Ho intervistato un amico
È per ricordarlo a coloro che lo conobbero o per farlo
conoscere all’eventuale miserella manciatina di
persone che leggeranno queste righe? Direi di no ad entrambe le domande, poiché
sono del parere che ricordando coloro che ci hanno lasciato per sempre, siano
essi stati oggetto del nostro profondo amore, siano essi stati preziosi amici,
è cosa spontanea, in modo più o meno continuativo, cosciente e doloroso talvolta,
ma tant’è: il ricordo non muore mai completamente.
Antenore Bianchi appartenne alla
ridottissima cerchia degli amici veri, ma tra lui e le nostre famiglie gli
incontri avvenivano sempre in maniera sporadica, del tutto informale, mai
sottoposti a forzature di programmi.
A questo proposito ho un’idea radicata, una convinzione: il modus operandi che dirò è il numero
vincente che fa durare le amicizie: cioè, non condividere troppo "pasta e
fagioli" e lasciare alle pareti domestiche il compito di salvaguardare la
privatezza di ciascun nucleo familiare; il tutto con oculata misura, senza cioè
sprangare porte e finestre.
Ma torniamo al mio intervistando. Egli aveva un carattere
non troppo facile. Diciamo che nell’autodifesa era reattivo in modo… molto vistoso. Fu particolarmente sincero (virtù che
apprezzo tanto) e capace di accettare una critica qualora essa venisse da una
persona che beneficiasse della sua stima.
Il Bianchi lavorò come anestesista in un ospedale di livello
piuttosto alto, sempre tenendo conto del delicato compito che gli era affidato.
Cattolico inossidabile e attivo, viveva il suo credo
religioso con l’impeto della passione.
Pur essendo molto pragmatico, talvolta compiva azioni o
sosteneva tesi che debordavano dal senso comune. Mai troppo eccentriche, del
resto, solo quel tanto che lo presentavano come persona dal carattere ben
definito.
Si può dire di lui che sapeva ridere. Da buon ottimista
aveva un senso del comico che io non condividevo; non glielo diedi mai a vedere
però. E perché farlo? Forse, pari alla sua fede e a sua insaputa, gli dava la
forza per affrontare ed accettare le vicissitudini che non furono (e non erano
nel presente) poche e leggere.
Antenore condusse sempre una vita
molto semplice, senza relazioni che implicassero la frequentazione di
"gente su", dilettando tutto il suo tempo libero al giardinaggio.
Amava questa attività manuale perché, diceva, lo scaricava un poco dalle
tensioni quotidiane familiari e professionali.
Bisogna aggiungere che aveva una dialettica non comune e che
lui, del tutto spontaneamente, coltivava usando un linguaggio forbito, preciso,
sempre alla ricerca (talvolta autocorreggendosi fino
alla pignoleria) del termine appropriato, fosse aggettivo o sostantivo,
avverbio o voce verbale e così via.
Ma veniamo all’intervista: un’idea così peregrina,
estemporanea di cui proprio non saprei spiegarmi la causa del nascere.
Comunque, nei miei intendimenti, doveva trattarsi di una faccenda fine a se
stessa.
Un’intervista? – chiese l’amico con una risatella che poteva significare tante cose. – Ossignori!, resta che…
continuò. Questa era un'espressione che usava spesso prima di affrontare un
dialogo. Espressione che non aveva alcun significato particolare, salvo, deduco
arbitrariamente, che lo aiutasse a trovare la voglia di ingranare una marcia
che non lo attirava affatto. Ma inaspettatamente uscì con una notizia che mi
sorprese non poco: Vuoi intervistarmi, dici? Non ci crederai ma già una
volta, molti anni fa, mi intervistò un tale, di cui non ricordo il nome così come
non ricordo il titolo del quotidiano o del periodico per cui lavorava. Mi
sembrano faccende così inutili! Non vorrei essere offensivo, ma con te posso
permettermi di usare il termine ridicole. –
Non esagerare, riuscii soltanto a dire. Avrei tanto desiderato
saperne di più sull'intervista, ma ormai aveva pensato lui a tagliare la testa
al toro… non per nulla era un chirurgo. Questo lo
pensai e sorrisi dentro di me: mi era parsa una bella battuta.
