Intervista all'illustratrice Bimba Landmann

11 maggio 2019

Bimba è il suo nome. Ma è anche i suoi occhi azzurri che ti guardano con curiosità, quasi con stupore. Ti parla senza schermarsi, senza atteggiarsi a personaggio (lei, che ha visto i suoi libri tradotti in oltre venti lingue), con l'immediatezza d'una bambina. Nomina consequentia rerum? Può darsi. O può anche darsi che sia perché con i bambini ci lavora, giocando con loro per immagini (e attraverso la parola, quando scrive da sé i testi che poi illustra) e raccontando di Ulisse e di Raffaello, di Chagall e del Piccolo Principe, di Giotto e del Sacro Graal. Così come lavora con gli adulti, trovandosi a proprio agio anche con loro.

 

Come e quando hai sentito l'urgenza di esprimerti attraverso l'immagine disegnata?

Bimba Landmann accanto a due tavole preparatorie de Chiederò a cento pettirossi, aforismi di Alberto Casiraghy e illustrazioni sue.

© Foto Morfoedro.

Da bambina andai in visita al museo di San Marco a Firenze. I libri miniati mi fecero innamorare: l'oro, il blu, la carta antica... Per non parlare dell'emozione che provai di fronte alle celle del Beato Angelico: la mia aspirazione era di lavorare in una di quelle celle!

Che cosa disegnavi? Quali erano i tuoi soggetti privilegiati?

Semplicemente creavo storie. Partivo da una storia che avevo in mente e che poi illustravo oppure cominciavo a disegnare qualcosa e, partendo dai disegni, creavo una storia.

Quali sono stati i tuoi maestri?

Ho frequentato il Liceo artistico e l'Accademia di Brera: il mio maestro, lì, è stato Luciano Fabbro, artista di arte povera. Come illustratore, invece, ho avuto Štěpán Zavřel.

Che cosa significa per te essere illustratrice?

Bimba Landmann, assieme ad Alberto Casiraghy, durante la presentazione di Chiederò a cento pettirossi. Bimba mostra i bozzetti preparatori del libro.

© Foto Morfoedro.

Io non potrei non illustrare! Non la considero una professione (benché nel 1988 lo sia diventata): è il mio modo di essere. Io lavoro anche quando non lavoro. Mentre faccio il bagno, ad esempio, la mente non si ferma. Illustrare per me è una terapia.

Ti trovi maggiormente a tuo agio quando lavori con/per gli adulti o con/per i bambini?

Mi trovo molto bene con entrambe le categorie. La cosa che tengo a sottolineare è che i bambini devono essere trattati con rispetto. Sono profondi e intelligenti, perciò è inammissibile offrire loro, come materiale di lavoro, immagini semplificate, scontate, banali, nella convinzione che altrimenti non le capiscono. Occorre, al contrario, valorizzare la loro capacità di scendere nel profondo.

Oggi siamo qui alla presentazione di Chiederò a cento pettirossi, un libro che ha come protagonisti gli aforismi di Alberto Casiraghy e le tue illustrazioni. Un volumetto edito da Carthusia nel 2019, percorso da un filo rosso: gli animali. Com'è nata l'idea?

È nata da una passeggiata sull'Adda con Alberto. Ci conosciamo da tantissimi anni ed è sorta in modo così naturale l'idea di creare qualcosa insieme: abbiamo pensato che io avrei potuto illustrare i suoi aforismi. Carthusia si è innamorata del progetto e abbiamo quindi deciso di trovare qualcosa che legasse la sua e la mia arte. L'abbiamo trovato, quel filo rosso, negli animali. Il libro è popolato da zebre, elefanti, rinoceronti, mosche, pesci, formiche, mucche, leoni, uccelli e, naturalmente, pettirossi.

Quanto è durata la gestazione?

La copertina del libro.

Sei mesi.

Come è stato il rapporto con Carthusia?

Molto positivo. Patrizia Zerbi, la direttrice editoriale, ha seguito tutte le fasi del progetto: dall'idea iniziale alle fasi di stampa. I libri di Carthusia sono assai studiati e hanno una qualità di stampa enorme.

Il formato del libro.

Patrizia ce ne ha sottoposti due. Alberto ha privilegiato quello più piccolo, mentre io, da illustratrice, puntavo su quello grande. La scelta finale di Patrizia è caduta sul primo e ora penso che vada bene così.

Quali criteri hai usato per illustrare gli aforismi di Alberto?

Ritengo che l'illustrazione debba essere una melodia che accompagna l'aforisma. Ogni aforisma infatti ha una propria musica, così come ce l'ha ogni illustrazione. Il libro doveva quindi rappresentare l'armonia che legava l'arte della parola e quella dell'immagine. Proprio come in un'orchestra, dove ogni strumento ha le proprie caratteristiche e suona in armonia con tutti gli altri.

Nella pratica come hai raggiunto quest’armonia?

Avendo molto chiaro ciò che non dovevo fare: banalizzare gli aforismi, semplificarne la complessità, rendere le mie immagini didascaliche rispetto alle parole. Solitamente nelle mie illustrazioni inserisco molti particolari. In questo lavoro, invece, proprio per ciò che ho detto prima, ho tolto i dettagli, ho sottoposto le immagini a una sorta di processo di evaporazione. Gli aforismi sono infatti sintesi ed essenzialità.

Per quanto riguarda la sequenza delle immagini, i criteri che ho usato sono stati continuità di colore o dialogo fra i colori, affiancamento di immagini più ricche a immagini più leggere, distanziamento di illustrazioni simili (ad esempio due notturni). Per costruire questa sequenza armoniosa, a casa ho steso tutti i bozzetti e, con un occhio ai colori e l'altro al contenuto delle immagini, ho lavorato sull'uniformità.

Chi ha operato la scelta degli aforismi da illustrare?

Gli aforismi sono stati scelti da me e con l'editore abbiamo analizzato tutti i miei schizzi.

E come è avvenuta la scelta?

Essendo fedeli al filo rosso che, avevamo deciso, avrebbe percorso il libro: gli animali. C'erano aforismi molto belli che però non sono stati inclusi perché non riguardavano gli animali, come ad esempio: “Ci sono semi imprevedibili che portano alla poesia.”

Hai riscontrato difficoltà nell'illustrare alcuni aforismi?

Oh, sì! Questo è stato difficilissimo: "Se le mosche fossero azzurre, sarebbe tutta un'altra storia."

La difficoltà ti ha permesso di creare un capolavoro: le mosche si sostanziano del concetto di Alberto divenendo storia e avventura. Quell'avventura che, mi auguro, la tua mano non ci farà mai mancare, stimolandoci a mantenere un buon contatto con il nostro bambino interiore, perché dimenticarci del bambino che siamo stati è una punizione che non ci meritiamo.