Cuore di cuoio di Cosimo Argentina

Sironi Editore, 2004

Possono esistere vari motivi che ci spingono a leggere un libro: esso ci è stato consigliato caldamente da una persona che stimiamo; ce lo ha regalato un tizio, accidenti a lui!, che può permettersi di chiedercene conto; la sfera mediatica ha battuto la grancassa in suo favore; ci incuriosisce il fatto di aver rinvenuto il volume, incuneatosi a nostra insaputa e che oramai non ricordavamo più di possedere, tra la parete e il dorso della libreria di casa; ha un titolo intrigante; lo ha scritto un tale di cui già leggemmo qualcosa che ci piacque... Di motivi ce ne possono essere anche altri, ma naturalmente quello che basta da solo è l'amore per la lettura. Tuttavia questo amore, per profondo che sia, non è mai onnicomprensivo: ciascuno ha le sue predilezioni. Bene, nemmeno io leggo in modo indiscriminato e, per non sprecare energie, tempo fa confezionai una formuletta come grossolano spartiacque, tanto per cominciare, e che fa da mio parametro personale: costui/costei sa scrivere. È un distinguo utilissimo che mi dà subito la possibilità di decidere: leggerò questo libro, non leggerò questo libro. La lettura di due o tre facciate è bussola idonea per orientarci in un senso o nell'altro.

Cuore di cuoio l'ho letto tutto. Ciò va inteso in senso assoluto anche se esiste una piccola riserva. Difatti ne ho tralasciato alcuni paragrafi, quelli cioè dove vengono descritti maltrattamenti, crudeltà episodiche, torture verso gli animali. La violenza, ogni tipo di violenza, mi sconvolge, soprattutto quando è consumata a danno di innocenti. E dove sta un essere più innocente di un animale ‑ dal moscerino alla balena ‑ che agisce seguendo meccanicamente i suoi istinti i quali non si è certo cucito addosso da sé?

Per quanto riguarda il libro in questione ho usato il climax ascendente, mantenendomi sulle generali, poiché, avendo saltato i paragrafi, secondo me incriminabili, non saprei quali di questi tre sostantivi dovrebbe essere usato nel caso specifico.

Torniamo alla mia forse peregrina affermazione sull'innocenza degli animali: credo di non essere lontana dal vero figurandomi la faccia di eventuali lettori o ascoltatori alterata in modo assai evidente da una di queste tre espressioni (o magari da un amalgama che ne vede impegnate due o tutte). Esse sono derisione, sconcerto, disapprovazione schifata; il tutto, forse, con la colonna sonora di un convinto e accalorato: "Ma che c'entra? Non si può parlare di innocenza riferendosi alle bestie: è un offendere la dignità dell'uomo in quanto essere dotato di intelligenza e di ragione." Chi poi considera la vita alla luce dei riflettori fideistici aggiunge il "suo" assiomatico: "Le bestie sono state create per essere poste al servizio dell'uomo." Dopo di che il coro misto riprende compatto:"Questa è la realtà e bisogna accettarla così come si presenta. Che bisogno c'è di avvelenarci con tante domande inutili?"

D'accordo, realtà ineluttabile in cui siamo immersi e da cui siamo sommersi; condanna senza possibilità di appello. Io però una domandina continuo a pormela mio malgrado: Tra i servizi che le bestie sono obbligate a prestarci, c'è anche quello di mezzo di sfogo degli istinti sadici di alcuni di noi?

Fine del pistolotto e ripresa dell'argomento principale. Ripresa che inizia con un'ipotetica domanda legittima e con relativa mia risposta. "Come si può incriminare uno scritto senza averlo letto?" "Molto semplice: basta scorrere un paio di righe per capire dove l'autore andrà a parare. Dopo di che si passa al paragrafo seguente, e all'altro ancora se la descrizione viene protratta. C'è sempre una parola chiave che salta all'occhio e che fa da guida per avvertire che non è ancora tempo di abbassare la guardia."

Il giochetto di saltare i paragrafi "scottanti" l'ho sempre fatto a mia memoria con ogni autore eccelso o meno eccelso, e continuerò a farlo considerandolo legittima difesa... anche se sono edotta del fatto che lo struzzo è ritenuto sprovveduto disprezzabile vigliacco.

Questa mia posizione tuttavia non deve trarre in inganno. Assicuro che riesco sempre a mantenermi obiettiva ‑ non certo con serena noncuranza, confesso ‑ nel senso che pongo rigidi paletti tra l'uomo e l'artista. Un uomo, nelle vesti d'artista, quando lo è veramente, è altri da sé.

Prova della mia obiettività è che l'argomento trattato da Argentina rappresenta quanto di più lontano si possa immaginare dai miei interessi.