Invece di polemizzare dichiarai sincera: Sono d’accordo
con te per il primo aggettivo; è una cosa inutile anche perché io sono la
signora Nulla Nientini; ma perché, vivaddio, quando
siamo certi di non far danno a nessuno nella vita, ogni tanto, non ci regaliamo
qualcosa di inutile e di… ridicolo? –
No, ti prego, non fare la filosofa: mi rovinerai la
digestione che è tanto laboriosa, purtroppo. Bene, resta che puoi iniziare la
tua intervista. –
Sei un tesoro d’amico, ma non le ho pronte, le domande. È
un’idea che m’è venuta così, all’improvviso. Dammi un minuto e sono da te in
pieno assetto di guerra. –
Corsi gongolante nel tinello dove tengo sempre biro, matite
e un mucchio di carta da riciclo, del tipo buste di lettere che mi arrivano,
che apro, naturalmente, e che, aperte, rivolto; volantini di ogni misura e
colore scritti solo su una facciata, cose di questo genere, insomma.
Tornai di volata e spiegai al mio amico il mio piano di
lavoro. Divisi il pacchetto di fogli in due parti più o meno uguali cercando di
farli combaciare bene, almeno da un lato, che poi cucii con i punti metallici;
avrei contrassegnato ogni foglio con un numero progressivo uguale per entrambi
i blocchi, uno per le domande e l’altro per le risposte. Naturalmente,
informai mentre spiegavo come era congegnato il lavoro, dopo batto tutto con
il computer, che so usare solo come macchina per scrivere.
Così, di punto in bianco (stento io stessa a credere) avevo
scritto ben quattordici domande. Ecco, Antè –
(rarissimamente accorciavo il suo nome così inconsueto), dissi porgendogli il
blocchetto per le risposte. Ma lui, inaspettatamente, rifiutò la procedura: non
aveva voglia di scrivere, però mi assicurò che avrebbe risposto
coscienziosamente. Per questo mi sobbarcai la doppia fatica e dello scrivere e
delle non poche interruzioni e attese, sia pur brevi, da parte sua, del tipo:
"No, aspetta, non era questo esattamente il termine che volevo
usare", e così via.
Del resto l’idea era partita da me e più risposte ottenevo
più sentivo acuirsi il desiderio di avere tra le mani quell’intervista
piuttosto sui generis. Poteva anche
essere "inutile" e "ridicola", quello che era sicuro, certo
è che sarebbe stata un piacevole diversivo per il nostro tran tran quotidiano.
Appena il mio difficile intervistando se ne fu andato
rilessi avidamente tutto quanto stava scritto sui due blocchetti e me ne
ritenni così soddisfatta che subito mi dedicai a mettere altra carne al fuoco.
Mi venne tutto di getto e quando pensai di avere soddisfatto
almeno parte del mio bisogno di sapere, contai le domande che aveva aggiunto e
mi prese non poca perplessità: erano altre ventiquattro a cui il poverello
speravo rispondesse in nome della… scienza e della
sua fede.
Nell’accomiatarsi mi aveva avvisato che si sarebbe fatto
vivo di lì a tre o quattro giorni. Calcolai velocemente: tenendo conto della
sua pignoleria in fatto di lingua, della sua flemma, dei suoi impegni
professionali e familiari che non gli lasciavano molto tempo libero, di lì a
cinque o sei settimane, mantenendomi sul largo per scaramanzia, avremmo finito
il nostro lavoro. Io, che sono tutto meno che flemmatica, mormorai: Va bene
anche così. Chi si accontenta gode, no? Ero sincera con me stessa e fiduciosa… Ma perché troppo spesso ci viene rubato anche
quel poco? Quella faccenda, imbastita così bene, che recava danno a nessuno,
ebbe un arresto diabolico del tutto imprevisto e imprevedibile, che si chiama
"pirata della strada".
