È sapere comune che i dialetti sono lingue vere e proprie;
essi possono prodursi nella narrativa, nel teatro, nella poesia, previa la
messa a punto di una fonetica ad hoc per
renderli lingue scritte oltre che parlate. Nel caso della
poesia noti sono i nomi di Trilussa, Belli,
Porta, Canossi, Di Giacomo, per nominare solo i
maggiori.
Fascino delle "buone cose di pessimo gusto",
bisogno di mantenere salde le radici e, per molti forse, che le necessità della
vita hanno portato lontano dai luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza, o altre
esigenze hanno costretto ad esprimersi solo in italiano, rimpianto degli anni
verdi, lieti o tristi che siano stati, ma sempre gonfi di provvidenziale
speranza.
Un poco di tutto ciò mi ha spinto ad avventurarmi in un
lunghissimo e assai laborioso studio sul dialetto della Bassa bresciana, attraverso ricerche, confronti con l'italiano,
ricordi, annotazioni instancabili e puntigliose di colloqui con persone molto
avanti negli anni, per le quali il dialetto era ancora l'unico modo di
comunicazione verbale con i loro simili; infine i suggerimenti tecnici di un
docente dell'Istituto di Glottologia presso l'Università Statale di Milano.
Da tutto ciò uscì un volume di oltre seicento facciate che si articola in diciannove capitoli, i quali
vanno dalla Grammatica al Glossario, e che si intitola A Ghét sa parlàå isé (A Ghedi si parlava così).
Di mano in mano che procedevo nel lavoro mi accorgevo che il
dialetto bresciano (non so dire degli altri, ma sono
convinta che si tratti di un fenomeno che li accomuna tutti) è
povero. Difatti molti suoi termini hanno polivalenza semantica;
il dialetto è mancante di un certo numero di verbi, che bisogna perciò rendere
con perifrasi; infine con esso non si può scrivere di filosofia, di psicologia,
di critica d'arte o letteraria, e non si possono nemmeno rendere le sfumature
di cui sono ricchi sensazioni e sentimenti tanto utili, addirittura necessari,
per dare sapore e colore allo scritto.
Dopo questo travaglio volli cimentarmi nella poesia. Ne
scrissi una trentina, parte delle quali pubblicate, parte premiate. Percorrendo
il nuovo cammino potei constatare come la rima (ogni tipo di rima) e
l'assonanza, né più né meno che nelle poesie per bambini, rendano in modo
maggiore che non i versi sciolti o liberi, poiché esse danno all'insieme un
"andamento melodico tra la cantilena e la filastrocca, magari la
litania". Tutto ciò aderisce assai bene allo spirito popolare.
Giunti a ciò, così come per gioco, tradussi in dialetto, in
modo letterale, una mia poesia scritta in italiano: devo dire che ne risultò
qualcosa di molto deludente. Poi feci il contrario, ricavandone la stessa
impressione.
Ecco di seguito due esempi del secondo caso:
Teréśå
viśì a la crus
la pregàå 'n śünüciù,
La ghìå èn del stòmech
èn gran bröt magù
[…]
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Teresa vicino alla
croce
pregava in ginocchio,
aveva nello stomaco
un gran brutto magone
[…]
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[…]
Mé
fiölå chè a Milà
la stüdiå po' a lé
a càśå
la m'a dit:
"Ölarès mìå śbalià
ma so' convìntå […]"
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[…]
Mia figlia che a Milano
studia anche lei
a casa mi ha detto:
"Non vorrei sbagliare
ma sono convinta […]"
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Appare chiaro che la versione letterale italiana manca
completamente di ritmo. Nel primo esempio la mancanza di resa ritmica è
aggravata dal depauperamento del pathos;
mentre nel secondo esempio, dove si tratta di poesia emotivamente meno
impegnata, lo svantaggio poggia solo sulla mancanza di ritmo.
Tutte le considerazioni fin qui espresse, rendono più
rigoglioso il senso di frustrazione che provo quando
leggo un'opera d'autore straniero tradotta nella nostra lingua. Chissà se le
impressioni, fruendola nella lingua originale, sarebbero le stesse!? E su tale scorta aggiungo che ciò mi conferma
nell'opinione che apre questo scritto: i dialetti sono lingue vere e proprie.
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