Uno scrittore ha sempre un suo modo di proporsi al pubblico: tacere o sottintendere, in modo più o meno velato, il volgare, il brutale, l'erotismo compiaciuto; adottare la tattica del dire quello e tacere questo con intento consolatorio; oppure scrivere dalla a alla zeta, senza velami, tutto quanto accade in questo strano mondo che fa da palcoscenico all'uomo sempre nel ruolo di primo attore. Per quanto riguarda il modo, dunque, prescindendo dal contenuto che va considerato a parte, ogni scelta è rispettabile come lo è il fatto di condividerla o meno. In Cuore di cuoio l'autore ha optato per il nudo e crudo, senza mezzi termini, mantenendosi fedele a tale scelta dal principio alla fine. Serietà dunque, supportata dalla profonda conoscenza dell'argomento prescelto: il mondo del calcio.

Le nozioni tecniche e le notizie di cronaca che riguardano tale sport fluiscono dalla penna di Argentina con grande disinvoltura in modo che i personaggi ne risultano sbalzati, dai calciatori, alle tifoserie, agli allenatori e a quanti altri che, con il pallone, abbiano a che fare attivamente. Si può pensare che l'argomento abbia già insita garanzia di successo. Quale ragazzo che legga questo libro non si immedesimerà in Krol facendone un modello, un idolo? Può essere, ma è altrettanto vero che, senza la perizia del suo autore, l'opera non andrebbe molto lontano.

Abbiamo visto che uno scrittore sceglie parole e frasi con le quali comunicare accadimenti, stati d'animo, pensieri e così via; ma ciò non basta: l'assemblaggio deve essere poi veicolato dalla pagina scritta al fruitore mediante un ponte. Argentina ha scelto quello che va sotto il nome dell'io narrante. Modo questo di comunicare che, talvolta, cattura chi legge in maniera maggiore che non quello dello scrittore onnisciente.

Camillo Marlo è un protagonista solido; egli, per forza di cose, è sempre in scena e in primo piano, mantenendosi in tale posizione senza forzature. Figura a tutto tondo quindi, molto bene accompagnata dai "compari" coprotagonisti che riescono sempre ad emergere, ben definiti in tale ruolo, al punto che quasi non si può immaginare Krol senza di essi. Anche se il loro spessore psicologico non è corposo come quello del narratore, pure sono figure caratterizzate da peculiarità salienti. Una di esse è la lealtà, collante prezioso che tiene uniti gli uni agli altri; ma anche un'innocua amoralità li unisce; quell'amoralità che permette di ricorrere a sotterfugi, astuzie, bugie che permettono di defilarsi davanti ai propri doveri o a nascondere marachelle. Il tutto comunque non sorpassa mai un certo limite poiché in ciascuno di essi un innato sano senso della famiglia fa da freno. Famiglie della cui compagine si sentono parte integrante, le quali si indovinano alle loro spalle; al massimo si intravedono più che vedersi; esclusa quella di Marlo, ben concreta.

C'è ancora una scelta che deve compiere lo scrittore che si accinge a produrre: puntare prevalentemente sui dialoghi tra i personaggi o dare maggior spazio alla descrizione di sentimenti, atmosfere, luoghi, sensazioni?

Argentina riserva buono spazio ai dialoghi che fa svelti, lineari, senza intenti dialettici, proprio come si addice ai personaggi che li sostengono, al gruppo di questi adolescenti non ancora battezzato da incisive esperienze che possono affinare capacità speculative. Ragazzi ancora tutti totalmente immersi nel presente, da cui si lasciano fagocitare, tesi come sono a scoprire quello che il mondo è pronto a dare ‑ anzi, è tenuto a dare ‑ e non ancora interessati ad ipotecare il futuro con progetti definiti.

Abbiamo detto che l'autore di Cuore di cuoio riserva buono spazio ai dialoghi non certo a detrimento delle descrizioni che incontriamo snelle e puntuali in modo da raggiungere quell'equilibrio che fa della narrativa qualcosa di godibile. Il tutto è poi condito da un misurato e piacevole senso dell'umorismo. Gli sfottò, i paragoni, i doppi sensi, gli insulti bonari, gli intercalari quasi sempre molto sboccati (il linguaggio scurrile fa parte della scelta espressiva dell'autore), interrotti di tanto in tanto dalle uscite eleganti, dal parlare forbito del "saputo Panzerotto", il colto della compagnia, formano un mondo compatto che conferisce patina di verosimiglianza all'utopico "uno per tutti e tutti per uno", bandiera e forza coesiva di questa decina di "ragazzini [...] tutti fatti di lingua". "[Essi] Sono assurdi, sfegatati, monomaniaci, duri, grandiosi" (Giulio Mozzi).