Pensai ad Antenore che non avremmo
mai più rivisto, con le sue pecche e le sue virtù, pensai alla moglie che
sarebbe rimasta sola a lottare soprattutto per i suoi tre figli, Ismaele e
Ester in primis, ancora in età scolare, pensai anche all’intervista che vidi
veramente "inutile". Ma perché non rimanga inesorabilmente così,
tenterò di colmare, almeno un poco, l’amaro vuoto rimasto, scrivendola di
seguito. D e R ad ogni inizio, per le prime dodici battute, sono del tutto
chiarificatori.
D – Domanda di prammatica: che cosa ti spinse ad
intraprendere la carriera di medico?
R – Premetto che si era nel 1938 e che alle elementari la
mia maestra, vedendo che ero il migliore su una quarantina di alunni, tanto e
tanto e tanto insistette presso i miei genitori, i quali non avevano soldi,
perché mi facessero proseguire negli studi, che alla fine essi acconsentirono a
farmi fare le medie inferiori; dopo di che superai la maturità al liceo
scientifico, aiutato con borse di studio. A questo punto si trattava di
scegliere una facoltà universitaria. Sinceramente io non sentivo inclinazione
di sorta, per questo mi sono lasciato influenzare da un mio compagno di liceo a
frequentare medicina; influenzato anche dal fatto che allora il personaggio del
medico era un personaggio da imitare nella vita. La specializzazione come
anestesista è venuta casualmente. Dopo la laurea trascorsi sette anni in un
piccolo ospedale dove si faceva tutto come pratica generale. Con la Legge Mariotti (bisognerebbe essere più precisi, perciò
tralasciamo?) intorno agli anni Settanta gli ospedali divennero strutture
pubbliche dove i neolaureati andavano a fare pratica, ma con la sola intenzione
di diventare liberi professionisti con uno studio proprio. Tornando alla
specializzazione io non avevo desideri specifici: per me l’unico interesse è
verso l’uomo ammalato nella sua totalità. Riguardo a ciò posso dire di avere
amputato una gamba ad un ragazzo di diciassette anni. Poi entrai in un ospedale
molto più importante chiedendo di potermi impiegare in cardiologia. Branca che
tra tutte, forse, era quella che mi attraeva un poco di più; ma mi risposero
che, se volevo restare, era libero soltanto il posto di anestesista. Il che mi
seccò nel senso che allora l’anestesia non era la specializzazione di oggi;
basti dire che la praticava una suora che non era nemmeno laureata. Per questo
mi sentivo frustrato, d’altra parte accettai. Proprio in quel periodo stava
nascendo come specializzazione, ma era sempre considerata una sottoattività
medica. Qui potei fare pratica come primo passo, poi frequentai un corso a
Pavia. Nel frattempo tale attività divenne una specializzazione medica.
D – Sappiamo che la medicina è soprattutto empirica;
tuttavia è una disciplina che non può essere totalmente avulsa da una base e da
un supporto scientifico; elementi cioè che fanno affidamento esclusivo sulla
ragione. Stante ciò, nel percorso della tua professione, non hai mai avvertito
il fastidio di uno stato conflittuale?
R – Tante volte; anzi, durante la mia attività ci sono stati
molti casi di conflitto tra la prassi medica e la fede.
D – C’è stato qualche momento in cui ti sei pentito di avere
scelto di fare il medico?
R – Mai.
D – Con impegno e intelligenza tuo figlio Odoacre ha scelto di seguire le tue orme. Ciò ti ha dato
gioia e soddisfazione o avresti preferito che avesse scelto un’altra strada?
R – Tutto sommato mi va bene. Secondo me Odoacre
sarebbe molto adatto per la psichiatria, ma egli non è d’accordo.
D – Hai sempre esercitato presso ospedali. Ti è capitato
spesso di pensare a qualche ammalato in particolare dopo aver timbrato il
cartellino per fine turno?
