Lettera per chi rimane

dalla raccolta I racconti del cigno

“Ad una certa età andarsene in siluetta è la cosa più desiderabile.” (Vittorio Gasman)

 

State tranquilli: non ho alcuna intenzione di comportarmi come il povero ricchissimo Mazzarò verghiano.

Solo pochi di voi lo conoscono; la maggior parte non lo ha mai nemmeno sentito nominare. Per questo pregherei quei pochi di presentarlo agli ignari. Non che sia di capitale importanza tale conoscenza, ma per quanto voglio comunicare mi sembra un parallelo consolante.

Dunque tranquilli, dicevo. Tutti, dai protagonisti ai coprotagonisti, dai personaggi che compaiono e scompaiono in un batter d’occhio a quelli che sulla scena rimangono un po’ di più o addirittura un tempo piuttosto lungo.

Oh, quanto vi ho amato! Quanto vi ho sofferto!

Del resto i genitori (salvo qualche eccezione che fa parte delle regole dell’esistenza) non amano i loro figli più di se medesimi qualunque sia la loro indole, il loro comportamento?

Così io vi ho amato tutti quanti siete, belli e brutti, buoni e cattivi, simpatici ed antipatici. Vi ho amato perché vi ho creato anche se solo con penna e carta; ma per me, ciascuno di voi, è stato ben più di una serie più o meno corposa di parole divise da interpunzione perché ogni vostra azione, ogni vostro sentire, gioia, dolore, delusione erano anche miei; li avvertivo acutamente nelle latebre in un’empatia forse difficile da capire.

Tutti ho detto: dallo sprovveduto Candido all’immediata Angela, dall’impostore Artemisio all’imprevedibile Papo, dalla sognatrice Dibela all’immorale Rory, dall’intruppata Maddalena al disilluso Gioa, dall’orgogliosa Solange al saggio Berto, dall’infelice Piero all’infantile Anne, dalla diabolica Miranda all’introverso Milcare…

E tanti, tantissimi altri. Cento? Duecento? Non so di preciso e trovo totalmente inutile sottopormi alla fatica di sfogliare centinaia e centinaia di pagine per ripescarvi tutti. A che pro, del resto?

Ecco, non conosco né il come né il quando. So solo che la maggior parte dei miei decenni è scolata via. È vero quello che si dice: la morte non guarda in faccia a nessuno; è tanto vero che possiamo assistere al tragicomico spettacolo di chi viene al mondo già morto; tuttavia nessuno può negare che questo campo così insondabile che è quello dell’esistenza sia retto da una logica ferrea: più lungo è il percorso compiuto e più vicino è lo stop che non ammette deroghe.

Dunque vi lascerò per sempre: è inevitabile, ma mi siete carissimi e proprio per questo non vi voglio portare con me.

Qualche tempo fa lessi la dedica che una scrittrice pose all’inizio della sua opera e la trovai molto molto significativa. Non specificò qual era il legame che l’univa alla destinataria della sua espressa gratitudine, ma ciò è ininfluente. Ecco le parole: “[…] che mi amò tanto da lasciarmi andare.” Io, parafrasando, dirò: “ Vi amo tanto che vi lascio restare”, nel senso che non vi voglio nella bara con me. Voi rimarrete qui, sconosciuti quasi tutti e privilegiati dal fatto che non soffrirete per la mia dipartita proprio per la vostra natura.

Uniti e sconosciuti.

È vero che qualcuno di voi riuscì a mettere il naso fuori dall’uscio ricevendo buona accoglienza da quei pochi che incontrò. Ma furono solo bolle di sapone, simbolo più che eloquente dell’effimero e dello straziante senso dell’inutilità della vita. Dopo un brevissimo ondeggiare nell’aria esse svaniscono senza lasciare la benché minima traccia della loro fascinosa iridescenza e senza incidere sulla nostra sfera emotiva.

Comunque, come qualsiasi altra cosa, nulla ha più importanza ormai: vado ad aggiungere le mie “alle infinite ossa/che in terra e in mar semina morte” confortata dalla certezza che voi non soffrirete quando qualcuno vi getterà meccanicamente nell’inceneritore, o vi porterà lodevolmente al macero per la dinamica del riciclo dando vita ad altra carta che servirà per tanti svariati usi.

E mentre vi dico addio mantengo la mia promessa: vi lascio intatti senza seguire l’esempio del povero ricchissimo Mazzarò che, sentendo appressarsi la fine, invasato dalla disperazione, corre nell’aia per distruggere almeno quello che può de “la roba”. In questo caso sono i poveri innocenti animali di bassa corte che vengono ammazzati al grido:” Roba mia, vientene con me!”