Si è parlato di umorismo che serpeggia durante tutto il libro. Facciamo qualche esempio: "Carlomagno doveva spararsi un altro paio di guerre piuttosto di mettersi in testa 'sta storia della scuola." È il lamento di Krol nel cui cervello non c'è il benché minimo spazio che non sia per una sfera di cuoio ed uno stadio con la dovuta, colorata turbolenta scenografia. Troviamo anche il povero Leopardi ridotto a Jack Leopard e a The Gob, mentre al Pascoli si accolla una cavallina storpia.

Qui Argentina dimostra una buona conoscenza degli studenti: è di tutti il desiderio di dissacrazione, sia che amino sia che non amino... Carlomagno. Che dire poi della povera insegnante Nanettabella? Si potrebbe continuare.

Purtroppo, come sta scritto nelle ferree leggi che regolano le cose terrene, anche la storia del nostro protagonista finisce. Ma si sa: la linea che congiunge l'alfa e l'omega di ciascun individuo non è né piana né retta: essa presenta continui ostacoli da superare e svolte obbligate. La vita bastona sempre e ogni volta ne usciamo meno agguerriti, più vulnerabili, più pavidi. E più frastornati, quando siamo costretti a constatare che abbiamo superato una svolta senza ritorno.

Per il povero Krol il primo impatto lacerante con la realtà è la caduta rovinosa dall'alto di un sogno ardito che pure fu lì lì per realizzarsi: entrare nella Juventus. E noi assistiamo partecipi alla patente caduta e morte del SOGNO, di quella chimera che Marlo stesso ci aveva invitato a condividere nei suoi "Sogni ultrà" uno, due e tre.

Oramai il ginocchio è andato. È facile immaginare come il poveretto si trovi in preda a disperazione, rabbia, amarezza. "Verrà un'altra occasione," lo rincuora frettolosamente mister Cavallo, e poi sparisce." Non "se ne va" o "esce", ma sparisce: verbo che inchioda, che sembra risucchiare e distruggere ogni speranza di rinascita. Ciononostante il ragazzo spera ancora. E chi non nutre fino al tragicomico questa dea? A maggior ragione lo può fare un sedicenne. Ma tra un fiotto di speranza e l'altro s'insinua il fatto che egli sa "di un casino di cristiani che, per i legamenti, hanno lasciato il pallone e qualcuno è rimasto pure zoppo."

Nel frattempo intorno a lui si salda un anello d'amore, d'affetto. Persino il padre-padrone, "che con gli altri è sempre gentile", "quasi quasi" l'abbraccia; esce dal suo carapace, s'intenerisce e, con scarne parole, dimostra che a questo figlio lui ha sempre voluto bene; mentre la madre, tenera e complice, colma d'amore come tutte le madri, ma succuba del suo uomo, intensifica il significato della sua presenza. Ci sono i "compari" che non l'abbandonano; infine c'è Twente che da questo momento assumerà un ruolo assai importante. Ella l'accompagna a vedere giocare gli altri, gli telefona premurosa, sopporta il suo umore nero; in poche parole si annulla per lui. Ci troviamo di fronte ad un ragazzo che ha svoltato l'angolo per la prima volta. Quella che fino a pochissimo tempo prima era stata la cosa più importante della sua vita incomincia a sfaldarsi fino a che gli cadrà ai piedi come una pelle di muta. Senza rendersi conto che il gesto verrà a suggellare il cambiamento, sacrifica il suo pallone-icona ritagliandone un cuore intorno al sacro autografo di Erasmo Jacovone (Jacogol) per regalarlo alla ragazza che lo ama. Nel contempo farà una scoperta importante: si accorgerà che il pallone e gli amici vengono dopo l'amore che rimane il perno incontrastato intorno al quale ruota la vita.

"Indicativo presente" è il titolo della collana che ospita Cuore di cuoio. Indicativo = modo della realtà; presente = tempo attuale. Significativo. Argentina infatti si cala d'autorità nel mondo adolescenziale, si può dire dei nostri giorni, anche se sono passati vari anni; mondo dove premono curiosità, pulsioni, fermenti, che sono gli stigmi che ci si aspetta di trovare. Non vicinissimo a, ma nemmeno lontanissimo da questo particolare territorio, si ha l'impressione (forse per la consapevolezza che nessuno scrittore è immune dall'autobiografismo) che Argentina abbia vissuto direttamente le vicende che narra, quanto meno che altri sotto i suoi occhi lo abbia fatto. È come che il ricordo di quel vissuto, ammiccanti complici l'allora con l'adesso, susciti una catena di immagini limpide, coinvolgenti, ricreando il clima di una irreversibile primavera.

Tale completa adesione fa sì che, in quest'opera, la cultura di vita prevalga su quella libresca.