R – Sì, è normale come in ogni professionista: ci penso un
paio di giorni prima dell’intervento e dopo penso all’iter postoperatorio.
D – Parlando di un’operazione chirurgica il pensiero corre
subito a chi manovra il bisturi, ma si sa che il chirurgo è coadiuvato da
un’equipe; soprattutto un anestesista ricopre un ruolo importante in tale
frangente. Pensi spesso, molto intensamente intendo, durante l’intervento che
sei responsabile della vita di un tuo simile?
R – Sì. Aggiungo che la definizione di anestesista è:
specialista nelle funzioni che mantengono un certo organismo in quella
particolare vicenda chirurgica nelle migliori condizioni di equilibrio
biologico. Nell’ambito di questo equilibrio biologico è da produrre la
soppressione del dolore che nella stragrande maggioranza dei casi toglie la
coscienza.
D – Conosci dei colleghi molto sicuri di sé che buttano là
una diagnosi in quattro e quattr’otto senza ripensamenti?
R – Sì.
D – Quando ti trovi di fronte a un paziente ti riesce facile
operare il distacco necessario per procedere senza tener conto di sentimenti
tipo la compassione?
R – Sì. La vera compassione di un medico è la competenza e
l’impegno professionale.
D – Si parla di malato e di malattia come due entità
distinte. Tu fai questa distinzione? In caso affermativo quale dei due
privilegi?
R –La distinzione non è da fare: si tratta sempre di un
allentamento della perfezione biologica di un certo malato.
D – Ti senti superato dai medici emergenti visto le nuove
scoperte che si fanno del continuo nel settore? Soprattutto visto come la
tecnologia si è impadronita del campo?
R – In senso tecnico sì, tuttavia non mi sento affatto
superato nella capacità di operare una sintesi di fronte alla molteplicità
delle informazioni riguardanti un ammalato.
D – Sappiamo purtroppo che la Sanità ha imboccato una strada
alla quale il paziente senza mezzi non ha ingresso facile. Che cosa ne pensi?
Non lo trovi contraddittorio, per non dire colpevole, nel nostro Paese, dove il
cattolicesimo, quindi il cristianesimo, è considerato religione di stato?
R – Primo, sono quasi d’accordo con la prima domanda;
secondo, Cristo non è venuto a insegnare medicina; ha insegnato ad amarci. È
troppo chiaro che anche l’esercizio della medicina può diventare una forma di
amore fraterno; ma attenzione: la responsabilità dell’esercizio della medicina
è degli esseri umani, specie i medici. Più un medico è competente, più un
medico è diligente, più un medico è serio e più questo amore fraterno viene
realizzato. La medicina moderna non è più una medicina casalinga come forse era
la medicina ottocentesca, ma è una medicina che, per forza di cose, si giova di
presidi tecnici dal costo elevatissimo. Ne deriva che la medicina non può fare
a meno del denaro pubblico e quindi è inevitabile che la politica entri nella
medicina, pena il ricadere nella già citata medicina ottocentesca. È comunque
fuori discussione che la responsabilità primaria dell’organizzazione medica
rimane quella del malato – vedi sieropositivi, fumatori e abortisti, per fare
un esempio; e subito dopo quella del medico essendo essi i primi due naturali
protagonisti della medicina. Solo in terzo luogo subentrerà la responsabilità
politica. Se dunque si vuol dire che il cristianesimo, il quale per sua natura
equivale a buona medicina, non viene realizzato si deve dire che i primi
cattivi realizzatori sono i malati cristiani ed i medici cristiani. Non si va
dal medico per una scemenza. E tutto ciò è scandaloso perché noi singoli uomini
diamo scandalo.
D – Ci sono dei casi particolari, prescindendo dal fatto che
la tragedia, o quanto meno il dramma, sono di casa nel tuo lavoro, che ti hanno
colpito al punto di essere ancora scolpiti nella tua mente pur dopo molto
tempo?
R –Tra i molti soprattutto quello di una quindicenne
investita da un’automobile. Abbiamo fatto tutto, ma proprio tutto il possibile
per salvarla: purtroppo non ci fu nulla da fare.
