In scena – dieci atti unici,
teatro

Torino, A.L.I.

In copertina: “Io ti parlo muto”,
carboncino di Gloria Chiappani Rodichevski

Nota introduttiva dell’Autrice

Emigranti

Nota introduttiva dell’Autrice

Perché una serie di atti unici? Quando affrontai per la prima volta questo genere di espressione scritta, mi accorsi che il mio credo, "siamo arrivati nudi e nudi ce ne andremo" (il che significa scavare fino all'essenza delle cose e poi adottarla rifiutando ogni sovrastruttura), ingigantiva nella mia mente condizionando il lavoro intrapreso. E che cosa meglio di un atto unico, per la sua peculiarità di "dire" in breve tempo, può soddisfare il bisogno di toccare, quindi di attingere all'essenziale? Con il vantaggio inoltre della piacevole impressione di un contatto vivo con gli attori che si esibiscano proprio per noi.

I personaggi di ogni pièce vanno da uno a tre e si muovono in scenografie assai scarne. Anche questo è voluto, fa parte del gioco, soddisfacendo la ricerca di una semplicità che non necessita di mediazioni per rispondere al bisogno di chi appunto ripudia gli orpelli.

Emigranti

Interno di una stazione ferroviaria, una panchina, un pannello luminoso con orari di arrivi e partenze dei treni.

Una giovane coppia, vestita dimessamente di scuro, sta seduta con i gomiti appoggiati alle ginocchia, i pugni che tengono le guance e lo sguardo fisso in avanti, al di sopra delle teste del pubblico. Posate a terra molto evidenti davanti a loro, un paio di povere valigie tenute dalla classica corda.

Si ode un fischio in lontananza e un annuncio:

– Attenzione! Il direttissimo Trieste-Amsterdam è in arrivo al binario sette. –

– Non è il nostro, – annuncia l'uomo senza compiere il minimo movimento non appena si spegne la voce dell'annunciatore.

Dopo un breve silenzio la donna, nello stesso atteggiamento del marito, ribadisce:

– No, non è il nostro. –

Altra pausa breve.

– Sai? – riprende lei con voce titubante.

– Sì? – la incoraggia lui senza guardarla.

– Oh, è una stupidaggine; ogni tanto mi capitano cose strane: è come se sognassi anche se so di essere completamente sveglia. –

– Sì, credo che sia una stupidaggine. –

Si ode un altro fischio e una altro annuncio:

– Attenzione! Il rapido Roma-Parigi è in arrivo al binario diciotto. –

– Questo è il nostro, – dice la donna girando la testa di scatto verso il suo compagno.

– Ma no, sta' calma. Sarà di qualcun altro, ma non è il nostro. – E le posa una mano sul ginocchio poiché ella aveva fatto l'atto di alzarsi.

– Ma sì, – si ostina lei – non vedi quanto fumo c'è laggiù? –

Indica con il braccio teso un punto al di sopra della platea.

– Quale fumo? – chiede l'uomo. E scoppia a ridere. – Tutto è elettrificato, ormai, – prosegue ridiventando subito serio. – Erano i nostri nonni e forse i nostri genitori che vedevano il fumo dei bastimenti o dei treni. –

– Già, hai ragione. Eppure vedo tutto molto confuso. Sarà la nebbia, allora. –

– Sei proprio fissata. Fammi un po' vedere? –

L'uomo si gira verso la sua compagna, le prende il viso tra le mani e la fissa a lungo.

– Vuoi sapere una cosa? – chiede alla fine. – Tu stai piangendo. Almeno vedo lacrime sulle tue guance e nei tuoi occhi. –

– Dici sul serio? Che strano! Sei proprio sicuro di quello che dici? –

– Certo che sono sicuro. To', guarda. –

L'uomo, sempre seduto, allunga una gamba per estrarre dalla tasca dei pantaloni un ampio fazzoletto scuro e cincischiato. Lo scuote due o tre volte poi lo passa sugli occhi di lei.

– Vedi che non ti dico bugie? To', tocca: è bagnato, – invita porgendolo alla moglie.

La donna allunga una mano e tocca il fazzoletto.

– Già, hai ragione: è bagnato. – Guarda il marito con aria smarrita poi si guarda i polpastrelli con cui aveva toccato il cencio e li sfrega tra di loro.

– Allora vuol dire che sto piangendo, – continua rialzando lo sguardo sorpreso sul volto del compagno.

– Che strano, – mormora dopo alcuni secondi scuotendo la testa.

