Intervista alla film maker Sara Donati
3 maggio 2015
Sara
Donati.
Per
sua gentile concessione.
|
Da dove desideri cominciare a raccontarti?
Da un documentario partecipato del 2009, Caccia grossa, che vince il premio Italiani Brava Gente: una produzione
Cgil web TV e "Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e
Democratico". Si tratta di un filmato sulla manifestazione sindacale
nazionale che si svolse il 4 aprile 2009 a Roma. In collaborazione con la web
TV della CGIL Lombardia, avevamo lanciato un appello: chiunque lo avesse
desiderato (cineamatori e lavoratori), avrebbe potuto filmare le migliaia di
persone in viaggio in treno verso Roma e ritorno, diventando protagonisti anche
grazie all'appropriarsi di un mezzo di comunicazione come la videocamera.
L'adesione fu ampia: oltre cento ore di registrazione raccolte, che
testimoniano la spontaneità dei manifestanti nel raccontare le loro storie, le
loro preoccupazioni, le loro vite. Come registi, io e Stefano De Felici,
abbiamo operato una selezione e montato un video di 32 minuti. Nella sua veste
definitiva il lavoro presenta spezzoni di filmati delle lotte sindacali
dell'ultimo cinquantennio, che si intercalano nelle testimonianze del 2009: lavoratori,
cassintegrati, disoccupati che affrontano la crisi economica, con un occhio
preoccupato per un futuro troppo incerto. A chi ha vissuto sulla propria pelle
o è stato testimone delle lotte di un cinquantennio fa, salta all'occhio il
mutamento: ieri si cercava di conquistare diritti sacrosanti; oggi si tenta di
non perdere il terreno guadagnato.
In quale rapporto stanno fotografia e documentario come mezzi
di comunicazione della realtà?
Nella fotografia è più forte l'elemento simbolico, con
un'immagine devi trasmettere un "mood", un concetto, un valore,
mentre il documentario si sostanzia del racconto di una storia (storytelling).
Sebbene le immagini simboliche siano il sale della poetica sia che si tratti di
fotografia sia che si tratti di video.
Come vengono organizzate le riprese?
Un fotogramma del
cortometraggio A day
like the others, di
Sara Donati
Per gentile
concessione dell'autrice.
|
Un film maker deve innanzitutto avere le idee chiare sul
risultato che intende ottenere, in termini di racconto, messaggio, impatto
emotivo. Dal punto di vista tecnico si deve tener conto del risultato che si
vuole ottenere per mettere in gioco i mezzi necessari per quel preciso scopo.
Lo storytelling
è una guida essenziale ed in base alla storia si definiscono tutti gli elementi
che concorrono al suo dipanarsi; attori, scenografia, ambienti, fotografia...
Occorre, cioè, riprendere tutto ciò che servirà in fase di montaggio: nei
documentari non si rifanno le scene, a meno che ci siano particolari
indispensabili narrativamente o si decida di girare
di nuovo un'intervista per approfondire un certo argomento. Soprattutto quando
i budget sono limitati, occorre ottimizzare i tempi, perciò il ritmo del lavoro
non segue la cronologia della narrazione, ma viene organizzato in base alla
tipologia delle riprese, ai luoghi dove vengono svolte, al set luci, alla
presenza di alcuni attori etc...
Come scegli il soggetto delle tue storie?
Sono temi che mi stanno a cuore per un particolare vissuto
personale. Oppure sono richieste da parte di clienti che hanno necessità di
raffigurare simbolicamente la propria azienda/attività, oppure un racconto
metodico di ciò che serve per descrivere delle azioni. Prendiamo il mio cortometraggio
A day like the others. Ho deciso di
affrontare un tema che in quel periodo mi era caro: un rapporto padre/figlia,
tutto da costruire. Ho pensato a quale potesse essere la situazione estrema di
un padre e di una figlia estranei fra loro e ho immaginato un padre che mette
al mondo una figlia di cui non è in grado di occuparsi (è un
"senzatetto"). Nel video siamo dunque davanti a una ragazza che non
ha mai visto suo padre, il quale - però - è riuscito a rintracciarla. Lei
lavora in un bar in cui lui entra, senza però rivelare la propria identità.