E nemmeno per lui ci fu nulla da fare.
Ed ora ecco un atto poco raffinato, forse, ma al quale non
posso rinunciare. Alludo alle ventisei domande rimaste orfane alle cui risposte
tenevo tantissimo. Le riporterò di seguito contrassegnandole con il numero
progressivo che le distingueva, partendo dalla numero tredici.
13 – Alcuni decenni or sono, nel caso di un parto difficile
dove bisognava scegliere se lasciare in vita la madre o il nascituro, si
privilegiava sempre quest’ultimo pur nella consapevolezza che avrebbe avuto una
vita grama oltre la norma e che quasi sempre rimanevano indietro altri orfani.
L’etica è sempre quella? In caso affermativo, tu come ti comporteresti in un
frangente simile?
14 – I giovani medici magari sono entusiasti (ciò accade in
ogni branca del lavoro), mentre i medici che hanno già tanti anni di attività
sulle spalle (e anche qui vale l’osservazione fatta sopra) si sentono stanchi,
magari demotivati. Quale tra i due tipi di medici è raccomandabile?
15 – Essendo tu uomo di fede, non cambia il tuo
atteggiamento nei confronti di un paziente che sai essere ateo?
16 – Da buona profana credo che una feroce idiosincrasia di
fronte a medici e medicine, nonché l’ipocondria siano da considerarsi una
manifestazione patologica vera e propria. Ti senti poco indulgente davanti a
questo tipo di sofferenza?
17 – E verso le malattie psicosomatiche?
18 – Conosci medici che, per leggerezza, hanno provocato la
morte di un paziente e si sono giustificati senza rimorsi con il detto
"Sbagliare è umano"?
19 –Si sa che il nostro corpo è la macchina più complessa e
più perfetta che ci sia. Tu guardi a questa perfezione e complessità con
l’occhio dell’uomo di scienza o con quello del credente? E non sarebbe meglio
per tutti se fossimo congegnati in modo molto più semplice e costruiti con buon
materiale resistente?
20 – È opinione comune che la voglia di vivere e di lottare
che un ammalato grave impone a se stesso sia utile per la sua guarigione. C’è qualcosa
di scientifico in questo?
21 –La tua professione ti porta ad essere in contatto
continuo con la morte. Ti capita spesso di pensare ad essa in rapporto alla tua
persona?
22 – La malattia, quindi il dolore fisico, per i cristiani,
è diretta conseguenza del cosiddetto peccato originale. Influisce questa
convinzione, che senz’altro è anche tua, sul rapporto con il paziente. In altre
parole è più facile per te che per i medici, diciamo miscredenti, mettere dei
paletti che ti proteggano dalla pietà?
23 –Qual è la tua opinione sulla medicina alternativa, tipo
agopuntura e omeopatia?
24 –E sul riconoscimento legale dei guaritori o maghi che
dir si voglia?
25 – Secondo te è giusto togliere ogni speranza ad una
persona nel senso di spiattellarle tondo tondo il suo
stato di incurabile condannata?
26 – Di fronte ad un ammalato che non sopporta il male
fisico e lo dà a vedere lamentandosi, perdi subito la pazienza?
27 – Quando un giovane decide di fare il medico immagino che
sappia, almeno a grandi linee, ciò che l’attende. Ti è mai capitato di
incontrare qualcuno che ha ingranato la retro subito dopo un’esperienza cruda?
28 – Conoscendo la tua religiosità credo di conoscere la
risposta, ma ti pongo ugualmente la domanda: che cosa pensi dell’eutanasia,
soprattutto se operata da un congiunto che ha superato ogni limite di
sopportazione?
29 – Negli ultimi tempi il paziente deve dichiarare, con
firma, l’accettazione totale di eventuali gravi conseguenze, nonché addirittura
la morte, derivanti da intervento chirurgico. Tutto ciò, chiaramente, solleva i
curanti da ogni responsabilità. Possiamo leggere in tutto questo l’arrogarsi,
in sfacciato arbitrio, un privilegio addirittura immorale da parte della classe
medica?
