Un fantasma ha "preso vita" dalle note di Joe Schittino e dalla
penna di Martina Fragale. Intervista
Hercule le Funambule ou le fantôme du
portemanteau: l'ultima "commedia spiritica
in due atti" del musicista siciliano
2 giugno 2014
Un colpo di fulmine tra due giovani, un fantasma maldestro
e sfortunato, genitori tanto nobili quanto miopi: ecco gli ingredienti della
riuscitissima opera. State quindi in allerta, amanti dell'opera lirica
brillante, della comicità raffinata e ricca di spunti, appassionati di teatro e
di musica scevra da freddi e sterili sperimentalismi, curiosi dello spiritismo!
Joe Schittino ha completato Hercule le
Funambule ou le fantôme du portemanteau, smagliante
opera che si avvale dell'altrettanto smagliante (e colto) libretto di Martina Fragale.
Hercule le Funambule ou le fantôme du portemanteau
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Un'opera che miscela sapientemente momenti accorati,
surrealistici, comici e in cui interagiscono la vita e la morte. Qual è il trait d'union
fra questi due mondi?
Schittino:
Il testo è una sorta di fumetto tragico e la storia ti lascia un filo di amaro
in bocca. Il fantasma Hercule le Funambule è il personaggio più tragico, pronto
a una rinuncia estrema: quella della sua esistenza di fantasma, per l'amica
d'infanzia Suzette. È senz'altro il più drammatico,
ma non l'unico sacrificio presente nell'opera: da parte del Conte di Carillonpompon c'è la rinuncia interessata all'amante e ai
progetti sul figlio Georges; Suzette rinuncia
all'amico d'infanzia Hercule, ottenendo ‑ tuttavia ‑ in cambio
l'amore di Georges.
Il trait d'union fra vita e morte è Hercule, che possiede una
visione globale. E non è un caso che, quando Suzette,
che sta per recarsi alla propria festa di nozze e si rattrista perché sa che
non rivedrà più Hercule, quest'ultimo le dica: "Ma ora, lì nella saletta,
/ c’è la vita, quella vera che vi aspetta." Non è un caso, nel senso che
lei non ha la completezza di visione di lui e, di questo, lui pare approfittare
per una piccola sfida. È, infatti, come se le dicesse: "Vai, vai… io so che cosa ti aspetta, tu no."
Joe, ti sei mosso in continuità con qualche tradizione
musicale?
Joe Schittino e Martina Fragale al
lavoro.
Foto Antonino Chianello © Martina Fragale
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Schittino:
Dal punto di vista della struttura, ho fatto un gioco di "memoria
occultata", nel senso che ho voluto creare un'opera priva di leitmotive che ne
facilitassero in qualche modo la lettura e la decodificazione. Dal punto di
vista musicale, non esistono sperimentalismi che vadano oltre la prassi
musicale consolidata. Mi piace, però, segnalare che, ad ogni "sì"
(affermazione) del libretto corrisponde la nota "si". Nella partitura
ci sono tritoni (il famoso "diabolus in
musica") e la presenza di un modo maggiore e minore nello stesso accordo,
come nell'aria della follia dell'istitutrice: è la scena che conclude l'opera e
che nasconde luci e ombre. Ci abbiamo lavorato molto ‑ io alla partitura
e Martina al libretto ‑ e la figura dell'Istitutrice ha preso rilievo in
modo inaspettato. La terz'ultima e la penultima scena rappresentano l'addio fra
Hercule e Suzette e l'avvio di Suzette
e di Georges verso la felicità. Ci si aspetterebbe un finale romantico, tuttavia
l'ultima scena cambia le regole del gioco: entra l'Istitutrice in preda al
terrore per aver visto Hercule porgerle gli occhiali che lei aveva perso
all'inizio della commedia. Il terrore cede poi il passo ad una ridanciana
follia. Indossati gli occhiali, riacquistata la vista, l'Istitutrice si avvia a
passo di danza verso l'uscita, facendo la riverenza a un cavaliere immaginario.
Questo personaggio, non solo "salva" la situazione da un finale
romantico scontato, ma permette una dichiarazione di poetica: "Con l’occhiale
or vedo – in fede! – / perfin chi altri non vede […].
/ Pazza, folle forse sono / ma che vedo, questo è chiaro: / da vedente del non
visto, / chi non vede compatisco!" Questa è una chiara dialettica del
vedere e del non vedere.
