I cicli produttivi dell'industria italiana nei sapienti scatti in bianco e
nero di Niccolò Biddau. Intervista
13 gennaio 2014
"Fotografo
in bianco e nero e con il cavalletto. Il nero assoluto e le sfumature di grigio
ti permettono di lanciare ogni volta una sfida, che può rivelarsi estrema."
"Non
preparo mai in modo artificioso una scena. Il bello della fotografia è scoprire
quei soggetti che sono lì, già pronti per essere ripresi."
CAMPARI. Bottigliette Camparisoda, disegnate da Fortunato
Depero nel 1932.
© Foto Niccolò Biddau. Per gentile concessione
dell'autore
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I tuoi inizi ti vedono, nel 1988, impegnato in reportage in
Estremo Oriente e in America Latina; successivamente ti dedichi alla fotografia
di nudo e di moda; poi nasce la ricerca sui paesaggi urbani, sulla scultura e
sulla fotografia d'interni. La svolta avviene nel 2002 quando ti trovi a
ricercare e a esaltare l'estetica della tecnologia, attraverso l'indagine dei
cicli produttivi delle aziende italiane. Perché questa svolta?
Ero alla ricerca di un progetto editoriale da sviluppare,
diverso, per me innovativo. Il tutto inizia da una riflessione. Se, in un’area
a forte vocazione industriale, come può essere Milano o Torino, chiedi a una
persona di elencarti 4-5 casi di successo di aziende del territorio,
solitamente si ferma alle notissime ma non ha la percezione della
differenziazione produttiva del distretto nel quale risiede.
PIRELLI. Le coperture, dopo aver subito il processo di
vulcanizzazione, vengono destinate alla fase di finitura finale.
© Foto Niccolò Biddau. Per gentile concessione
dell'autore
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Da qui, pensando alle potenzialità del linguaggio della
fotografia, ho iniziato a costruire un progetto che raccontasse questo
universo: il rapporto territorio-impresa. Fondamentale è stata la
collaborazione con il sistema confindustriale per accedere alle imprese.
Altrettanto importante è stato il fatto che nessuno della mia famiglia abbia
mai lavorato all’interno di un’impresa (da generazioni la mia famiglia ha
espresso professori, avvocati, militari, ecc) e questo ha costituito un
elemento di novità assoluta, associata allo stupore della scoperta di un mondo
totalmente nuovo che mi si è dischiuso di volta in volta.
Grazie alla tua ricerca attorno all'estetica della tecnologia
(che ti ha fruttato riconoscimenti a livello internazionale), hai realizzato
molte campagne fotografiche sulle eccellenze industriali del "made in
Italy". Attualmente il "made in Italy" si trova minacciato.
Quanto pensi che la tua opera fotografica sia utile per la salvaguardia del
nostro patrimonio?
Penso che sia importante fare un ragionamento più ampio, che
non vuole rappresentare una critica sterile, ma costruttiva. Sovente sentiamo
proclami da parte di alcune istituzioni, preposte a comunicare il Made in
Italy, della necessità di intraprendere iniziative di comunicazione volte a
valorizzare il Made in Italy. Sovente purtroppo si tratta solo di slogan.
La fotografia ti permette di mettere in atto degli strumenti
di comunicazione davvero potenti e ben recepiti dal pubblico, sia italiano che
all’estero. Il pubblico è molto più interessato e ricettivo di quanto possano
pensare quelli che hanno il potere per attuare certe decisioni. Si tratta di
budget non impegnativi ma oggi ogni cosa sembra quasi impossibile. Penso che
proprio in momenti come questi si debba investire in progetti di qualità, anche
attraverso la fotografia, per promuovere la conoscenza del nostro straordinario
patrimonio industriale. Se vogliamo parlare di “sistema minacciato” dobbiamo
anche guardare a chi in Italia ha compiuto errori clamorosi da un lato sulla
comunicazione e dall’altro sulla scarsa attenzione e sostegno verso un’idea di
sistema.
Le idee e i progetti di qualità ci sono ma hanno bisogno di
adeguati supporti; se vengono meno questi, si mortifica qualsiasi iniziativa
sul nascere.
Perché per raccontare l'industria italiana hai scelto di
fotografare in bianco e nero?
Sovente mi viene chiesto perché uso il bianco e nero. In
realtà è una scelta istintiva, dettata probabilmente dall’aver studiato e
osservato durante tutta la mia vita la fotografia dei grandi maestri.
Fotografo in bianco e nero e con il cavalletto: questo ti
aiuta a lavorare con tempi lunghi e con una buona concentrazione. Il nero
assoluto e le sfumature di grigio ti permettono di lanciare ogni volta una
sfida, che a volte può rivelarsi estrema. Calcolare la differenza di contrasto
in situazioni molto critiche dove un raggio di luce può modificare la
plasticità della scena richiede una buona dose di sicurezza e tanta pazienza.
Questo insieme di cose rende la ripresa fotografica in situazioni critiche,
come quelle che trovi all’interno delle fabbriche, molto affascinante.
Scatti in analogico o in digitale e perché?
Lavoro in medio formato con una Mamiya RZ 67 II in
analogico. Continuo a lavorare con la pellicola perché ritengo che la
differenza qualitativa rispetto al digitale sia notevole. La plasticità delle
forme, i piani e la profondità rimangono ancora largamente legati al negativo.
Inoltre lavorare in analogico significa non avere un atteggiamento compulsivo
ma ti porta a studiare di più la luce e la composizione dell’immagine. Lavoro
solo con luce ambiente e scatto solo quando trovo il punto di equilibrio
ottimale.
