Longanesi & C., 1992
Quanto
segue è rivolto esclusivamente agli appassionati profani di musica classica. Un
amante della lettura incontra sempre, lungo il percorso, qualche libro che lo
colpisce in modo particolare, che lo coinvolge (quando non lo sconvolge).
Naturalmente la causa di tale commozione non risiede solo in ciò che si legge;
vi sono concause che possono variare di volta in volta; il nostro stato
d'animo, il rapporto che in quel momento abbiamo con noi stessi e con gli
altri, l'atmosfera in cui ci sentiamo immersi e sommersi.
Momento magico, dunque, che può scaturire da un romanzo il
cui autore sia riuscito a creare personaggi a tutto tondo che vibrino
all'unisono con noi, o a comporre atmosfere che ci facciano rivivere momenti di
struggente malinconia, di drammi devastanti, di gioie ineffabili. In parallelo
alla narrativa esistono altri tipi di letture che esulano, diciamo così, dal
soggettivo, anche se per capire, per penetrare la lettura dobbiamo sempre interiorizzarla,
quindi presentarci inermi ad essa.
Queste letture di cui dirò tendono a proiettarci
nell'oggettivo, più specificatamente nel politico-sociale, cioè a dire tendono
a metterci in contatto con realtà che non richiedono il ripiegarci su noi stessi,
il far riemergere i nostri ricordi.
Mi riferisco a validi saggi, a biografie e ad autobiografie
di personaggi di grande stazza morale e intellettuale, alle varie "storie
di…". Anche, e per taluni in misura maggiore, da queste letture si possono
trarre suggestioni di grande incisività (positive o negative); esse ci possono
aprire orizzonti impensati, se non impensabili; offrirci quindi ricco materiale
di riflessione.
Appartiene a questa categoria l'opera di Norman Lebrecht, Il mito del Maestro. I Grandi Direttori
d'Orchestra e la loro lotta per il potere, Milano, Longanesi & C., 1992.
In quarta di copertina della stessa possiamo leggere:
"Dove sono finiti i grandi direttori d'orchestra? In questa storia
penetrante e provocatoria si dimostra come e perché la smania di potere e il
culto delle apparenze abbiano condotto la figura del «Maestro» alle soglie del
rischio d'estinzione."
È chiaro che in questa breve nota non si esaurisce la
critica al complesso lavoro di Norman Lebrecht, dove vengono presi in esame e
sviscerati incredibili intrecci di interessi tra case discografiche, orchestre
famose sia europee sia d'oltreoceano, agenti, il tutto frammisto a mosse
politiche (termine che si deve prendere anche nel senso più usato) che fa da
tessuto connettivo.
In questo labirinto di intrighi, sotterranei e non, si
muovono da protagonisti o, quantomeno, da coprotagonisti, i direttori
d'orchestra, validi e meno validi. Ma non si deve pensare che il nostro Autore
abbia voluto, con la sua opera, denunciare un malcostume e basta; egli si muove
in questo irto ambito culturale con grande maestria che gli viene da una
profonda conoscenza della materia musicale e della professione di direttore
d'orchestra.
Direttore d'orchestra. Sono convinta che molti di coloro che
amano la musica classica si sono chiesti almeno una volta: Chi è questo
personaggio così a sé, il quale ha in pugno gli orchestrali, gente cioè che sa
destreggiarsi in un campo ignoto o ostico ai più; cioè una realtà codificata da
piccoli strani segni posti su righe o tra righe?
Ci fu un periodo, ricordo, durante il quale mi chiedevo che
cosa ci sta a fare il direttore d'orchestra. Interrogativo che non durò troppo
a lungo, per fortuna. Abituata, forse per un orgoglio male inteso, che si può
anche definire individualismo massiccio, inattaccabile, a voler trovare da me
le risposte a domande che reputo troppo stupide per sottoporle ad esperti, mi
acquietai spiegandomi che il direttore è necessario per far entrare a tempo
debito, dando loro brio o togliendone, fiati, percussioni, archi. Mi acquietai
ho detto, ma subito un desiderio iniziò a titillarmi: udire suonare
un'orchestra senza direzione; ma potrei notare la diversità
"con-senza", priva di un confronto immediato dello stesso pezzo?
