Dopo lo spettacolo mi trattenni un poco con il primo attore
nonché regista nonché impresario ‑ G. G. ‑ della minuscola
compagnia. Avevano dato Sodalizio Leopardi-Ranieri. Era un piccolo
teatro, quello, seminascosto e semisconosciuto, pur essendo situato nel cuore
della metropoli. Che dire della rappresentazione? Discutibile nell'insieme, con
trovate risolutive di voce fuori campo. Un fatto però saltava all'occhio: lui,
G. G., ce la metteva tutta, così come saltava all'occhio il fatto che credeva
in ciò che stava facendo. Purtroppo però tutto questo non riusciva a
neutralizzare lo squallore dei costumi di scena la cui usura era ben visibile
allo spettatore nonostante la scarsa illuminazione. Lo spettacolo finì con una
buon dose di applausi, regalati anche ad ogni fine di scena, e lui ora, G. G.,
era lì davanti a me nei suoi panni normali, di non molto migliori di quelli che
si era appena tolto abbandonando il palcoscenico.
Lo complimentai senza infingimenti meschini per la sua
serietà: ci credevo; poi chiesi se capitava spesso di avere il "tutto
esaurito", con quale frequenza si cambiava spettacolo e se qualche
cartellone teneva a lungo. Le prima e l'ultima risposta furono affermative.
Tutto andava bene, quindi, nonostante le apparenze.
Nel frattempo s'era avvicinata la moglie: una ragazza
scialba; non brutta in quanto a questo, ma per nulla accattivante, di almeno
una dozzina d'anni inferiore al marito come età (lui sembrava sulla quarantina,
a occhio e croce). Scialba e un poco tetra, eppure, quando posava lo sguardo
sul marito, il suo viso acquistava una vivacità insospettata, prodotta da un
grande orgoglio. Doveva considerarlo un genio oltre che vedere bello quel volto
incavato, duro ma molto mobile, dalla carnagione scura e dai piccoli occhi
neri, infossati, sovrastanti un naso robusto ed una bocca sottile come un
taglio.
Mi congedai dopo un saluto quasi affrettato e di lì a pochi
giorni, quell'incontro che pure mi aveva colpito per il disagio causatomi,
sbiadì fino a scomparire.
Senonché inaspettatamente una sera di circa un anno più
tardi, incontrai quel personaggio nei pressi di casa mia e subito lo riconobbi.
Per un impulso inspiegabile lo fermai qualificandomi per una
spettatrice di quel tale spettacolo aspettandomi da parte sua l'accendersi
legittimo di un qualche interesse. Ciò che non accadde; allora gli chiesi ‑
non so nemmeno io perché mi sentii in dovere di continuare quella conversazione
a binario unico ‑ quali altri spettacoli avesse messo in scena da allora.
Con mia somma sorpresa, senza tradire alcuna emozione,
l'uomo mi annunciò che aveva mollato tutto da almeno sette mesi. Aveva dovuto
arrendersi perché, né per sé né per i colleghi, quel lavoro riusciva a garantire
il minimo indispensabile per non morir di fame.
‑ Ora faccio il centralinista presso una piccola ditta
qui in città e sono molto contento, ‑ concluse con un sorriso che non
riuscii e decifrare.
‑ Bene, ‑ mormorai. ‑ Molto bene. ‑
E gli porsi la mano senza trovare altro da aggiungere.
Aveva seppellito, assieme ad un sogno, gran parte del suo
cuore? Oppure possedeva l'inestimabile dono di saper accettare i colpi più duri
rintuzzando la smania urticante di ribellione? Non avrei mai potuto saperlo, ma
subito pensai anche che, bravo o no, G. G. era pur sempre un attore, pronto
quindi a calarsi nei personaggi diversi da sé.
Non saprei per quali oscuri riallacci operati dalla mente,
conseguenza di questo pensiero fu un'improvvisa eccitazione che mi fece fare la
strada quasi di corsa; e, una volta giunti a casa presi carta e penna, buttando
giù in brevissimo tempo un racconto che intitolai Teatro
del Pioppo e che inserii nella raccolta Nodo
scorsoio.
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