Un graditissimo impensato riscontro

Erbacce. Ogni qualvolta leggo o odo tale parola mi chiedo il perché di quel dispregiativo, sentendomi quasi urtata.

Utile o dannosa, una pianta è sempre una pianta, un essere non in possesso della ragione, ma vivente. Non di rado si possono trovare “erbacce” dai fiori graziosissimi, vivamente colorati, dal profumo assai gradito, nonché dai frutti di forma tanto curiosa e interessante perché dotati di ingegnosi meccanismi onde favorirne la disseminazione.

Eppure, per farmi comprendere dal mio prossimo, senza ricorrere a perifrasi in questo caso assurde e ben sapendo che non si può polemizzare nella quotidiana comunicazione interpersonale terra terra, anch’io uso questo termine e ogni volta mi prende un lieve senso di disagio. Aggrotto impercettibilmente la fronte e mi disapprovo, ma chi può sostenere che la vita non è tutta un compromesso? Fosse tutto qui il male, mi consolo compiangendo però le povere erbacce. E così campando tenni sempre ben nascosta dentro tale convinzione.

Ma ecco una sorpresa tanto più gradita quanto inaspettata, addirittura impensabile. Sono una divoratrice di carta stampata ed un giorno m’imbattei nel Ritratto in piedi di Gianna Manzini[1]. Praticamente la biografia del padre Giuseppe, l’anarchico che, per i propri ideali, abbandonò ogni agio, affrontando privazioni, soprattutto l’esilio, rischi d’ogni genere compresa la morte, la quale lo colse fortunatamente quando già i fascisti gli erano addosso, nel modo più pietoso, si può dire.

Non ho alcuna intenzione di parlare del lavoro di questa autrice, scritto in prima persona. Se lo facessi, il mio giudizio non potrebbe essere che favorevole per lo stile personale ed incisivo, per l’autoanalisi psicologica puntuale ed esaustiva, ove il tutto si snoda lungo un filo rosso molto consistente.

Chiudiamo la parentesi e passiamo al mio incontro-riscontro tanto appagante che interessa le pagine 57, 58, 60, 61 e 95.

Dopo lunghissimi anni Gianna si trova sulla tomba del padre: una lastra di marmo coperta di polvere che lei pulisce con la sua manica. Lastra che porta scritto solo nome, cognome e le due date essenziali: GIUSEPPE MANZINI – 1872-1925. Il tutto soffocato dalle “erbacce” che lottano l’una contro l’altra per strapparsi un pugno di humus. Lei è lì per mettere ordine. “[…] sapevo che era esistito […], che era il mio babbo, e che era morto già da tanti anni. Non dolore, adesso. Sbigottimento.” (pag. 57)

La scrittrice amò profondamente il suo papà e un pensiero la tormenta, un senso di colpa al ricordo che per un breve periodo, nella sua prima giovinezza, ancora con un piede nell’adolescenza, si vergognò di lui, del suo agire tanto fuori dagli schemi consequenziale ad un’ideologia che lo imprigionò per tutta la vita. Ma a giustificazione della Gianna di allora c’era l’età e, forse, più pregnante per disprezzo massiccio e continuo di quel congiunto acquisito, l’ambiente materno dal quale dipendeva sia lei sia la madre. Sua madre, dolce e volitiva che difese e fu fedele al marito fino alla fine.

Ma se Giannina amò il padre quest’ultimo non fu da meno, ritenendola giustamente, ancora bimbetta, degna depositaria dei segreti della sua attività clandestina. Ne è prova l’incontro a cui l’ammise con il Malatesta. Un incontro vestito dalle fosche tinte del dramma ma vissuto con serena leggerezza. “[…] si buttò su una sedia; parrucca, barba e baffi a’ suoi piedi; e mi fece balzare sulle sue ginocchia. ‘Giannina, è Malatesta, è Malatesta!’ E l’amico, tenendomi le mani e facendomi saltare: ‘Cavallino, giò, giò, giò […].’ ” (pag. 95)

La mamma ora, già morta anche lei da molto tempo, “con la dolcezza imperiosa che possono avere soltanto i morti” le ordina di spicciarsi a mettere ordine su quella tomba abbandonata, inselvatichita. (“Un orrore, una vergogna. Simile invasione di erbacce ti accusa.”) (pag. 58)

“Di molte piante, lui avrebbe saputo il nome […].

“E lui, il babbo, amorosamente contrastandomi […]. ‘Erbacce perché l’uso vuole che si distruggano? ‘ Erbacce perché non servono a te? Perché non ti piacciono? Perché ti intralciano? […] Erbacce perché l’uso vuole che si distruggano? Nascono condannate, le erbacce.’ ” (pag. 58).

L’autrice è molto turbata dal richiamo materno contemporaneo al sussurro paterno, solo scherzoso, magari quest’ultimo. E in tale ambascia si lancia in uno sfogo polemico, animata da vera collera. “Gli altri. Gli altri. Sempre gli altri, a obbligare, a dirigere, a sistemare. Anche adesso, su questa tomba, babbo.  Sì che neppure ora siamo io e te soli. […] Come poteva accadere, in me, simile slittamento verso l’anonimia dell’abitudine, del senso comune […]? Infatti le mani continuavano ad agire per conto loro, rapide, con un’energia che mischiava piacere e dolore, mortificazione e meschinità. […] Avrebbe voluto per la sua sepoltura, e lo disse, non fiori; bensì piccole ciotole col miglio per gli uccelli.” (pag. 60)

Anche questo torna chiaro alla mente della donna, in tale momento solenne. Purtroppo però, dopo tanti anni non ricorda se questo suo desiderio fu esaudito. Ma rammenta chiaramente le parole: “ ‘Pensaci, Giannina: lo sterminato silenzio dei morti e queste libere voci della natura intorno a loro: specie nell’ora difficile del tramonto. Perché il tramonto, non c’è dubbio, dev’essere un affar serio dovunque.’ Nel riso, presto interrotto, pareva un albero appena percosso da una mezza folata di vento; e subito bloccato.” ‘Due ciotole qualsiasi col miglio […] e non per me soltanto.’ ” Ma le erbacce non le previde.” (pag. 61)

Per questo ora, quella figlia tanto amata, si rompe le unghie strappando foglie, divellendo tenere o tenaci radici, spezzando steli su una tomba così a lungo orbata da ogni attenzione.



[1] Milano, Club degli Editori, 1971