Desiderio e dubbio destinati a rimanere tali per sempre.
Tuttavia la lettura di questo interessante lavoro ha aperto
qualche piccolissimo squarcio nella bruma. Da uno dei capitoli si evince che,
per la loro inettitudine, alcuni direttori d'orchestra sarebbe meglio non
mettessero mai piede su un podio. Quando, per sordidi interessi (la solfa in
questo caso è identica a quella che vige in ogni altro campo), ciò avviene, gli
orchestrali cercano di cavarsela da soli facendo capo, di solito, al primo
violino.
Che dire però dei grandi? Non si può spiegare ciò che fa di
un direttore d'orchestra un grande direttore d'orchestra. Si tratta di qualcosa
di impalpabile, d'indefinibile che emana dalla sua persona; un qualcosa subito
captato appena egli mette piede sul podio da coloro che dovranno ubbidire ai
suoi gesti, composti o agitati o danzanti; quel qualcosa insomma capace di
avvincerli, di convincerli. Denso mistero dunque, per un profano, quest'uomo
generalmente in frac, così come è mistero la musica, felice connubio tra
scienza ed estro artistico. Ed ecco una considerazione che fa da corollario:
nessuna opera d'arte è tanto soggetta ad arbitri quanto la composizione
musicale.
Sappiamo come la sensibilità, se non addirittura lo stato
d'animo del momento dell'esecutore solista, del direttore d'orchestra nel
nostro caso, possa influire sul pezzo eseguito.
Un quadro, un'opera architettonica, una statua, una poesia
devono invece soggiacere solo al gusto del fruitore, senza intermediari, cioè
(anche se per la poesia ci può essere tra essa e noi un dicitore direi che ciò
è ininfluente: le metafore, le immagini incisive, la musicalità rimangono le
stesse). Queste ultime opere d'arte si presentano a noi genuinamente nude.
Milioni e milioni di persone potranno guardare (ascoltare se si tratta di
poesia recitata) con ammirazione, con indifferenza, con disgusto, con
perplessità, ma il rapporto tra opera, tra creatore quindi, e fruitore, è
libero da ogni manipolazione più o meno voluta.
Ecco allora ‑ trattandosi di musica ‑ la domanda
destabilizzante: che cosa stiamo esattamente ascoltando noi, lontani nel tempo
dal compositore?
Bene, ora mi riallaccerò alle battute d'apertura di questo
scritto; ossia, la scoperta di realtà impensate se non impensabili in certe
letture. E la realtà scoperta nel lavoro di Lebrecht è come un direttore
d'orchestra (un artista) possa essere tanto alleato della propria fisicità,
della propria ambizione da diventare un arrivista privo di scrupoli che non
esita ad eliminare ogni ostacolo che lo divide dalle sue mire.
Con questo io non intendo dire che credessi all'esistenza di
artisti validi che si accontentano di campare la vita usufruendo dello stretto
necessario pur di nutrire la propria arte in piena libertà; sarebbe un
anacronismo con tutti gli stimoli esterni del mondo dei consumi, o forse non
sono mai esistiti come categoria: questa è divisa da anacoreta che, per puro
caso, potrebbe essere anche artista. Ma lo scoprire come un direttore
d'orchestra (un artista) miri innanzitutto al potere e alla ricchezza come un
qualsiasi comune mortale è stato per me un impatto. Nonostante tutta la mia
buona volontà non riesco a conciliare il dono tormentoso (più tormento che
gioia alla fine) che prende un artista, che lo fa irrimediabilmente prigioniero
offrendogli la contropartita di un nutrimento che non elimina quello del corpo
ma gli toglie la priorità.