L'avvicinamento dei due avviene infatti per gradi e per simboli. La prima sera
l'uomo si siede al tavolino, chiede un caffè e, mentre aspetta, estrae dalla
propria borsa una scatoletta di cartone contenente ago e filo rosso. Ecco il
primo simbolo: un fil rouge
che lega due vite e un rapporto da cucire. (Nella concretezza del video, il
filo servirà per aggiustare la maglia rotta del senzatetto). Quando la ragazza
sta per portare la tazza di caffè, l'uomo è sparito e ha lasciato sul tavolo un
pezzo di filo rosso. Anche la seconda sera chiede un caffè. Attende che la
ragazza glielo porti e ritorni al bancone, non lo beve, pone sul tavolino una
fotografia (il secondo simbolo) che lo ritrae assieme a un neonato e lascia il
bar. La ragazza la trova e scopre la verità. Raggiungerà, successivamente, il
padre su una panchina. Ho voluto far maturare il personaggio principale
attraverso questa gradualità d'azione, per giungere al colpo di scena finale.
Sono tutti elementi importanti: perché un cortometraggio funzioni, infatti,
occorre una sceneggiatura che, senza sbavature, conduca lo spettatore alla
conclusione che possibilmente lo sorprenda.
Come trovi le persone per i tuoi documentari?
A volte le cerco io, a volte sono le persone che vengono da
me. Dipende anche dall'argomento su cui voglio indagare. Ho conosciuto diverse
giovani donne italiane che mi hanno ispirato un tema che mi piacerebbe
trattare: donne trentacinquenni che hanno operato cambiamenti radicali nella
loro vita o nella loro carriera. Il momento dei trentacinque anni è diventato
emblematico per la mia generazione, in fondo siamo in cerca di noi stesse, con
un fardello importante di tipo sociale e familiare con il quale fare i conti.
La necessità di scegliere chi siamo impone rinunce, cesure, che parlano di
donne alla ricerca di un'identità che non può essere esclusivamente lavorativa.
La cosa che mi interessa maggiormente, nei miei lavori, è l'aspetto relazionale
e sociologico.
Tu hai affermato: "Amo il documentario per la possibilità
di soddisfare la mia curiosità. Provo un certo pudore nel far vedere quello che
riprendo, come fosse una relazione molto intima con le persone che ritraggo o
con la realtà che esploro. Ritengo l'esporre ciò che faccio una sorta di
tradimento." Ti chiedo: come costruisci il rapporto con le persone che
ritrai nei tuoi documentari?
Si tratta necessariamente di un rapporto di fiducia che va
costruito prima di cominciare le riprese. Servono uno o più incontri durante i
quali il film maker espone l'argomento del documentario e sgombera il campo da
fraintendimenti, spiegando chiaramente che tipo di riprese verranno effettuate.
Occorre infatti che chi accetta sappia a che cosa va incontro, ovvero che può
venire ripreso in atti e situazioni quotidiane, intime, che deve essere
naturale e che nulla è preparato a tavolino; occorre che non consideri la
cinepresa una minaccia. Le reazioni emotive spontanee dei soggetti, del resto,
sono assai importanti. Io lavoro sia con attori professionisti, sia con gente
che non ha mai recitato: la cosa fondamentale per un film maker è cogliere
l'attimo emozionale. Egli deve avere tempo, pazienza e capacità di ascolto: è
grazie a questa combinazione che può instaurarsi un rapporto di fiducia con le
persone filmate.
Ci sono state reazioni, da parte delle persone riprese, di
chiusura totale o di blocco?
Più volte. Ricordo un documentario dove un liutaio mostrava
come si costruisce un violino. Durante una pausa, mentre lui chiacchierava con
alcune persone, io lo ripresi e lui si inalberò. C'è un altro caso,
particolarmente significativo. Volevo girare un documentario sull'esperienza
delle stigmate e ho incontrato alcuni protagonisti, ma i nostri contatti non
hanno avuto seguito: probabilmente la documentarizzazione
di una tale esperienza veniva vissuta come eccessivamente invasiva. Infine (e
mi riallaccio a quanto sottolineavo poco fa sulla naturalezza delle persone
riprese) cito il caso di una signora che, ogni volta che concordavamo quando
incontrarci per girare, andava dal parrucchiere, si truccava di tutto punto e
si vestiva con eleganza. Le dovetti spiegare pazientemente che non funziona
così!
In un documentario che ha lo scopo di fornire lo spaccato di
una certa realtà, quanto si può essere poetici?
Si deve essere poetici. Alla poesia non bisogna rinunciare
mai, anche se non è sempre facile esprimerla, soprattutto quando gli argomenti
trattati sono molto crudi. Nei contrasti tra elementi diversi, come con
materiali preziosi e grezzi, penso che avvenga una specie di miracolo che
genera poesia.