Il tema della vista, fisica e metaforica, è uno dei fil rouge della
commedia. L'Istitutrice perde gli occhiali perché ha visto un fantasma
(Hercule) e ne è terrorizzata. Senza occhiali non distingue nulla, tanto che ‑
quando Hercule stesso li trova e glieli porge ‑ lo scambia per un
cameriere che le offre da bere. (È, questo, un momento di una comicità densa e
calibrata.) Il paradosso è che lei ha perso gli occhiali per la paura di aver
visto qualcosa che sovverte le sue certezze e quindi si trova in una condizione
di ipovisione temporanea. Quando si rimette gli occhiali e vede chi glieli
porge (il fantasma stesso), ripiomba nella paura, rifiuta la realtà e si
rifugia nella follia, che rappresenta, stavolta in metafora, un'ipovisione
permanente. Anche il caricaturale Conte di Carillonpompon
e suo figlio Georges vedono e rifiutano la vista del fantasma, rompendo il
fidanzamento. Per la madre di Suzette, la plateale Contessa
di Pilouchpatouche, il discorso è differente: lei ha
sentito mormorare dell'esistenza di un fantasma, ma ritiene si tratti di un'allucinazione
collettiva. E la figlia sintetizza l'atteggiamento materno con la metafora: "Miopia
spirituale è vista corta."
Martina, anche a te chiedo se, per il libretto, ti sei rifatta
a qualche tradizione.
Joe Schittino.
© Foto Paride Galleone
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Fragale: Sì, a Hugo von Hofmannsthal
e a Lorenzo Da Ponte: il riferimento a questa tradizione librettistica mi è
servito come motore creativo. Ti porto un esempio concreto. La scena finale de Il cavaliere della rosa, di Strauss‑von Hofmannsthal, è
molto lirica: la Marescialla, donna ormai matura, non oppone resistenza quando
il proprio giovane amante si innamora di Sophie, una
ragazza della sua età. Anzi, lo incoraggia e sostiene questo amore. Nel momento
di massimo lirismo, quando si pensa che l'opera termini con la profonda
malinconia della donna, cui fa da contraltare la felicità dei due giovani
innamorati, un paggetto negro entra spassosamente in scena con una candela, per
cercare il fazzoletto che era scivolato di mano a Sophie.
È la comicità che irrompe, che conclude l'opera in maniera inaspettata. Proprio
come la scena conclusiva della comica follia dell'Istitutrice di Hercule le Funambule ou
le fantôme du portemanteau. Ci sono poi anche almeno due riferimenti
a Da Ponte: per esempio, la scena dell’ultimo atto in cui l’Istitutrice cerca
gli occhiali perduti, a livello drammaturgico riecheggia in modo nemmeno troppo
implicito l’aria di Barbarina "L’ho perduta, me
meschina" delle Nozze di Figaro di
Mozart.
È stata creata prima la musica o la parola?
Fragale: Il testo, che però è stato modificato
anche grazie alle idee di Joe.
Schittino: La musica non deve essere di servizio
al testo, ma entrambe devono servire il dramma.
Fragale: A questo proposito, mi piace ricordare
Capriccio di Richard Strauss, una
sorta di opera teorica che cerca di dare un’inedita risposta all’eterno quesito
intorno a cui si sono mosse generazioni di musicisti e di poeti: "Prima la
musica e poi la parola?" La contessa Madeleine
deve scegliere fra due spasimanti, entrambi impegnati in una composizione da
dedicare all'amata: il musicista Flamand e il poeta
Olivier. Al termine dell'opera, la contessa non sa decidere chi scegliere
perché ritiene che né la musica né la poesia siano superiori una all'altra. Per
quanto mi riguarda, aggiungerei, a mo’ di chiosa, che la parola e la musica
devono entrambe servire un terzo elemento: il dramma. Perché l’opera lirica è
sempre e innanzitutto teatro. Ecco, direi che Joe e io ci siamo mossi di comune
accordo proprio in questa direzione.
Joe, come vengono caratterizzati musicalmente i tuoi
personaggi?
Schittino: In vari modi. Ti faccio solo alcuni
esempi. La contessa di Pilouchpatouche usa
l'intervallo della fanfara (quarte e quinte giuste). Georges si esprime con
continue acciaccature che scompaiono dopo il colpo di fulmine. Lo sguardo
d'amore fra i due giovani è reso dalla corale di legni…
Joe, tu sei anche attore professionista. Questo come ha
influito su Hercule le Funambule?