Per concludere vorrei riportare alcuni passi del libro quale
pezza giustificativa a quanto fin qui asserito. Spero tanto di non generare gli
equivoci propri delle estrapolazioni, del tipo del luterano "Pecca
fortiter sed crede fortius", che tanto fece discutere protestanti e
cattolici, gli uni contro gli altri, e forse ancora li fa discutere.
"Riccardo Muti e Claudio Abbado hanno guidato la corsa
allo sfruttamento delle necessità disperate della Sony a caccia di grossi nomi
per la sua etichetta e hanno alzato i loro contratti con le case rivali."
(pag. 9)
"Il «grande direttore d'orchestra» è un eroe mitico,
creato artificialmente per uno scopo che non ha nulla a che vedere con la
musica e sostenuto dalle necessità commerciali. «La direzione, come attività a
tempo pieno, è una invenzione sociologica e non artistica, del ventesimo
secolo», ha riconosciuto Daniel Barenboim, un membro eminente della categoria.
«Non esiste una professione dove non si può accedere con più facilità», scrisse
l'acuto e tollerante violinista Carl Flesch. Il direttore esiste perché
l'umanità chiede un «capo» visibile o almeno una figura-guida identificabile.
La sua raison d'être è del tutto
secondaria rispetto a questa funzione." (pagg. 13-14)
"L'establishment britannico che trascura i compositori
ha accordato titoli a innumerevoli direttori: Oxford assegnò una laurea honoris causa a Karajan senza che
egli avesse dato un contributo culturale rilevante. Bernstein, che ben poco fece
per la Francia, fu insignito della prestigiosa Legion d'Onore. Lorin Maazel, un
musicista tutt'altro che diplomatico, fu nominato «ambasciatore di buon
volontà» dal Segretario Generale dell'ONU. Riccardo Muti divenne «Ambasciatore
dell'Alto Commissariato per i Profughi» senza aver mai visto in tutta la vita
la recinzione esterna di un campo profughi." (pag. 16)
La professione del direttore d'orchestra nacque a metà
dell'Ottocento "quando i compositori rinunciarono a dirigere le loro opere
troppo complesse perché le orchestre le eseguissero senza una guida. Il
direttore emergente, liberatosi dal dominio psicologico del compositore,
affermò il proprio ruolo dapprima come personaggio cittadino, quindi nazionale
e finalmente internazionale, in armonia con lo spirito dell'epoca
moderna." (pag. 20)
"I dischi e i film hanno dato al direttore una
celebrità mondiale e l'investitura della grandezza. Il concetto del Grande
Direttore è una favola inventata per la conservazione dell'attività musicale in
un'epoca in cui vi sono molte e diverse offerte per il tempo libero."
(pag. 20)
"La divinizzazione di Toscanini fu invenzione
americana, adatta ad una Nazione con aspirazioni su scala mondiale, mezzi di
comunicazione monolitici che si basavano su certezze elementari e una fede
monoteista in singoli idoli […] regnava la convinzione che la musica avesse
bisogno di un intermediario divino per poter raggiungere un mercato di massa.
Il totem doveva essere qualcosa di più di un musicista in frac. Idealmente
doveva essere un interprete sulla scena dei grandi avvenimenti mondiali,
un'icona ideologica, un difensore della democrazia e al contempo un uomo con il
quale poteva identificarsi l'americano medio, un patriarca in pantofole che
guardava il pugilato alla televisione e giocava a mosca cieca in giardino con i
nipotini. Toscanini assecondò entrambi gli aspetti del mito e finì per
credervi. […] evitava gli aspetti pratici del management e delegava la
realizzazione dei suoi desideri ad un gruppo di lacchè terrorizzati. […] aiutato
da sofisticate tecniche pubblicitarie, proiettava se stesso quale
personificazione della perfezione, unico arbitro del gusto musicale e della
rettitudine. Solo lui sapeva interpretare le note nel modo corretto, solo lui
poteva stabilire quale grande musica contasse per il pubblico consumo. Nessuno
osava dire che le note suonate da lui erano sbagliate […]." (pagg.
