Ognuno è solo,
memorie d’anteguerra

pubblicato a cura dell'Autrice

Da Nonna Cristina. 1

Da Boassì 2

Da Il Fontanone dei Romani 2

Da La maestra Barera. 3

Da Nonna Cristina

[…]

Ciuffetti di trifoglio ladino e acetosella, soffici come vello di pecora; pratoline e primule delicate come piccole macchie di luce tenue e soffusa; profusione di mammole dalla ricca gamma che va dal bianco al gridellino al viola intenso, e tanti altri fiorellini, ma nessuno mai eguaglierà il fascino che su di me esercitavano le violette. Ne coglievo tanti piccoli mazzi che ponevo in ogni recipiente atto a contenere acqua, disponendoli con gran cura e velleità artistiche.

Tutto questo a primavera; ma pur essendo un suolo sassoso che non poteva mantenere a lungo i suoi umori, anche fino ad estate inoltrata la dea Terra versava qui la sua cornucopia per non lasciare sguernito il mio eden. Al rincorrersi dei giorni si rincorrevano le fioriture: raperonzoli con le inclinate campanelline petulanti, fiori raggiati di radicchio celeste porcellana, argenteo assenzio che confonde l'amaro profumo con l'aroma acuto di mentastro e con quello più delicato del timo, e cardi selvatici dalla morbida nappa di seta paonazza e achillea e scabbiosa e lacrimonia… Il tutto in un turbinìo rovente di api e bombici, di calabroni e cetonie dorate, di fluttuanti farfalle.

Talvolta capitava di trovare fiori spezzati, quasi appassiti, allora mi affrettavo a raccoglierli per infilarli nel mio mazzetto di mammole, mentre quelli privi di stelo furtivamente portavo fino alla roggia ove li lasciavo cadere turbata. Ne seguivo il galleggiare sconvolto giù giù fino a che la brusca biforcazione regolata dalle chiaviche me li toglieva alla vista.

Ma la casa della nonna non era solo questo, ovviamente. Quante cose scoprii, amai, animai non so se per naturale inclinazione o per la mancanza di coetanei con cui dividere le mie giornate.

Nell'orto cresceva un vecchio melo dal tronco tormentato da nodi e da piccole cavità, perennemente infestato da bruchi e formiche. Tuttavia, imperterrito e generoso non si smentiva mai nell'offrire i suoi frutti abbondanti ma incredibilmente piccoli, asprigni e di una tinta pistacchio anche quando erano perfettamente maturi. Li chiamavano pomellini di san Pietro, forse perché maturavano prima di tutte le altre qualità di mele.

[…]

Da Boassì

[…] il velo, la nebbia sempre vedevo frapposti fra me e gli altri: uno schermo crudele con il chiaro compito di precludere ogni comunicabilità. Si usavano le stesse parole eppure il dialogo non riusciva ad avviarsi, a snodarsi […]

Io e gli altri e in mezzo un fiume non guadabile e privo di un natante qualsiasi che possa trasportare dall'una all'altra sponda. Inoltre la corrente è vorace: attira nel suo gorgo ogni parola che tenti di sorvolarla per giungere alla riva opposta. […]

Da Il Fontanone dei Romani

Per questi momenti drammatici avevo scovato un rifugio che racchiudeva l'essenza della bellezza e il fascino dell'inesplorato: il Fontanone dei Romani. Sul lato est della casa, al di là di un piccolo spazio nel quale smoriva la carrereccia, era un boschetto di acacie che, al tempo della fioritura, si copriva di bianchi grappoli dal penetrante profumo un po' dolciastro, in mezzo a cui gran varietà d'insetti ronzava in armonia derivante dalla certezza di cibo sufficiente per tutti. Il sottobosco riusciva quasi sempre a mantenere un po' di verde anche quando intorno imperversava la siccità. Un verde giallastro, magari, ma macchiato, di stagione in stagione, dalle tinte dei fiori tipici di questi terreni: dal colchico alla speronella, dal muscaro al rosolaccio, dal convolvolo al fiordaliso.

Nell'afa meridiana o del primo pomeriggio il calore del sole arrivava smorzato nel boschetto, ed il silenzio calava, siesta d'uomini, come per dar modo alla natura di far udire le sue mille voci: ronzìi, fruscìi, frinire di cicale, note melodiose d'usignolo, cucùu—cu gravi e un po' tristi di tortorelle. Anche ragli abbai muggiti, in quell'ora speciale ,perdevano ogni loro potere di richiamo alla civiltà, tornando ad essere voci d'un mondo arcaico abitato esclusivamente da creature selvagge.

Appena possibile mi sdraiavo sotto le acacie, paga e serena. Con l'acre odore di terra calda assorbivo un insieme di sottilissime sensazioni che tutte si raggrumavano nella speranza, nella certezza anzi, che domani sarei uscita incontro ad un mondo che mi spalancava le sue braccia, tutto gioia e bontà. Ero certa dell'esistenza di questo mondo, si trattava solo di scovare la chiave per aprirmi la via. E tale chiave stava nascosta al di là della mia miseria e della mia ignoranza.