Martina Fragale.
© Martina Fragale
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Schittino: Innanzitutto sull'uso dei tempi
teatrali: ho la fobia dei tempi morti! Non credo nell'autocelebrazione, nel
tormentare il pubblico con l'imposizione dei propri prodotti artistici. Credo,
piuttosto, che il pubblico vada preso per mano e coccolato. Questo non
significa essere un artista compiacente, anzi! Significa essere rispettoso del
pubblico, ma nel contempo educarlo a scelte artistiche interessanti. Usiamo
pure una metafora culinaria. A un bambino fa bene la verdura, ma non ne vuol
sapere? Ci sono molti modi di cucinarla: non lo si forza e lo si educa ad
apprezzare la varietà e le differenze.
In un'opera sostenuta da comicità e surrealismo, ci troviamo
di fronte a un momento di pura poesia, espresso da Suzette:
"Più bella della musica / è l’impronta silenziosa / che giace in fondo
all’eco: / una virgola nel buio / che l’anima riposa." Com'è nato questo
squarcio lirico?
Schittino: Mi piace lasciarmi "scrivere"
dai personaggi, tuttavia non sempre sono nella disposizione d'animo adatta. L'ispirazione… be' in certi
ambienti non la si deve nominare, perché vige l'intellettualismo più spinto, ma
noi nominiamola! Dicevo: l'ispirazione è l'ospite importante. Ti prepari ad
accoglierlo, inizi a rassettare la casa… Ricordo che
non mi sentivo di comporre quell'aria lirica: la tenevo come il vestito da
indossare nel giorno della festa. Invece l'ispirazione è arrivata e mi ha
"costretto" a scrivere.
Fragale: Ho scritto e riscritto quel pezzo: non
mi soddisfaceva. Alla fine quello che ho dato a Joe era un semilavorato a cui
mancava qualcosa: il punto finale. È stato proprio Joe a suggerirmi
l'interazione fra Hercule e Suzette, che ha dato
origine alla versione definitiva del pezzo.
Questo squarcio poetico, tra l'altro, è doppiamente
funzionale. I versi sono ripetuti esattamente alla conclusione della quarta
scena del primo atto e della settima scena del secondo atto. La prima volta Suzette è in dialogo con Hercule e quei versi sostengono la
sua Weltanschauung di fanciulla che rifugge balli e
mondanità per appartarsi con la propria melanconia. La seconda volta, invece,
la ragazza, con quelle parole, trattiene il fidanzato: "Georges: Andiamo? / Suzette si ferma ad ascoltare: O aspetta! Non ancora…
/ Com’è dolce il suono da lontano. / Ascolta! / Più bella della musica / è
l’impronta silenziosa / che giace in fondo all’eco: / una virgola nel buio / che
l’anima riposa." Lei vuole indugiare un'ultima volta nell'infanzia prima
di lasciarsela alle spalle per sempre.
Joe, che qualità devono avere gli interpreti della tua opera?
Schittino: Si
tratta di una partitura piena di incastri con un'orchestrazione non classica. I
cantanti sono però aiutati dagli strumenti che danno loro l'attacco. I cantanti
che voglio come interpreti della mia opera devono essere anche ottimi attori,
padroni della pantomima. Il personaggio Hercule, ad esempio, è funambolico e
tale deve essere anche l'attore che lo interpreta.
L'opera è sostenuta da comicità e ironia. Si tratta di una scelta
che definirei di leggerezza, nel senso più valorizzante del termine. (Leggerezza
che, tra l'altro, è il secondo fil rouge: il primo, di cui abbiamo parlato, è il tema
della vista). La ragione di questa scelta?
Schittino: Parliamo della morte: è certamente
difficile da rappresentare, se non si vuole scadere in banalità e in
appesantimenti. Della morte ho cercato di rendere un'atmosfera di distacco e di
nobiltà: nella dipartita di Hercule c'è sicuramente dello zen.
Fragale: In tutta l'opera c'è il filtro della
lontananza e della leggerezza. Il fantasma ha una consapevolezza che Suzette non ha e questo lo aiuta a vivere la propria
sofferenza non come un assoluto.