Il tuo linguaggio è più interpretativo che documentaristico.
È, insomma, il linguaggio dell'arte. Quando sei all'interno di uno
stabilimento, di fronte ai macchinari, nel mezzo di un processo produttivo, che
cosa attendi per far partire il clic?
Un soggetto deve contenere due elementi fondamentali:
emozioni e informazioni. Una volta individuati, questi due parametri devono
funzionare con condizioni di luce ottimali: senza la luce giusta il soggetto è
fortemente depotenziato. Non preparo mai in modo artificioso una scena, al
limite cerco di rimuovere temporaneamente, qualora esistano, elementi di
disturbo per posizionare al meglio il cavalletto. Il bello della fotografia è
scoprire quei soggetti che sono lì, già pronti per essere ripresi.
È l’istinto e l’impianto narrativo che stai costruendo che
ti portano in una direzione piuttosto che un’altra.
A volte si passano delle ore a cercare un’ispirazione poi
l’istinto ti indica dove dirigere la tua attenzione. Una volta individuata l’area
e studiata la luce, comincio a studiare l’inquadratura attraverso un'analisi
meticolosa. L’osservazione dei dettagli poi ti permette di rendere maggiormente
armonica la fotografia.
Come già accennato, la ricerca della luce migliore ti aiuta
a plasmare più adeguatamente i soggetti che ritrai e questo ti permette di
tendere al massimo della corrispondenza quello che fotografi. Ritengo che la
buona riuscita di una fotografia sia sempre e comunque in ripresa e mai in
postproduzione.
È da poco terminata alla Triennale di Milano la tua mostra
"Industria", dove accompagni il visitatore in un viaggio nella realtà
industriale italiana. Guardando le tue fotografie si ha l'impressione che i
macchinari industriali, i prodotti finiti o i semilavorati vivano di vita
propria e siano portatori di una bellezza insospettata. Ci si stupisce di
questo, perché è come se si vedesse con occhi nuovi un mondo giudicato, fino a
poco prima, privo di interesse artistico. Con quale tecnica e attraverso quali
emozioni riesci a raggiungere questo risultato?
Dietro ogni scatto c’è un lavoro piuttosto lungo. Mi
riferisco allo studio dell’azienda e del suo ciclo produttivo, ai sopralluoghi
e ai rapporti con l’imprenditore e con diversi addetti con i quali mi devo
relazionare. Però tutto questo non deve andare in alcun modo ad intaccare
quella che sarà la sorpresa della campagna fotografica. Quando entro con
l’attrezzatura in uno stabilimento so bene che quello sarà un momento
irripetibile, dove avrò la possibilità di captare solo per una volta sensazioni
particolari. Non ci sarà una seconda occasione. Ecco quindi la necessità di
concentrare tutte le energie in un’unica esperienza. Ci possono essere due
percorsi: quello solitario dove mi muovo con una profonda concentrazione e
solitudine o quando è il titolare stesso che mi accompagna illustrandomi le
varie fasi del ciclo e trasmettendomi tutta la sua passione. Queste sono le due
condizioni ottimali.
Mi riferisco sempre alla tua mostra "Industria". È
rara ma non assente la presenza umana. Spesso si tratta di mani che rifiniscono
capi di vestiario o accessori e che ‑ in contrasto con i processi
meccanizzati ‑ definirei con un aggettivo che ha il sapore di certa
letteratura degli inizi del Novecento: operose. Come ti poni di fronte alla tecnologia
e all'industrializzazione ‑ in cui siamo immersi fino al collo ‑
che soffocano e, in certi casi, annientano la presenza artigiana nel lavoro?
È vero che l’industria da diversi lustri ha avviato un
processo trasformativo ma è anche vero che in Italia la manualità riveste
ancora un aspetto fondamentale in tantissime fasi di aziende anche ad alto
tasso tecnologico. Molti pensano che siccome c’è un processo di robotizzazione
spinto, la presenza umana tende completamente a scomparire. Non è proprio così.
Un esempio per tutti: i motori della Lamborghini, chi li costruisce, li
assembla e li collauda?Un altro più estremo: i cappelli Borsalino o le scarpe
Moreschi; tutte le fasi sono manuali, il processo è artigianale.
Le persone che decido di ritrarre entrano in scena in quanto
fanno parte di una specifica fase del ciclo produttivo. Quindi chiedo a loro di
riproporre la stessa gestualità con la massima naturalezza.
Solitamente la macchina fotografica mette allegria e porta
la mente a evadere perché richiama momenti di svago. Se sai cogliere questo e
gestirlo al meglio riesci a creare quell’empatia che diventa da subito la carta
vincente per la buona riuscita della fotografia.
Il rapporto tra fotografo e soggetto fotografato e il loro
gioco di sguardi sono temi molto ricchi e attorno ai quali si è parlato tanto:
complicità, rispetto, fiducia, barriera, intrusione… Quando il soggetto
fotografato non è una persona ma un oggetto, come cambia il rapporto che ho
citato prima? E tale cambiamento quale spazio lascia all'emozione?
È la sorpresa della scoperta, è il momento tanto ricercato o
inaspettato. È un qualcosa cercato con tanta ostinazione. È quel dettaglio che
riesce a fare la sintesi, la differenza rispetto a qualcosa magari appena
visto. È la sua posizione plasmata da una luce particolare. È l’insieme di
tutto questo, che ti cattura e ti inchioda al cavalletto e ti prende come se
fosse una forza magnetica in un’astrazione spazio-temporale fino al
raggiungimento dell’obiettivo. Dopo puoi anche rimettere la macchina nel
bauletto e ritenerti soddisfatto.