Conversando con Martina Fragale, al suo primo
romanzo: Chez Alì
Un intreccio fittissimo di multietnie,
cultrici esasperate della bellezza, giovani rampanti, amici letteralmente per
la pelle: ecco Chez Alì,
179 facciate che lasciano il lettore con il fiato sospeso
Martina, ti definisci una curiosa cronica. Lo sei da sempre o
lo sei diventata?
Credo
proprio di esserlo di natura: ho sempre provato il bisogno di esplorare ambiti
diversi, conoscere luoghi e persone nuove. Ti racconto un aneddoto: da piccola
avevo l’abitudine di tentare la fuga da casa; certo, il pretesto immediato era
sempre qualche lite con i miei genitori, ma la ragione reale era una sola:
volevo andare a Parigi per mettermi sulle tracce di Arsenio Lupin. Detto fatto,
facevo armi e bagagli – i bagagli erano una carrozzina
della Pantera Rosa in cui traghettavo i miei peluches più cari – e tentavo di
mettermi in strada. Ovviamente (e per fortuna!) qualche vicina di casa finiva
sempre per acciuffarmi e riconsegnarmi a mia madre…
Poi per fortuna ho imparato a leggere e ho scoperto che grazie ai libri potevo
viaggiare e conoscere senza muovermi di un passo. Ho continuato a coltivare la
mia curiosità per anni, fino alla maggiore età… e a
quel punto mi sono messa lo zaino in spalla e ho iniziato a girare per l’Europa
come una trottola.
In quali ambiti metti a frutto questa spinta
a voler conoscere?
In ambito culturale, senza dubbio: cerco di seguire e
approfondire gli input che ricevo costantemente dal contesto
in cui mi muovo. L’anno scorso, per esempio, una serie di conversazioni e
conoscenze del tutto fortuite mi hanno portata ad
approfondire vari aspetti della cultura giapponese. È iniziato tutto con un
incontro e con la lettura di un libro, L’élégance du herisson
di Muriel Barbery e da lì
in poi tutto è arrivato a fiume: il grande cinema di Yasujiro
Ozu, la letteratura giapponese classica, da Mishima a Kawabata e Tanizaki. Quando ti parlo di “ambito culturale”, ad ogni
modo, mi riferisco alla cultura intesa in senso molto allargato: spesso una
ricetta dice molto più di quanto possa insegnare un trattato di filosofia e
capita che un artista di strada riesca a suonare con più efficacia di
un’orchestra sinfonica. La cultura è un ambito ad ampio, ampissimo raggio e,
lungi dall’essere un percorso di investigazione
solipsistica, non può prescindere dal confronto con l’altro, dalla sfera dei
rapporti interpersonali. In questo senso, i principali impulsi mi sono arrivati
dai diversi viaggi che ho compiuto e che mi hanno regalato ogni volta una
tavolozza di nuove conoscenze e di nuove curiosità da
approfondire.
Laureata in storia, collabori con diverse testate culturali,
giri il mondo ed è appena uscito il tuo primo romanzo: Chez Alì. Che cosa rappresenta il tuo (primo) libro per te?
Martina Fragale.
© Foto Nelson Contreras. Per gentile concessione di Martina Fragale.
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In primo luogo una summa delle mie esperienze passate e
presenti. C’è un rapporto stretto (ma non mimetico) fra scrittura e realtà o
meglio, fra la mia scrittura e la mia realtà. E allo stesso tempo c’è un rapporto di assoluta contiguità e complementarietà tra
scrittura giornalistica e scrittura narrativa. Le stesse esperienze che mi
hanno fornito la materia prima per articoli di vario tipo, hanno costituito la
base da cui sono nati i personaggi del mio romanzo. Qual è la differenza? Gli
articoli riflettono la realtà, i personaggi e le situazioni descritte nel mio romanzo rappresentano invece una delle infinite possibilità
di sviluppo della realtà che vivo. Spesso mi capita, osservando qualcuno o
qualcosa, di immaginare cosa potrebbe fare trovandosi in condizioni alternative
rispetto a quelle reali… ed ecco che la persona in
carne ed ossa si trasforma in personaggio e la realtà diventa materia
letteraria. Hai presente la teoria dei mondi paralleli di Auguste Blanqui? È un’ipotesi più o meno
fantasiosa che ha influenzato anche la produzione di Borges…
ecco: a volte mi piace pensare al rapporto fra materia letteraria e realtà in
questi termini.