Schittino: Il momento dell'addio di Hercule è
sostenuto non da una musica accorata, ma ‑ al contrario ‑ leggera e
disincantata. In un certo senso è come se Hercule volesse indorare la pillola a
Suzette, per proteggere il punto di vista di lei, che
è tutt'affatto che globale. La leggerezza è un elemento portante della mia
produzione e direi anche una filosofia di vita. A questo proposito, mi piace
citare l'orchestra del Titanic, che affonda suonando una musica allegra: è una
metafora che spiega la vita. In Hercule
le Funambule è presente una dialettica fra peso e leggerezza.
Paradossalmente il personaggio che dovrebbe essere il più leggero, visto che si
tratta di un fantasma, è il più "pesante" in termini di consistenza
filosofica e di pienezza emotiva. Suzette dice
infatti a Hercule: "Tu sei l’unico a esser vivo, a esser vero."
Fragale: La leggerezza è un punto d'incontro
fra Joe e me. Personalmente la cerco come un mio contraltare, visto che, caratterialmente,
sono tutt'altro che "evanescente". Vedo un forte legame fra la
leggerezza e la capacità di ridere: l’uso costruttivo, quasi autoprotettivo dell’ironia, rappresenta uno degli elementi
portanti della mia produzione letteraria e della mia filosofia di vita. Da non
confondersi con il sarcasmo, che è tutt’altra cosa.
Schittino: A me la leggerezza salva dalla follia!
Joe, la tua produzione musicale poggia spesso su comicità e
surrealismo. Hercule le Funambule non
si sottrae a tale scelta. Posso ipotizzare che essa abbia a che fare con la
necessità di adottare, nella nostra vita, punti di vista opposti rispetto al
vittimismo e all'intimismo (che rischiano di essere, nell'arte, fonte di
sterile autoreferenzialità) che ci permettano di adottare un filtro oggettivizzante nella visione di noi stessi e del mondo?
Schittino: Sì. In tal senso, la leggerezza è
l'unico modo possibile.
Fragale: La leggerezza fa passare contenuti di
peso. L'importante è che non sia un espediente per fuggire dalla realtà. Nella
nostra società il rischio è infatti quello di invecchiare e morire senza
maturare. È come la mela che marcisce restando acerba.
Che futuro volete per Hercule
le Funambule?
Schittino e Fragale: Il
migliore! Che l'opera venga rappresentata bene e sempre!
Fragale: Che sia la testimonianza della
vitalità che la creazione artistica ha in sé oggi: si può infatti creare, al di
là di tutti gli intellettualismi fini a se stessi. Il desiderio è che chi si
troverà davanti al cartellone di Hercule
le Funambule potrà sentirsi attratto perché riterrà che non si tratti di
una delle tante opere per addetti ai lavori.
Schittino: L'opera è agile: dura un'ora e venti
minuti circa ed è rappresentabile con pochi sforzi tecnici: non c'è coro, ci
sono pochi personaggi, è scritta per un'orchestra da camera.
Fragale: È un'opera che esalta molto il
registro teatrale, in termini di rappresentabilità.
Martina, quando uscì il tuo romanzo Chez
Alì, riferendomi alla sottotrama dei fantasmi, ti chiesi perché non
l'avessi espunta per farne un romanzo o un racconto a sé. Mi rispondesti che
stavi già trattando l'argomento, in una maniera e in un ambito nuovo per te: il
teatro lirico. Bilancio a due anni di distanza?
Fragale: Molto positivo. Non nascondo che,
essendo abituata a scrivere in prosa, avevo delle perplessità sulla
composizione di un libretto in versi, ma devo dire che è stato molto naturale
scrivere in questo modo nuovo per me. Ciò che mi ha aiutato è stata
indubbiamente la gran quantità di opere liriche che ho visto come loggionista
al Teatro alla Scala di Milano. E Joe mi ha dato molti suggerimenti per la
composizione del libretto.
Un'esperienza che ripeteresti?
Fragale: Sì. Con Joe! Ho lavorato benissimo con
lui.
Schittino: Anch'io ho lavorato serenamente con
Martina. Uso questo avverbio non a caso, perché il rapporto con i librettisti
non è sempre roseo: da poeti, tendono a considerare il libretto come lavoro a
sé stante e, spesso, a fatica sono disposti a cambiare in corso d'opera per
recepire le esigenze del musicista. Martina ha sempre mostrato prontezza e
flessibilità nell'accogliere le mie richieste.