– Che cosa è strano? –

– No, dico, che strano questo pianto. Tu credi che i nostri bisnonni i nostri nonni i nostri padri piangessero? –

– Per forza piangevano. Che domanda! Allora andava tutto a carbone; chissà quanti bruscoli ti entravano negli occhi! –

– Allora perché adesso che è tutto così pulito io piango? –

– Non saprei… Magari può darsi che tu non pianga; potresti avere il raffreddore, ad esempio; oppure potresti avere una malattia agli occhi. So che c'è un male che prende gli occhi e che ha una nome molto difficile. Aspetta… –

Qui l'attore si stringe la radice del naso tra il pollice e l'indice della mano sinistra e chiude gli occhi corrugando la fronte. Quasi subito libera il naso allargando le cinque dita in un gesto soddisfatto e annuncia a voce piuttosto alta:

– Ecco, gengivite. Si chiama così quel male. –

Lei lo guarda scuotendo la testa e ripetendo in tono piuttosto dubbioso:

– Gengivite… gengivite. Non credo sai che sia quello il nome del male che dici tu. Anzi, giurerei di no. Sta' a sentire il mio ragionamento: gengivi richiama le gengive, perciò credo proprio che la gengivite sia un male che riguarda le gengive. È senz'altro un'altra parola quella che riguarda il male agli occhi. Prova pensarci bene; tanto abbiamo tempo. –

– Sì, credo che tu abbia ragione, – acconsente l'uomo dolcemente. – Non è gengivite. –

Così dicendo assume lo stesso atteggiamento che aveva prima. Non ha bisogno di pensare a lungo. Ripetendo gli stessi gesti ma in modo più blando annuncia:

– Congiuntivite!, ecco il nome. Ma ora mi sento confuso per un'altra cosa. È giusto il tuo ragionamento di prima sulle gengive, ma ora spiegami che legame c'è tra congiuntivite e gli occhi. –

– È vero, – conferma la donna con aria perplessa. – No, non mi viene proprio nessuna idea. Del resto noi non possiamo saperle queste cose dovendo sempre occuparci degli orari dei treni. –

Si ode un terzo fischio e un terzo annuncio:

– Attenzione! Il diretto Napoli-Bruxelles è in arrivo all'ottavo binario. –

– Ecco, questo è il nostro, – esclama la donna irrigidendosi.

– Sì, stavolta è proprio il nostro. – La voce dell'uomo trema.

– Allora andiamo. Prendiamo tutta la nostra roba e andiamo. –

– No, aspetta! –

Il giovane afferra con decisione il gomito della compagna.

Lei si gira per accarezzare dolcemente le guance dell'uomo con entrambe le mani. Sussurra scuotendo tristemente il capo:

– Non ti capisco. –

– Sì che hai capito. Aspettiamo il prossimo treno, quello che passa all'alba. Stanotte dormiamo qui, su questa panchina. –

– Lo farei, caro, ma sono sicura che ce ne verrà male se arriviamo con tanto ritardo. –

L'uomo non risponde subito limitandosi a scuotere il capo come intontito. Alla fine parla:

– Questo è vero, ma sono così stanco, così stanco… Non riesco a muovere le gambe. –

La sua compagna si alza a fatica e gli posa una mano sulla spalla mormorando:

– Mi dispiace tanto, caro, ma dobbiamo proprio andare. Vedi, noi siamo gente legata agli orari dei treni e alle rotaie. Vieni, non abbiamo tanto da camminare: il binario otto è questo. –

Anche l'uomo ora è in piedi. Inaspettatamente scoppia in una breve risata. La moglie lo guarda con aria perplessa.

– Che stupido! – spiega ridiventando serio, – per un momento ho creduto che qui o là fosse uguale. Tu che ne dici: qui o là è lo stesso? –

– Non credo, – risponde pronta lei, – perché tra qui e là ci sono gli orari dei treni e le rotaie che sono fatti apposta per farci capire che qui non è uguale a là e viceversa. Ma facciamo presto: lo sai anche tu che la gente legata alle rotaie e agli orari dei treni non ha il diritto di pensare. Magari stanotte, seduti sulle nostre valigie, quando tutti dormiranno, potremo pensarci su, anche se sono pronta a giurare che non ne caveremo un ragno dal buco. –

– Certo. Hai sempre la risposta pronta, tu. Andiamo. –

L'uomo si alza di scatto, prende una valigia per mano, mentre lei prende le due borse di glume intrecciate. In fila indiana si incamminano verso le quinte seguiti dallo spegnersi graduale delle luci del palcoscenico e da una voce che annuncia:

– Attenzione! il rapido Milano-Amsterdam…

cala il sipario