Quando e da dove è nata l'idea di scrivere un romanzo e, in
particolare, questo romanzo?
L’idea di scrivere un romanzo è maturata poco a poco, ma il
romanzo in sé è nato per caso e in modo molto spontaneo: ho aperto un foglio
word e ho iniziato a scrivere. Solo dopo i primi tre capitoli ho iniziato a strutturare la materia grezza e mi sono resa conto del tipo
di romanzo che stavo scrivendo.
Quanto c’è di autobiografico nel tuo scritto?
Molto, a cominciare dal titolo, che rimanda al caffè
egiziano di rue de l’Arbalète, a Parigi, un locale
che frequentavo assiduamente anni fa. Ho passato lunghi pomeriggi sulle
poltroncine rosse di quel caffè: fumavo narghilè e bevevo tè alla menta mentre
chiacchieravo con i proprietari, due attori del Cairo che avevano aperto il locale anni prima come café
concert. Il café concert,
poi, è sempre stato uno dei miei luoghi favoriti: a Parigi frequentavo il
“Lapin agile” e locali dello stesso tipo, più piccoli e meno famosi, ai piedi
della collina di Montmartre e anche in Germania ho avuto la possibilità di
frequentare diversi café concert. Ho sempre amato la
straordinaria vitalità artistica e la genuina convivialità che si sprigiona da
quei luoghi: l’esatto opposto rispetto al senso di isolamento
e alla cappa assordante di pseudo musica che caratterizza la maggior parte dei
locali milanesi. Ho anche tentato di tradurre la mia esperienza in musica
fondando “Les Bichmouch”,
un gruppo musicale a organico ridotto (pianoforte, tromba, canto) che cerca di
proporre nelle città italiane il repertorio del café concert dei primi del Novecento. Altri elementi
autobiografici disseminati fra le pagine del mio romanzo? Le
esperienze rovinose nell’ambito del precariato dilagante, l’incontro con il diverso,
l’approccio alla multiculturalità e la conseguente attenzione alla
contaminazione linguistica. A Parigi frequentavo praticamente
ogni giorno un locale in zona Château Rouge in cui
confluivano artisti di strada di diversa provenienza e franco algerini, berberi
e non: il francese, ovviamente, faceva da lingua franca, ma si trattava di un
francese “ad arlecchino”, contaminato da elementi diversissimi fra di loro.
Anche questo è un tema portante del mio romanzo, in cui si parla dialetto
milanese, italiano, spagnolo e “itagnolo” senza che
la diversità linguistica costituisca una barriera. L’idea di
fondo è quella di delineare una sorta di patchwork linguistico in cui è
sempre e comunque possibile comunicare… e allo stesso
tempo di riflettere una visione della lingua italiana sincretica, fluida, in
continuo rinnovamento: una realtà che si potrebbe sempre contrassegnare con il
cartello “lavori in corso” e che si avvicina più alla visione che traspare da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda che all’astratto modello accademico
di manzoniana memoria.
Qual è la tua tecnica di scrittura?
Inizio sempre a scrivere di getto e solo dopo qualche
capitolo mi fermo per fare una sinossi o una scaletta. La prima stesura è
sempre molto spontanea, è fondamentalmente materia grezza in cui tendo a privilegiare la fluidità del ritmo narrativo. In una seconda
fase, invece, mi dedico al lavoro di cesello sottoponendo tutto a uno spietato labor limae: la
tendenza non è mai ad aggiungere, ma a sfoltire, eliminare gli orpelli,
semplificare.
Ci sono condizioni particolari che privilegi
per scrivere?
Sì: avere un certo numero di persone intorno. Amo scrivere
soprattutto nei bar, sui treni, nelle stazioni; in alternativa, mi piace molto
scrivere in piena notte, magari in compagnia di una delle pipe ereditate da mio
nonno e di buon tabacco.
