Intervista al fotografo Pierpaolo Mittica

24 settembre 2011

Da Chernobyl al Kosovo, da Fukushima all'India ai "piccoli schiavi" del Bangladesh

Minatore dello zolfo accecato dai fumi tossici. Vulcano Ijen, Indonesia.

© Foto Pierpaolo Mittica

Pierpaolo, cominciamo dai tuoi inizi. Quando è nata la tua passione per la fotografia?

La passione è nata quando ero molto piccolo, a 12 anni, durante un viaggio in Francia con i miei genitori e i miei zii. All’epoca, mio zio Alfredo Fasan, fotografo professionista mi ha messo una polaroid in mano e lì è iniziato tutto. Poi, a livello professionale, diciamo che ho iniziato nel 1997.

Chi sono stati i tuoi maestri?

Il primo maestro è stato sicuramente mio zio Alfredo Fasan: lui mi ha dato i primi rudimenti di tecnica fotografica e camera oscura. Poi ho avuto Giuliano Borghesan, importante fotografo del neorealismo italiano con il quale tutt’ora mi confronto regolarmente per avere consigli e suggerimenti. In questi anni ho avuto la fortuna di entrare in contatto con dei grandi personaggi della fotografia con i quali ho stretto un bellissimo rapporto di amicizia oltre al fatto che sono diventati miei maestri, come Charles-Henri Favrod, Naomi Rosenblum e soprattutto Walter Rosenblum, il mio grande maestro.

Quali fotografi senti più vicini a te per contenuti o scelte stilistiche?

Ci sono tantissimi fotografi che mi piacciono e ai quali mi ispiro, solo alcuni nomi per citarne qualcuno: Sebastiao Salgado, Paolo Pellegrin, James Natchwey, oltre ovviamente al mio maestro Walter Rosenblum.

Con la tua fotografia racconti realtà scioccanti da Chernobyl al Kosovo, da Fukushima all'India ai "piccoli schiavi" del Bangladesh. Che cosa ti spinge a indagare queste realtà?

Ho sempre avuto la necessità di gridare il mio disappunto e la mia rabbia nei confronti di ingiustizie, ho sempre cercato di stare dalla parte dei deboli, di coloro che non possono avere voce in questo mondo e io con la fotografia cerco di dar loro lo spazio che meritano. Ho scelto la fotografia come mezzo perché ritengo che la fotografia sia un buon mezzo di comunicazione, perché a differenza dello scritto “impegna poco”, un articolo devi leggerlo, mentre per una fotografia basta un secondo per guardarla e per colpirti.

Tu sei medico odontoiatra: quanto la tua professione ti è d'aiuto nei tuoi reportage?

Direi molto in quanto normalmente affronto tematiche dove la salute umana è in primo piano, per cui la mia preparazione medica mi permette di approfondire l’argomento come ho fatto nel caso di Chernobyl.

Come si organizza, tecnicamente, un reportage?

La preparazione di un reportage parte molto prima del viaggio, quello che faccio regolarmente è informarmi in maniera approfondita sull’argomento che andrò a trattare, cercando più informazioni possibili che mi aiutino poi sul campo a fotografare in maniera consapevole, pianificando ogni punto del reportage, ogni argomento che dovrò cercare sul campo, poi ovviamente spesso quello che trovi sul campo non è quello che ti eri immaginato, oppure trovi informazioni nuove che non avresti mai trovato stando seduto sulla poltrona di casa, per cui durante lo svolgimento si modifica in base alla realtà che andremo a vedere.

Quando ti appresti a un viaggio, oltre – immagino – alla determinazione, che cosa metti nel tuo bagaglio?

La curiosità e la voglia di raccontare delle storie, di dar voce a chi nel nostro mondo moderno, dove tutto è comunicazione, è escluso completamente.

A proposito dei tuoi lavori, vorrei ricordare che dal 2002 al 2007 hai compiuto viaggi regolari in Bielorussia e in Ucraina per realizzare un lavoro sull’eredità di Chernobyl. Nel 2006 la tua mostra "Chernobyl l'eredità nascosta" è stata scelta dal Chernobyl National Museum di Kiev per commemorare il ventennale del disastro. Lo stesso anno l’editore spagnolo Ellago Ediciones ha pubblicato un libro sul tuo reportage: Chernobyl la herencia oculta. Nel 2007 lo stesso libro è uscito con l’editore inglese Trolley LTD: Chernobyl the hidden legacy. E nel 2011 è stato pubblicato in Giappone dall’editore Kashiwa Shobo. Durante quei viaggi hai incontrato bambini malati di tumore. Come ti sei posto nei loro confronti? Come avete dialogato? Che speranza sei o non sei riuscito a dare loro?