30 – Conosco un paio di medici – a parte i prosatori che
tutti sappiamo: Bedeschi, Duhamel,
Tobino, Magrì, Tacconi,
Vitali e chissà quanti altri – che sentono il bisogno di comporre poesia con
risultati che definirei notevoli. Ciò significa il bisogno di far convivere
armoniosamente ragione e pragmatismo con sentimento e fantasia. Secondo te il
fatto denota una felice poliedricità mentale o si potrebbe anche pensare ad una
accentuazione di quella contraddittorietà che è in ciascuno di noi o anche
ascrivere questo bisogno, diciamo, piuttosto singolare in tale professione ad
un disagio psichico purchessia?
31 – Fin dalle elementari ci viene insegnato che il dolore
fisico, in certi casi, è un’arma di difesa posseduta dal nostro organismo.
Esempio classico: io mi scotto, quindi sento bruciore, perciò reagisco correndo
ai ripari, anche semplicemente allontanandomi dalla fonte del mio malessere.
Ergo: evito di morire carbonizzata o altro. Scientificamente parlando è una
spiegazione accettabile. Ma io chiedo all’uomo di fede, fermandomi a questo
esempio: ciò non richiama alla mente l’inutilmente sadico (a parte che il
sadismo è l’inutile per antonomasia) gioco del gatto con il topo? Allargando il
campo, il sadismo è la condizione sine qua non che
regola la vita intera sul feroce principio "mors
tua vita mea" (vedi catena alimentare).
Concludendo: riesci a ricavare, nell’accettare questa realtà, non certo tenera,
la condizione per la catarsi, indispensabile al fine di raggiungere l'eterna
salvezza?
32 – Quando, come medico, devi prendere una decisione
importante ti capita di chiederti: Se si trattasse di un mio caro che cosa
farei?
33 – Si usa ancora far recitare ai neolaureati il giuramento
di Ippocrate? Se sì, pensi che siano in molti ad interiorizzarlo?
34 – Sei stato anche insegnante di anestesia presso una
scuola per infermiere professionali interna all’ospedale dove lavori; tale
esperienza è stata più o meno gratificante rispetto al fatto di applicare la
tua specializzazione in sala operatoria?
35 – Per la conquista dello spazio extra terrestre, tutti i
Paesi (tralasciando il restante spreco e senza voler entrare nei meandri della
corruzione in ogni campo e in ogni luogo) investono somme di denaro e risorse
intellettuali che io nemmeno riesco figurarmi – oltre al sacrificio di vite
umane. Secondo te è giusto che gli uomini facciano questo, magari camuffandosi
dietro l’alibi pretestuoso di non esser "nati a viver come bruti" o
sarebbe meglio che ignorassimo tutto sull’astrofisica e ponessimo più
attenzione ai gravissimi innumerevoli problemi che sconvolgono la Terra e i suoi
abitanti?
36 – Che cosa pensi del dottor Albert Schweitzer, medico
credente (cristiano protestante anziché cristiano cattolico come te)? Conosco
detrattori che lo accusano di "fanfaronismo",
essendo ricorso alla medicina del mondo civile quando ne ebbe bisogno per la
figlia. Che cosa dici di costoro?
37 – Sappiamo che la vita è tutta una lotta ed una scelta
obbligata, ma ci sono frangenti che ci pongono davanti a degli aut aut di una
crudeltà inconcepibile. Un esempio (ma non è dei più eclatanti) è quello di
staccare o no la cosiddetta spina in un caso di coma irreversibile, dove la
vita è ancora presente ma solo allo stato vegetativo. In un caso del genere
come ti comporteresti in qualità di medico? E come credente?
38 – Tu consideri la chirurgia estetica come un fatto
medico, anche quando lo scopo è la soddisfazione della vacuità, o la consideri
soprattutto da una angolazione morale del tipo: Dio mi ha voluto così; chi sono
io per voler cambiare il mi aspetto?