Il tuo libro è ricco di metafore gustosissime. Una su tutte:
"trenino anagrafico", per definire la teoria
di cognomi che una persona spagnola ha. Come le crei?
Di getto e non solo quando scrivo: la metafora fa parte del
mio linguaggio quotidiano. Credo che in buona parte questo derivi da una
circostanza: il fatto che io non abbia mai avuto la televisione. Da esterna,
riscontro infatti quanto sia livellante il linguaggio
televisivo e quanto costituisca un’inibizione nei confronti del rapporto
creativo con la lingua. Per esempio, hai mai notato quanto oggi sia
inflazionato l’uso di “assolutamente”? Facci caso: sono tantissime le persone
che non si limitano più a rispondere con un sì o con un no e devono per forza
accostare un “assolutamente” all’affermazione o alla negazione. Pare che
l’abuso di questo povero avverbio derivi da un inglesismo: cioè dalla
traslitterazione di “absolutely” nel doppiaggio
italiano dei telefilm americani. Mi sono concentrata su “assolutamente”, ma di
esempi di linguaggio televisivo potrei fartene a iosa…
Ci sono metafore e modi di dire che oggi sono del tutto livellati, li trovi praticamente sulla bocca di tutti. Quello che io tengo a
mantenere e a continuare a sviluppare, è – di contro – il rapporto creativo con
il linguaggio, caratteristica che rappresentava una peculiarità della lingua
italiana e che in certi ambiti (soprattutto dialettali), è per fortuna ancora
viva.
In copertina, il tuo libro viene
definito "sentimentale, ironico". Commenti dell'autrice?
Riguardo all’ironico concordo in pieno: l’ironia è il mio
registro privilegiato e, paradossalmente, l’unico modo che conosco per parlare
seriamente di qualcosa; riguardo al “sentimentale” ho qualche riserva: indubbiamente
nel mio romanzo una storia d’amore c’è, ma non ritengo che abbia un ruolo
centrale all’interno della trama.
Nel libro la protagonista Magda - neolaureata - srotola
avventurosamente la sua vita tra un fidanzato carrierista estremo, un lavoro
che le serve solo per sbarcare il lunario, la mafia colombiana e un gruppo di
amici che gravitano attorno ad Alì e al suo bar di giorno e cabaret clandestino
di notte. In mezzo a tutto questo viene sviluppata la
sottotrama di due fantasmi d'appartamento. A che cosa dobbiamo la scelta di
scrivere un romanzo “intrecciatissimo”?
Chez Alì è la storia di una giovane donna –
Magda – che vede progressivamente crollare la propria visione della realtà e il
concetto stesso di rassicurante “cosmo” quotidiano; il crollo è radicale e
riguarda ambiti diversi: il lavoro, il rapporto con il fidanzato, la visione
“sociale”… tutto è messo in discussione, perfino la realtà più concreta e
tangibile, che attraverso l’incursione dei fantasmi si rivela come qualcosa di
totalmente diverso da ciò che comunemente si pensa. È in questa prospettiva che
va considerato l’intreccio particolarmente fitto… La
trama, la sottotrama e le loro ramificazioni concorrono a supportare la
globalità del crollo; crollo che non è fine a se stesso e che si concluderà nell’approdo a una tabula rasa che è azzeramento
delle certezze e allo stesso tempo infinito campo di possibilità. Proprio come
nell’ultimo fotogramma di Modern Times di Charlie Chaplin.
Non hai pensato di espungere la sottotrama dei fantasmi (visto che il libro è già molto ricco) per farne un romanzo
breve (o un racconto lungo) a sé?
Guarda, in realtà ci sto lavorando su proprio
ora, ma in un ambito totalmente nuovo per me: quello del teatro lirico.
La trama che sto costruendo non ha niente a che vedere con i fantasmi di Chez Alì nello specifico, ma il filo
conduttore è “spiritico” e trattato sempre in modo comico-surreale.
Stai già pensando al prossimo romanzo?
Al momento sono concentrata sul libretto d’opera, ma ho già
in mente qualche spunto che mi piacerebbe sviluppare.