Prima di iniziare a fotografare parlo molto con le persone per instaurare un rapporto di fiducia e per conoscere le loro storie in modo da poterle raccontare in maniera corretta. A differenza di quello che si può pensare i bambini malati che ho incontrato avevano tutti una grande forza d’animo e la maggior parte di loro, venuta a conoscenza del lavoro che stavo facendo sulle conseguenze di Chernobyl, mi chiedeva di essere fotografata e di raccontare la storia, di raccontare quello che ognuno stava subendo, perché non dovesse succedere ad altri. Io ho promesso loro che avrei fatto sentire la loro voce ed è quello che cerco di fare.

Spesso fotografi in bianco e nero. La ratio di questa scelta?

Scelgo il bianco e nero perché ritengo importante fotografare a colori quando il colore è un elemento fondamentale nel raccontare una storia. Per esempio nel lavoro che ho fatto sui minatori dello zolfo in Indonesia intitolato "Kawah ijen – Inferno" ho usato il colore perché era dominante e parte importante della loro vita. Nei lavori di Chernobyl e Fukushima per esempio il colore non era importante, anzi rischiava di diventare un elemento di distrazione. Senza il colore l’occhio si concentra sul messaggio della foto e sulla composizione, gli elementi che ritengo fondamentali senza essere distratto dal colore. Questa ovviamente è la mia filosofia riguardo l’utilizzo del colore in fotografia.

Pellicola o digitale?

Fino al 2008 ho fotografato in pellicola poi sono passato al digitale. Ormai il digitale ha raggiunto e superato la qualità della pellicola; anche la stampa in bianco e nero inkjet ha raggiunto la qualità della stampa in camera oscura. Cosa che, venendo io dalla camera oscura, non avrei mai detto fino ad un anno fa. Ma gli ultimi passi in qualità di carta e di stampa inkjet mi hanno fatto cambiare idea.

La fotografia sociale è un tipo di fotografia documentaria, di denuncia. Quali sono i mezzi che usa per "parlare" emotivamente oltre la documentarietà?

Una fotografia per arrivare a catturare “l’attenzione” delle persone e per resistere nel tempo deve andare oltre la documentarietà ed essere esteticamente “bella” e compositivamente perfetta. Ciò le permette di diventare non più mero documento ma icona di un evento, di un tempo e diventare storia della fotografia.

C'è chi si fa paladino del "purismo fotografico". Fino a che punto, secondo te, i fotografi - sociali ma non solo – possono (devono?) preparare una scena, cioè aggiungere o togliere oggetti o persone per rendere più chiaro il messaggio che desiderano dare?

Secondo me la modificazione della scena può essere fatta fino a che non modifica il messaggio della foto. D’altronde la fotografia non è oggettiva, è sempre soggettiva, esprime il pensiero e l’emozione del fotografo e già solo con la scelta dell’inquadratura, quindi mettendo o omettendo soggetti all’interno del fotogramma, si modifica una scena.

Qual è la cosa che ti senti di augurare al mondo in cui viviamo?

Per il bene del mondo che finisca l’umanità, visto che non imparerà mai dai propri errori.

Dall'interno dell'hotel Polessia, zona di esclusione. Pripyat (Ucraina)

© Pierpaolo Mittica

Porto fluviale, zona di esclusione. Chernobyl (Ucraina).

© Pierpaolo Mittica

Villaggio evacuato, terre contaminate. Bartolomeevka, Gomel (Bielorussia).

© Pierpaolo Mittica

Asilo, zona di esclusione. Pripyat, (Ucraina).

© Pierpaolo Mittica

Anastasia, 4 anni, anemia aplastica. Lesnoie Borovlyany, Minsk (Bielorussia).

© Pierpaolo Mittica

Manutentore sopra l'impianto, miniera di zolfo. Vulcano Ijen, Indonesia.

© Pierpaolo Mittica

Minatore dello zolfo mentre fugge dalla nube tossica. Vulcano Ijen, Indonesia.

© Pierpaolo Mittica

Minatore dello zolfo con il suo carico mentre torna al campo base. Vulcano Ijen, Indonesia.

© Pierpaolo Mittica

Bambino di strada che vola sui rifiuti. Discarica di Demra, Dhaka, Bangladesh.

© Pierpaolo Mittica

Bambino di strada mentre raccoglie rifiuti da riciclare. Discarica di Demra, Dhaka, Bangladesh.

© Pierpaolo Mittica

Bambino di strada che cerca di proteggere i propri piedi. Discarica di Aminbazaar, Dhaka, Bangladesh.

© Pierpaolo Mittica

Bambini di strada che aspettano di andare al lavoro. Discarica di Demra, Dhaka, Bangladesh.

© Pierpaolo Mittica