Le interviste, in genere,
si snodano su domande e risposte, secche secche. La mia scelta è stata invece,
per alcuni pezzi, tra cui quello che segue, di scostarmi un poco dallo schema
classico dell'intervista. Dirò infatti che sono fondamentalmente narratrice
così che, qua e là, non ho saputo rinunciare a mettere in rilievo qualche
emozione particolare, qualche accenno a sensazioni estemporanee.
La contessa Virginia Craia del
canile di Palazzolo Milanese
Detrattori e fautori:
prodotto logico di qualsiasi iniziativa o avvenimento che esorbiti la
pedissequa pratica del vivere normale.
La contessa Virginia
Craia, con il suo canile, non poteva (del resto non gliene importa) sfuggire
alla regola. La stampa s’è scatenata intorno a lei; tante voci hanno fatto
udire il loro registro.
Anch’io vorrei dire la
mia, con uno scopo ben preciso, quello cioè di propagare questo enorme,
doloroso problema, il più capillarmente possibile; ed anche per farci sentire
tutti un pochino responsabili, al punto da chiederci: Sono veramente certo di
non poter fare nulla?
Posto tra il cimitero di
Palazzolo e un ristorante, contornato da un lembo della squallida campagna
milanese: ecco il Canile, un recinto di alcune centinaia di metri quadrati. Le
lastre prefabbricate ed il cancello cieco non riescono ad imprigionare il lezzo
stagnante e l'indiavolata canizza.
Trattengo il fiato fino
a che mi è possibile, ma poi sono costretta a ritirarmi in un angolo per
qualche minuto. E penso di esagerare un poco immaginando, rinchiuse là dentro,
un centinaio di bestie.
Un quadro che non ha
nulla di idillico, ma che è, purtroppo, veritiero. Una realtà che mi sforzo di
inghiottire. Senonché c’è un madornale errore: i cani non sono un centinaio, ma
"da 1500 che erano un paio di anni fa sono passati, ora, a 3000 -
spiegherà la contessa Craia appena sopraggiunta -. E ciò non per loro
prolificità bensì per il malcostume e la sconsideratezza degli italiani che,
tra le popolazioni civili, sono i più barbari".
Fisso uno sguardo vacuo
sulla mia interlocutrice che acconsente, con squisita cortesia, a intrattenersi
lì, sulla strada al di qua del cancello chiuso, dal quale però esce, a zaffate
troppo pesanti, tutta la miseria che racchiude.
La figura minuta di
questa donna straordinaria, dai tratti delicati (a suo dire è sugli
ottant'anni, ma io gliene do allegramente una sessantina) conserva una
piacevolissima distinzione anche se è coperta di stracci; e questo
nell'accezione più pura del termine.
Una donna affascinante
che non rientra in nessuno schema e che anima un quadro sconcertante; meglio,
sconvolgente. Per lei sono una emerita sconosciuta, eppure mi parla a lungo di
sé. Il suo eloquio è fluido e raffinato ed io l’ascolto volentieri, mentre ha
aspri accenti verso l’unica figlia che si vergogna della madre.
- E se lei stesse poco
bene c’è chi può sostituirla? - chiedo.
- Spero solo di morire
in piedi. E se dovrò stare a letto; spero solo che nessuno mi venga vicino per
dirmi che è cinofilo. Non voglio vedere la sua faccia. Cinofila sono soltanto
io. -
Pronuncia questa frase
in modo determinante, tutta lettere maiuscole. Ed io sottoscrivo
incondizionatamente. Anzi, dopo averla vista all’opera mi chiedo: Ma io, le
bestie, le amo veramente?
- Pensi, - riprende in
tono quasi sognante, - c'erano tanti uccellini che venivano a beccare insieme
con i miei cani e con i miei gatti (anche di quelli ne ho settanta). Ora più
nulla. Hanno distrutto tutto, tutto… -
Allarga le braccia in un
gesto sconsolato, come voglia abbracciare tutta la terra.
Ma d'improvviso il suo
viso sensibile s’illumina: mi sta parlando dei suoi "successi". Molte
istituzioni hanno riconosciuto la sua impareggiabile opera conferendole
attestati e medaglie. Ella è molto felice di questo, non per sé, si capisce, ma
perché le danno la prova che non tutti sono refrattari al suo problema, che è
enorme, pazzesco.
Tremila cani, più
settanta gatti da sfamare, da pulire sia pur sommariamente, da controllare
affinché quelli di taglia più grossa non azzannino i più piccoli, eliminare i
neonati… E tutto con l’aiuto di due volontari e quattro stipendiati.
- Pensi a che punto può
arrivare certa gente, - riprende in tono blando. - Mi portarono un grosso cane
parecchio tempo fa; dopo qualche mese vennero a ritirarlo. In seguito me lo
riportarono promettendomi che lo avrebbero ripreso di lì a poco. Non si sono
fatti più vivi. -
- Ma le bestie, i cani
soprattutto, non sono cose; hanno un loro sentire. Quella povera bestia avrà
pur amato i suoi padroni. Come è possibile disfarsene con tanta leggerezza? -
Sono scandalizzata.
- Non è l’unico
episodio. E questo è solo uno dei molti aspetti spiacevoli della mia opera. -
- Signora, dire che sono
esterrefatta è dir poco. Come può provvedere a sfamare quelle tremila e passa
bocche? -
- Be', per la pietanza è
piuttosto facile, acquisto grandi quantità di scarti dai macellai e me la cavo;
inoltre cucino enormi pentoloni di brodo che è l’alimento base. Molto più
difficile è per il pane. Chissà perché - aggiunge dopo un attimo -. Forse la
gente oggi mangia meno pane. -
- Sì e no - ribatto, polemica.
- Quanto pane andrà a finire nelle pattumiere? -
La signora continuerebbe
a parlare. Pur vergognandomi sento che ho fretta di allontanarmi per poter
allargare completamente i miei polmoni e permettere al mio stomaco di
rimettersi in carreggiata, fuori portata di quel tremendo puzzo che,
fortunatamente, è piuttosto circoscritto.
- Signora, naturalmente
sono felice di averla conosciuta. E le prometto che, d’ora in poi, farò incetta
di pane presso tutte le mie conoscenze. -
- Brava. Portatemi pane,
pane, pane… -
Mi allontano con un gran
peso sul cuore.
Io porterò del pane. Ma
dieci, venti, cento chilogrammi di pane non sono niente in quel mare di
necessità d’ogni tipo.
A lungo, sono certa, mi
rintronerà nelle orecchie quell'abbaiare patetico. Vogliono sì il nostro pane,
ma anche qualcuno da amare.