“Ma… la… vita”: la performance teatrale dei detenuti di Bollate (Milano)
Lo
spettacolo. 1
Tre
domande al regista Mario Ercole. 1
Tre
domande alla psicologa Ilaria Coronelli 1
Ilaria
Coronelli e Mario Ercole.
©
Foto Morfoedro
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Caricati ed emozionati. Così i sedici detenuti del 7°
reparto della II casa di reclusione Milano di Bollate, prima, durante e dopo
“Ma… la… vita”, spettacolo di cui sono stati protagonisti nel ruolo di attori,
musicisti o cantanti.
Lo spettacolo è stato messo in scena il 12 settembre 2013
nel teatro del carcere, a conclusione del progetto di teatroterapia
"Raccontarsi: percorso verso la libertà", nato dalla collaborazione
con il Ser.t 3 dell'ASL di Milano e il Dipartimento di psicologia
dell'Università Cattolica. Regista del gruppo, Mario Ercole, già ballerino del
Teatro San Carlo di Napoli, che ha lavorato a stretto contatto con la psicologa
Ilaria Coronelli.
Ercole ha dichiarato che il teatro è “uno strumento utile e
necessario per conoscersi e per migliorarsi”. Come tale, è stato proposto ai
detenuti del 7° reparto per creare un percorso condiviso, lungo il quale sono
emerse storie, si sono liberate emozioni, sono state esplorate alternative. E
proprio da questo materiale è nato il copione, che non è solo uno spaccato
della vita in carcere, ma anche e soprattutto il racconto di quello che ogni
suo abitante porta dentro sé: la depressione per il tempo trascorso senza avere
notizie dei propri familiari, l’ansia di dover fronteggiare i propri fantasmi,
la preoccupazione di che cosa lo aspetta una volta riguadagnata la libertà.
Gli operatori (Ercole, Coronelli,
Francesco Scopelliti - responsabile del Ser.t 3 - e
il personale del Ser.t) si sono dichiarati molto soddisfatti del risultato,
sottolineando l’impegno dei detenuti durante i mesi di
lavoro e anche il loro coraggio nell’accettare di mettersi in gioco. Fra i
detenuti stessi, del resto, c’è stato chi ha sottolineato quanto fosse stato
importante costruire un gruppo all’interno del quale poter dialogare.
Il teatro ha anche una valenza sociale. Una prova è proprio lo
spettacolo cui abbiamo assistito oggi.
Sì. Ritengo che il teatro sia uno strumento utile e
necessario per conoscersi e per migliorarsi. È per questo che applico le mie
conoscenze per dare un contributo nell'ambito sociale. Per il secondo anno
faccio parte di un progetto che è diretto da e coinvolge il carcere di Bollate,
con la collaborazione del Ser.t 3 dell'ASL di Milano e del Dipartimento di
psicologia dell'Università Cattolica. Il progetto è nato come recupero delle
tossicodipendenze, ma quest'anno si è ampliato, coinvolgendo altre tipologie di
detenuti. Mettiamo la pratica attoriale al servizio delle problematiche
sociali. Ai detenuti non facciamo recitare testi già scritti, ma partiamo dalle
loro storie. Li sollecitiamo a parlare, registriamo i loro racconti e poi
strutturiamo il testo che porteremo in scena. Questo nuovo testo lo raccontano
nella drammatizzazione scenica, attraverso la quale esplorano nuove terre. Non
a caso il progetto si intitola: "Raccontarsi: percorso verso la
libertà".
Qual è la relazione fra il vostro lavoro e le terapie che i
detenuti seguono?
Il nostro è un intervento che fa da supporto alle terapie
che stanno affrontando: noi, ovviamente, né facciamo diagnosi né ci sostituiamo
alle cure farmacologiche.
I risultati di questo lavoro?
Positivi. Ad esempio c’erano detenuti che avevano problemi a
relazionarsi persino fra loro: durante il percorso sono riusciti ad abbattere
delle barriere. Del resto la realtà di Bollate è tale da permettere la
creazione di un percorso continuativo: si tratta infatti di una casa di
reclusione per pene definitive e non di un carcere di passaggio come San
Vittore, dove non sarebbe attuabile un percorso che necessita di continuità,
per dare frutti.
Quali sono stati gli obiettivi del lavoro di teatroterapia che avete fatto con i detenuti del 7°
reparto?
In questo tipo di terapia ci sono due componenti: l’aspetto
ludico-artistico e quello psicologico. Gli obiettivi del lavoro sono stati
innanzitutto quello di tirare fuori la storia personale dei detenuti, facendo
in modo che la “metabolizzassero” e poi quello di creare un gruppo basato sul
rispetto di alcune regole fondamentali: la condivisione con i compagni di un
percorso e il rispetto dei tempi. Il gruppo del 7° reparto è davvero molto
buono: i membri si riconoscono come gruppo e come tale si difendono. C’è
disciplina, rispetto e solidarietà. Non in tutti i progetti che portiamo avanti
si crea questo tipo di aggregazione. Diciamo che ‑ dal punto di vista del
progetto che abbiamo portato avanti – questa volta si è formata un’isola
felice. Pensa che, nel mese di agosto, quando Mario Ercole e io non eravamo
presenti nel carcere per condurre le prove per lo spettacolo, per un paio di
settimane i detenuti si sono autogestiti perché si sono sentiti
responsabilizzati nei confronti sia del gruppo sia dello spettacolo.
La tua presenza nell’ambito del progetto prevede anche
colloqui personali con i detenuti?
Solo quando un detenuto si trova in un momento di
difficoltà. Vedi, la cosa positiva è che io non ho mai sollecitato le loro
confidenze. È stato quando è nata la fiducia nei miei confronti, che loro sono
venuti da me per raccontarmi le loro difficoltà e chiedere un sostegno
psicologico.
Nell’ambito del progetto di teatroterapia,
il gruppo di cui hai parlato non è stato l’unico.
Esatto. C’è stato un altro gruppo che, ad aprile, ha realizzato
uno spettacolo, a seguito del quale abbiamo avuto molte richieste di detenuti
di partecipare al progetto.