L’inglese. Lezioni semiserie di Beppe Severgnini

Milano, Rizzoli, 1990

L'inglese è un libro che, come Severgnini stesso ebbe a dichiarare in un’intervista rilasciata ad un periodico inglese, ha il suo punto di forza nell’umorismo con cui viene presentata la fruizione della lingua inglese da parte, non solo ma soprattutto, degli italiani. È infatti proprio l’umorismo (“il mio grimaldello”, lo chia­ma l’Autore) che fa di questo libro non un pedante manuale ma una sfida ad accostarsi alla lingua inglese con curiosità e con fantasia. Sfida che porterà ad una sicura vittoria se il libro in questione farà nascere nel lettore il desiderio di “saperne di più”, permettendogli anche, in tal modo, di attenuare quel senso di frustrazio­ne che spesso coglie di fronte a manuali fitti di sofisticate rego­le grammaticali e di lunghi e noiosi esercizi.

Per sostenere la propria convinzione Severgnini porta a conoscen­za il caso di un amico che si è costruito un originale metodo di autoinsegnamento grazie alla passione per la musica rock. Egli è giunto cioè a puntualizzare una “basic grammar” dove a grado a grado hanno trovato la loro collocazione modi e tempi verbali, preposizioni, lessico, frasi fatte. L’Autore stesso, per dare una mano a chi ha voglia di affrontare con cognitio causae gli inglesi bri­tannico e americano, si avvale di aneddoti assai gustosi, di tito­li di film, di “situational dialogues” che gli danno il destro di insegnare un frasario e le regole grammaticali di base.

In apertura abbiamo parlato di umorismo come punto di forza di quest’opera. Continuandone la lettura veniamo a scoprire un’altra valenza di cui tale umorismo si arricchisce: “ridendo castigat mores”. Degno di menzione ci pare il brano dove l'autore svela la leggerezza degli italiani che ritengono di saper parlare un inglese corretto, prendendo in esame il testo in­glese della campagna promossa dalla presidenza del Consiglio dei Ministri nell’estate del 1990 per convincere gli extracomunitari clandestini a regolarizzare la loro posizione. In 29 righe sono riscontrabili 11 errori e 14 inesattezze. Una vera e propria “sagra dell’errore”, a spiegare la quale Severgnini elenca una serie di ragioni. Una di esse è che il testo sia forse non l'opera di “un traduttore allegro che riesce a campare solo grazie ai favori di un politico”, ma direttamente quella del politico, “convinto che la lingua inglese sia come la legge italiana, che si può manipolare all'occorrenza.”

Il libro in esame rappresenta dunque per gli italiani anche un’occasione di riflettere sul loro pressapochismo. Ma Severgnini non si ferma qui. Con la sua consueta vivezza pone in rilievo il fatto che agli italiani piace esprimersi con un profluvio di parole; e, non sapendo sbarazzarsi di questa forma mentis, non sono certo aiutati a costrui­re uno stile inglese garbato, eufemistico, essenziale. Un solo esempio. Alla domanda “How are you?” (“Come stai?”), non è necessario rispondere lanciandosi nell’esposizione appassionata e particolareggiata dei propri problemi di salute, ma e sufficiente un laconico “Very well thank you” (“Molto bene grazie”) se si sta discretamente e “Not too bad” (“Non troppo bene”) anche se si è in punto di morte, come spiega – divertito e divertente – l’Autore.

Questo volume ci pare un valido sussidio per gli insegnanti di lin­gua inglese, che potranno vivacizzare il loro metodo conducendo gli studenti nell’affascinante campo delle interferenze tra lingua madre e lingua straniera.

È ben vero che Severgnini non desidera che il suo umorismo sia fine a se stesso: egli lo usa come mezzo, si è detto. Tuttavia il volume potreb­be essere accolto da una fascia di lettori che non ha e che non vuo­le avere nulla a che fare con la lingua inglese. Tale fascia si troverà di fronte un’opera godibile, confezionata con uno stile frizzante che non presenta mai cedimenti, con un umorismo corposo ma misurato, con una scaltrita e dinamica concatenazione delle frasi. Anche solo di un simile riscontro un autore non dovrebbe essere deluso se è vero che, come è stato detto, uno scrittore non sa mai per chi lavora e i suoi libri – una volta emancipati da lui – possono anche porgere un messaggio che egli non aveva previsto.