Carolyn Carlson tra Underwood e Blue Lady

È difficile parlare di questa grande coreografa e ballerina della danza moderna soprattutto perché ella non usa parole. I suoi balletti non sono narrativi: sono l’astrazione in cui a fatica ci si muove per apprendere. Tuttavia bisogna tentare se si vuole ricevere. Tentare perché vale la pena. Il premio è grande, infatti, per chi annaspa nell’esigenza di trovare l’illusione del ventre di una natura ancora intatta e protettrice.

Carolyn Carlson consegna fragile nelle nostre mani il ricordo della natura che ha conosciuto e che è la tela dei suoi quadri, l’ingrediente ineliminabile – cioè – della sua arte. Mi riferisco, in particolare, a Underwood e a Blue Lady, due balletti tra i più significativi. Vorrei qui spendere qualche parola su questi lavori, in maniera un po’ particolare: concedendomi, cioè, il lusso di lasciarmi trasportare dall’onda della “parsimoniosa” poesia carlsoniana.

Si accennava prima ad una poesia fatta del ricordo. Ricordi slegati come tasselli dai bordi consunti: i pezzi che non combaciano più; ma proprio per questo forieri di poesia. La poesia che nasce dall'indefinito come ci ha grandemente insegnato Leopardi. Quadretti di famiglia e flash di un'America lontana, fatta di granai e corse verso il cielo della vastità (Underwood). Oppure reminiscenze della propria vita interiore, filtrate attraverso i ritmi di una natura che sembra proporre inesplicabili gestualità, inesplicabili riti, astrazioni di canti (Blue Lady). Ma per penetrare le cerimonie sacrali di questa madre inesauribile, infinita, per violare i segreti del kràal, la Carlson ha ricreato la dimensione dell’amore e del dolore come unica dialettica attraverso cui è possibile recuperare quel che siamo stati e seguire i fili dell’essere per giungere ad un futuro di gabbiano. Meta ardita, questa, che confina con il sogno. Il ricordo si perde nel sogno e il sogno si riaggancia alla realtà del ricordo per poter essere. E nelle plaghe oniriche dei balletti di Carolyn Carlson il ricordo doloroso perde il tramite del déjà vécu e diventa autocontrollo estremo. Tanto che Carolyn non permette né a se stessa né agli altri suoi ballerini di spalancare ognuno il proprio corpo e di gridare il movimento, di sciogliersi. Catherine Richet ha detto di lei: “È profondamente chiusa nel suo mistero. Una persona inaccessibile. Per me in un certo modo è una persona fredda. Ma per freddo non intendo senza fede, senza credenze, senza evasione. Però tutto ciò è completamente concentrato, come accumulato. Non si abbandona mai. Si trattiene. Conserva il completo dominio di se stessa. Rimane al di qua piuttosto che al di là.” E ancora: “Suppongo che quando ella vive un’emozione attraverso i suoi balletti, anche quelli che lei interpreta, invece di liberarla, l’emozione, la vive. Questo è tutto. Sta allo spettatore cercarsela. Lei non fa regali. Lo spettatore si prende quello che cerca.”

Ancora tanto ci sarebbe da raccontare su Carolyn Carlson. Iniziando questi miei pensieri ho detto che è difficile parlare di lei perché non usa parole, e ora termino affermando che non si finirebbe mai. È così, in effetti, perché i suoi gesti “muti” sono eloquentissimi, la sua non narratività colma di premesse, conseguenze, conclusioni. La Carlson crea un totale che sembra respingere i non iniziati. Ma per chi avverte come inderogabile l’iniziazione, non ha che da accostarsi alla sua danza in una “tensione senza intenzione”, per citare Herrigel (ovvero il Maestro zen). Da lasciarsi cioè andare alle suggestioni immergendosi in quel totale che la Carlson ha creato. Capirà allora come una folgorazione che il suo “inesplicabile” linguaggio non è che l’inesplicabile io e che proprio per questo gli appartiene così profondamente.