Giocavo con le nubi quando le intravvedevo tra gli arabeschi delle foglie capricciose che mi sovrastavano, così come avevo già giocato con piccioni e rondini: traendone auspici.

Un sentierucolo rettilineo divideva il boschetto nel senso della lunghezza; in fondo, dopo una curva appena accennata, esso precipitava ripido per un paio di metri, immettendo direttamente nel Fontanone. Tutto qui era meraviglioso e inaspettato. Mi ci accostavo sempre con un vago timore perché i miei mi avevano messo in guardia contro le vipere; ma nonostante fossi molto rispettosa degli ordini non potevo resistere al richiamo di quel luogo. Al lato del breve passaggio, quasi un salto, crescevano due enormi querce sempre infestate da file interminabili di processionarie, una di qua una di là. Varcata questa soglia solo fiabe, una più bella dell'altra, autogenerantisi a salire in volute di vapori dalle tinte pastello, in fumi odorosi d'essenze in cui mi ammantavo, regina. Sempre comunque legata con un filo, un cordone ombelicale, alle bellezze reali che mi circondavano. Materia malleabile questa, e indispensabile. Io nella fiaba. Io nel reale. Due mondi facilmente cumulabili.

L'acqua del fossato, nei punti più alti, mi arrivava al polpaccio. Vi entravo sempre con emozione. Essa lambiva delicatamente la fine del sentierucolo in una tenue bàttima quasi inavvertibile. Limpidissima lasciava intravvedere i ciottoli del fondo perfettamente levigati e dalle tinte straordinarie: verdi, turchini, rosa, perlacei. Per le prime volte raccoglievo gioiosamente quelli più appariscenti, ma appena asciutti essi perdevano i loro colori brillanti diventando malinconicamente opachi. Lo sentii come una cocente delusione e smisi quel gioco senza tuttavia rassegnarmi del tutto; perciò presi ad osservarli a lungo, china, lasciandoli sott'acqua, le cui tenere increspature piacevolmente li deformavano facendomeli parere vivi.

Questo non era tutto. Di tanto in tanto guizzavano velocissimi, attraverso le mie gambe, persino solleticandomi, minuscoli pesciolini dal corpo trasparente bruno chiaro. Avrei voluto in loro un'intelligenza impossibile. Perché non si lasciavano accarezzare?

A poco più d'un centinaio di metri a nord s'allargava il letto fino a morire nel placido semicerchio della sua sorgente. La luce qui penetrava più facile e viva illuminando, tra la svariata vegetazione delle prode, trattenuta in uno stretto abbraccio dai tentacoli nervosi di luppolo e di vitalba, una ricca minifauna che scappava frenetica allo sciabondio dei mio lento procedere.

Tra tutto m'intenerivo sulle chiocciolette dalla conchiglia giallo vivo con minute strie a spirale brune e azzurrognole. Se ne stavano tenacemente aggrappate a steli di polmonaria o, composizione fantastica, ad un frutto luminoso d'alchechengi, in fiduciosa attesa della notte.

Poi, a pochi centimetri dai pelo dell'acqua, gli effimeri arabeschi iridati delle libellule avvincenti, in voli che parevano soltanto giocosi. Esse, con leggiadria distaccata, scrivevano la parola fine al mio viaggio fiabesco.

Oltre il semicerchio della sorgente la scarpata ampia, iene portava direttamente sulla strada che io e la mamma abbandonavamo per svoltare a destra, ad ogni nostro arrivo, una cinquantina di metri prima.

Ora dovevo ritornare.

Ma non salivo mai sulla strada preferendo sempre rifare la via dell'andata. Alla fine, risalendo tra le querce (ve n'erano molte altre più a valle, oltre le due guardiane), a stagione, raccoglievo sempre una manciata di ghiande. Mi piaceva a non finire la loro forma snella, il ciotolino ligneo che le teneva alla base. Ostinatamente mi cimentavo nella masticazione dei loro cotiledoni che dovevo sputare subito perché amarissime. Tutte le volte così, senza varianti, senza premi alle mie speranze.

Da La maestra Barera

 […]

Oh, quanto l'amavo la scuola! come mezzo per appagare la mia sete di sapere che pareva crescere ogni giorno in senso geometrico, innanzitutto; ma l'amavo anche nella sua materialità, con le sue aule belle o brutte, vecchie o nuove, soleggiate o meno, sempre avvolte nel graveolente odore peculiare di ogni aula scolastica, tagliuzzato dalle acri esalazione di creolina. Soprattutto aule riscaldate d'inverno e munite di latrine alla turca a dimensione d'uomo non più delle caverne, fatte di pareti lavabili da cui potevano essere tolti gli inequivocabili segni (le virgole) che mi disturbavano oltre ogni dire, facendomi desiderare che il mio corpo risucchiasse se stesso.

[…]

 

I brani citati sono stati pubblicati anche sulla rivista Il cammino.

Nell’appendice fotografica sono riportate le fotografie, in possesso dell’Autrice, che rappresentano alcuni fra i personaggi ritratti in Ognuno è solo.