andare controcorrente si manifesti alla lunga. Ad esempio, una scuola dove
l'insegnamento fosse fatto in italiano dalla prima alla undicesima, con corsi
di lingua francese e inglese, ma in cui tutte le materie fossero insegnate in
italiano. Come voi sapete, molti dei miei coetanei mandano i figli in scuole
private francesi per dar loro un vantaggio, dato che siamo in Québec, ma a casa
parlano l'inglese. Sono sicura che una scuola privata di lingua italiana
attirerebbe molti.
Mi direte, forse, che voi siete circondati da persone che
parlano italiano, che i vostri figli lo
parlano pure, ecc. Ed io vi dico che siete un nucleo ristretto,
privilegiato sì, ma non la maggioranza.
Quelli che hanno scelto di andare controcorrente sono pochi, e non è così
scontato che lo faranno anche i loro
figli. Per quelli che hanno scelto la strada più facile, non è troppo tardi per riprenderli. La sfida è per quelli
che ricoprono una posizione tale per cui possono convincerli.
Per gentile concessione de Il Messaggero.
N. 1081, gennaio 2006
http://www.santantonio.org/messaggero_emi/pagina_articolo.asp?R=Societ%E0&ID=585