106-107)
"A scuola imparò che la ferocia bestiale e la dedizione
alla musica erano elementi inseparabili." (pag. 109)
"[Toscanini] decise di tornare alla Scala… alle sue
condizioni: niente bis, niente applausi e costruzione di un vero golfo mistico.
Furono affissi manifesti per comunicare che «per ragioni d'ordine e di
continuità artistica» la direzione aveva deciso di «raccomandare al direttore d'orchestra
di non concedere bis». La facilità con cui Toscanini accoglieva le
«raccomandazioni» risultò evidente alla fine della seconda stagione quando
rifiutò di eseguire due brani di un compianto professore di musica milanese a
un concerto commemorativo. Non soltanto boicottò l'avvenimento ma fece causa al
consiglio d'amministrazione scaligero che si era permesso di intromettersi
nella sua giurisdizione artistica." (pag. 112)
"Persino Beethoven era soggetto ai suoi interventi: le
parti dei timpani e degli ottoni erano ampliate nel vivace movimento iniziale
dell'Ottava e, per contro, ridotte nel finale della Nona. Aveva l'abitudine di
introdurre altri strumenti nei passi più importanti per mettere in risalto
l'impatto della sua orchestra ed elettrizzare il pubblico. Beethoven era sordo,
diceva, e non poteva sapere quali suoni doveva avere la sua musica.
Evidentemente un dualismo schizoide operava nella mente di Toscanini. Mentre
sosteneva la santità inviolabile del testo, si arrogava, quale sommo sacerdote e
rappresentante del creatore, il diritto assoluto alla revisione." (pag.
117)
"Per [Toscanini] la gloria rappresentava la strada
verso il potere, e il potere era il mezzo per cui brutalmente ricavava il suono
che voleva, portando la musica a diventare una forza commerciale e politica.
Insegnò ai direttori che la loro influenza non doveva essere circoscritta
necessariamente al podio. Per quanto non fosse corrotto personalmente, espose
la musica al più spietato sfruttamento da parte di successori che non erano
dotati dei suoi principi etici." (pag. 148)
"A Vienna Maazel aveva mano libera dalla Decca e
negoziava i propri accordi: era capace di discutere per metà della notte su un
mezzo punto di percentuale." (pag. 303)
"Abbado finì per perdere la pazienza nel 1986 e la
Scala lo rimpiazzò con Riccardo Muti, il suo giurato nemico." (pag. 322)
Celibidache "detesta i dischi come surrogati osceni;
arrivò a dire che, ascoltandoli, è come andare a letto non con Brigitte Bardot
ma con una sua fotografia. I nastri pirati dei suoi concerti spuntano prezzi da
mercato nero e la loro scarsità ha contribuito a renderlo ancora più celebre,
soprattutto negli Stati Uniti, dove si è esibito fino al 1983. L'avvento del
video gli fece cambiare atteggiamento. Celibidache ha filmato la Quarta
Sinfonia di Bruckner su laser disc, a patto che non fosse realizzato a parte un
disco esclusivamente audio. Questa bizzarra distinzione ha compromesso la sua
posizione precedente: se un disco è un ben misero surrogato rispetto
all'emozione e alle alte frequenze di un'esecuzione dal vivo, allora il video è
infinitamente peggio, con l'illuminazione artificiale, le angolazioni distorte
e la concentrazione implacabile sui movimenti del direttore. Celibidache non si
scompone più di tanto. Disprezza i dischi, a quanto sembra, non per la loro
qualità di surrogati ma perché lasciano in ombra la muta personalità del
direttore d'orchestra… e lui non vuole restare anonimo." (pag. 342)
Riccardo Chailly "era manager di se stesso. A porte
chiuse si batteva con accanimento per i suoi diritti e i suoi compensi. […] [Si
insediò] al Comunale di Bologna dove mirava ad offuscare il nemico tribale
Riccardo Muti […]." (pagg. 420-421)
"Wilford diventò sempre più forte in Europa, con grande
preoccupazione degli agenti indigeni. Imparò molto presto ad ammanigliarsi, e
apprese il tedesco quanto bastava per trattare con i senatori di Berlino nel
tentativo di risolvere a suo vantaggio la successione di Karajan. Ma il suo
piano saltò quando una fazione anti-Karajan all'interno della Filarmonica venne
a sapere che una loro visita in programma a Taiwan era stata annullata e
sostituita da una della CAMI in Giappone a causa delle richieste esorbitanti
avanzate per conto di Karajan. Un telex segreto […] [ne] rivelava le
condizioni: […] 600.000 marchi per due concerti ed esigeva che dieci dei suoi
film venissero trasmessi dalla televisione di Taiwan con un ulteriore costo di
200.000 sterline… oltre ai biglietti aerei in prima classe per sei persone.