Veniamo ora all'uso che Argentina fa del dialetto tarantino. Già si vede questa commistione in Gadda e in Camilleri, aggiungerei anche Stefano D'Arrigo, pure se forse l'uso della lingua frammista al vernacolo nel suo Horcynus Orca è così audacemente innovativo da farne un caso sui generis. Ecco, a differenza di costoro, il nostro autore risulta meno intelligibile perché per il vernacolo si prende uno spazio così grande da costringere la comprensione in un ambito notevolmente inferiore all'angolo giro. In più "il dialetto di tutti" convive con "il gergo dei ragazzini" (Giulio Mozzi).

A questo punto è d'obbligo una precisazione. Personalmente non ho proprio nulla contro i dialetti, considerato poi che in Italia non si può parlare di dialetti regionali o provinciali, ma si deve tener conto che ogni comune ne ha uno proprio il quale si differenzia, sia pure per una sola vocale in alcune parole, da quello del comune confinante. Di dialetti ne ho sentiti moltissimi, subendo di ciascuno il fascino e ritengo che tutti possiedano una loro dignità; la dignità conseguente all'importanza di un genuino mezzo di comunicazione interpersonale. Assistiamo in questi ultimi anni ad una rivisitazione, più che ad una rivalutazione, dei dialetti; ciò purtroppo è il segnale, su cui non possiamo equivocare, che essi ormai sono sulla via inarrestabile dell'estinzione.

Per chiarire ulteriormente il mio rapporto con i dialetti, dirò che io stessa conosco così a fondo quello di un comune della Bassa bresciana che ho potuto portare a termine, su di esso, uno studio talmente articolato che mi vide impegnata per oltre un ventennio. Per tornare ad Argentina, appunto per la varietà di dialetti di cui ho detto sopra, non si può negare che un milanese è impossibilitato ad intendersi con un napoletano se entrambi non ricorrono alla lingua nazionale. E così dalle Alpi alla Sicilia.

Forse questa considerazione scaturisce dalla mia fiducia cieca nel valore universale della scrittura (narrativa, poesia, saggio), perciò ritengo che ogni scrittore (e Argentina lo è), nel momento stesso in cui decide di darsi allo scrivere, si vincoli con doveri precisi verso il prossimo, in primis quello di farsi capire, non tanto rifuggendo dal concettoso, dall'avanguardistico, quanto facendo uso di un linguaggio che qualsiasi connazionale possa intendere. Un'opinione, del resto, che cade davanti al riconoscimento del diritto alla libera scelta.

Così come libera scelta è anche l'uso che Argentina fa della grafia "c'ho", "c'hanno" e via coniugando, dando alla "c'", di volta in volta valore di avverbio di luogo (ridondante) o di pronome personale complemento. In lui troviamo addirittura un "sedic'anni" che ci lascia perplessi.

Già nel secondo dopoguerra alcuni autori usano "ci" come avverbio di luogo nella forma ridondate per avvicinarsi di più, in un contesto di democrazia emergente, al parlato quotidiano dell'uomo della strada, onde acculturarlo; a quell'uomo che fa da base anonima alla Storia. Oggi si va oltre eliminando la "i" senza preamboli per sostituirla con l'apostrofo. Lo ascoltiamo anche dai nostri presentatori televisivi, del resto; senonché l'orale ha sullo scritto il vantaggio del sonoro. Io odo "ciò", "ciai", eccetera, mentre leggo "cò", "cai" eccetera. Una discrepanza che può (o deve ormai) essere vanificata dalla prassi del parlato la quale porta automaticamente a trasformare l'apostrofo in"i"? In effetti non viene difficile farlo perché il ragionamento richiede tempo mentre l'empirismo cammina più sveltamente.

Per la mia piena adesione al pensiero dei puristi (se si vuole diciamo pure retrogrado conservatorismo in questo campo), davanti a siffatte forme mi viene da arricciare il naso. D'accordo, sono pronta ad ammettere che le regole ortografiche, grammaticali e sintattiche sulle quali si basa una lingua sono convenzioni; d'altro canto indispensabili per poter comunicare, non tanto tra connazionali che si capirebbero anche senza l'uso corretto delle parti del discorso, ma tra popoli diversi, proprio perché tali convenzioni sono ben ordinate in dizionari e grammatiche, unici mezzi per studiare gli uni la lingua degli altri, visto il fallimento dell'esperanto.

Ci sono coloro che sostengono che la lingua è un bene mobile (povero Basilio Puoti, chissà che scricchiolamento di ossa a furia di girarsi e rigirarsi nella tomba!) e ricorrono al grande tra i grandi per formulare una domanda retorica, la quale, secondo loro, è risolutiva data la risposta scontata: "Potremmo oggigiorno servirci della lingua usata da Dante?" A mia volta rispondo con un'altra domanda pur sapendo che questo non è il modo per dirimere una controversia: "Previa l'indispensabile aggiunta dei numerosissimi neologismi e italianizzando il più possibile i termini stranieri (soprattutto inglesi), sull'esempio della Francia che francesizza molto, perché no?"