Inizia in una parte
qualsiasi dell’Appennino Abruzzese, triste e così glabro da far senso.
Per gli sprovveduti il
termine Parco implica un immediato concetto: tripudio di flora e fauna. Anch’io
sono una sprovveduta. E vulnerabile. Via via che ci inoltriamo mi convinco
sempre di più che il primitivo concetto potrà essere adeguato dappertutto
magari, ma non qui. Il torpedone ha già percorso decine e decine di chilometri,
altrettante ne restano da percorrere in un paesaggio ricco di indubbio fascino.
Infatti la struttura orografica, anche se solo nelle sue grandi linee, è
rimasta pressoché inalterata. Almeno quella!
Abbacinante roccia
calcinata, liscia o scabra, imprevedibile nei suoi carsici spuntoni, crepacci,
corrugamenti, incavi. Suolo martoriato da cui le denudate radici delle magre
conifere si protendono, dignitosamente anelanti, in tacita invocazione. Ai miei
occhi esse appaiono entità dolorosamente accusatrici. Incasso in malo modo,
anche se pure l'orrido ha il suo fascino.
Non un suono, un verso,
un fruscio, un fremito, un soffio. Soltanto il disumano silenzio del terzo
regno della natura, quasi sovrano incontrastato. Silenzio non beatificante ma
che, ugualmente, ci fa meditare. Sì, perché se dapprima ritenevamo probabile un
rintanamento più interno della selvaggina, ora non ci pare più nemmeno
possibile.
Quanti animali, grossi e
minuti, possono essere scampati alla ingiustificabile e incomprensibile sete di
distruzione dell’uomo?
Qualcuno sonnecchia,
qualche altro conversa tranquillamente con il suo vicino di posto. Il pullman
intanto inghiotte chilometri ronzando sommessamente e io guardo, con intensità
vieppiù crescente a destra e a sinistra. Non che l’intenso mio scrutare a
qualcosa approdi. E nemmeno mi fa grazia di un fastidioso malessere che sale
dentro: almeno udire un battito d’ali: almeno scorgere il fugace guizzo d'una
lucertola che vengano ad offrirci il loro umile ma essenziale messaggio di
vita!
Vanamente. Eppure, con
cocciutaggine, con zelo, voglio credere che questa sia un'ora, una giornata, un
periodo particolarmente infausto: totalmente orbato per ragioni di stretta
connessione a cicli naturali, a naturali avvicendamenti.
Ma ecco Pescasseroli, la
Mecca di questa "oasi naturalistica". Concedo al cuore d'allargarsi.
Dio mio, le delusioni,
come le disgrazie, non vengono mai sole, dunque. Di verde ce n’è, quello sì.
Anche se è il verde sofisticato dei giardini. E basta.
Entriamo nel piccolo zoo
che, in quanto a squallore, supera tutti i suoi consimili, credo. Una pena
indicibile.
Ci si presenta quasi
subito un orso. Un grosso orso malinconicamente e palesemente artritico. tanto
che, al solo vederlo uno si sente il magone e pensa all’eutanasia.
La bestia, dondolando il
capo a ritmo opprimente, misura in lungo e in largo, in un instancabile
carosello di illusioni e delusioni la sua prigione recintata da un’alta rete
metallica che delimita un fossato profondo. Tetra perseveranza che unisce in un
lungo rosario di interminabili ore i grani d’una speme che nessuno va a
nutrire.
Un poco oltre, il
recinto dei lupi. Ciò che vedremo è stomachevolmente scontato. Quattro
occhietti opachi di struggente nostalgia, si posano su di noi per un brevissimo
istante. ma le otto zampe non smettono il loro frenetico, meccanico deambulare,
in quel breve spazio di terra battuta cosparso di lattuga. (Cretinissima
derisione?).
Ancora una fila di
abitacoli in muratura, l’uno attaccato all’altro. E di grucce con il loro
ospite pennuto, una puzzola e qualche altro esemplare chiudono la serie.
Ma in questo eden si
vuole strafare, sembra. Chissà perché quattro o cinque bastardi sono trattenuti
alla rete che recinge lo zoo, da cortissime catene. Abbaiano furenti in un
disperato appello e pesticciano il suolo che, nel loro breve raggio d'azione,
non presenta più un grammo di clorofilla.
L’aria è fresca e
profumata nei vialetti che corrono simmetrici sotto gli alberi ben allineati e
rigogliosi. Tutto intorno la chiostra delle cime appenniniche, accarezzate un
po’ a sghimbescio dal sole che si avvia all’occaso, incombe nella sua
incontrastata imponenza; ma quanto indifesa! L’ombra, dall’alto, scivola lungo
i fianchi grigioverdi, indugia quasi restia negli anfratti per ristagnare
quindi in pozze sempre più ampie.
E queste creature che
vedo qui, asservite inutilmente e quasi senza contropartita dalla stupidità
degli uomini dovrebbero a quest'ora ammantarsi dombra, immergersi nel profumo
del sottobosco e nel silenzio; dovrebbero entrare nelle tane o uscirne a
seconda che le guidi l’istinto.
Fantasticherie
incomprensibili ai più e vane, che tiranneggiano caparbiamente il mio spirito
annegandolo in una ristagnante tristezza tutta note pessimistiche e sfiduciate.
In tale bozzolo buio adagio i sensi e l’anima, senza lottare, senza recepire
altro che i miasmi della più brutale insensibilità.
Foto
Gloria Chiappani Rodichevski
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Ecco un lievissimo
fruscio che sento più che udire. Alzo lo sguardo quasi con trepidazione: un
paio di scoiattoli (io almeno tanti ne scorgo) saltano con la grazia e
l’agilità loro peculiari, di ramo in ramo, di albero in albero, liberi. Ecco la
parola magica: essi sono veramente liberi. Finalmente una nota gentile sulla
quale prolungare il suono fino a chiudere la sinfonia. Ma il suo tempo è
brevissimo: subito viene brutalmente stroncata da cacofonici apprezzamenti.
Perbacco, ce n'è di gente fortunata a questo mondo! Costoro, dopo aver
proditoriamente stuzzicato i prigionieri e lanciato loro qualche frizzo
grossolano, alzano lo sguardo sulle chiome degli alberi perché vedono alcune
teste girate in su.
- Che cosa guardate di
bello? -
- Gli scoiattoli. -
- Oh, Signore, se no
vedono tanti anche alla televisione. -
- Che peccato, però:
nemmeno una scimmia. -
Beati loro!