Dato che la Filarmonica di Berlino avrebbe provveduto a noleggiare un volo
charter, i biglietti sarebbero finiti nelle tasche senza fondo del Maestro.
Scoppiò una tempesta politica intorno all'Orchestra che costava ai contribuenti
cittadini 19 milioni di marchi all'anno e che, come adesso si scopriva, era
gestita in nome dei propri interessi privati da un direttore egocentrico e dai
suoi agenti americani." (pag. 454)
Alle pagine 464 e 466 propone delle Tavole esaustive che
riportano i compensi percepiti dai direttori d'orchestra a partire dal 1905
fino al 1981 (Tavola 1); mentre nella Tavola 2 c'è un confronto assai
interessante: "Salario medio settimanale di un operaio dell'industria
americana" e "Compenso medio di un direttore d'orchestra per
concerto".
Riporterò solo due annate che danno l'esatta misura della
sproporzione sia tra le due tariffe, sia dell'aumento avvenuto negli ultimi
decenni:
|
1910
|
1990
|
Operaio a settimana
|
$ 9.74
|
$ 400.33
|
Direttore d'orchestra a concerto
|
$ 100
|
$ 18-20000
|
Le ultime pagine di questo libro sono dedicate alle cifre
riguardanti la crisi economica delle Orchestre dovute, almeno in gran parte, ai
direttori superpagati rispetto agli orchestrali pagati sempre meno. Segue tutta
una serie di stipendi e di compensi la cui diversità è incredibile.
"Più i Maestri diventavano ricchi e più si distaccavano
dagli strumentisti e dalle orchestre." (pag. 468) Con queste parole il
nostro Autore si avvia a concludere la sua opera; e in tale conclusione
dimostra come nel campo da lui trattato la smania di potere non vada necessariamente
a braccetto con la smania di far soldi: si può infatti rincorrere il potere pur
non rincorrendo la ricchezza. È "il direttore d'orchestra dell'era
post-Karajan [invece ad essere] fatto di stoffa ben più ricca [di quella dei
suoi predecessori]. Ha due o tre case, guida una Rolls-Royce rossa o una
Lamborghini, fa collezione di opere di Henry Moore ed è ben informato su tutti
i metodi di elusione fiscale. […] Gli ambienti frequentati dai direttori
d'orchestra [iniziando da Karajan] sono cambiati con lo sviluppo della loro
condizione sociale. […] Dato che guadagna quanto un consigliere delegato
dell'IBM, ha interessi in comune con i petrolieri, gli agenti di cambio e gli
specialisti di diritto societario." (pag. 470)
"Quanti lamentano la mancanza di spiritualità nelle
esecuzioni moderne dovrebbero chiedersi che cosa pensano i direttori
d'orchestra nella maggior parte del tempo." (pag. 471)
"Il primo violino, come le prime parti delle varie
sezioni, potrebbe impadronirsi delle prerogative dell'interpretazione, una
possibilità delineata dal fenomeno della musica antica, mentre il manager
orchestrale o il sovrintendente si occuperanno della programmazione e del
personale. Tutto ciò potrebbe ridurre il ruolo del direttore di passaggio ad un
livello poco superiore a quello di un tecnico che agita la bacchetta per
ottenere l'uniformità nelle opere su vasta scala in cui i professori
d'orchestra non possono sentirsi e vedersi l'un l'altro." (pag. 473)