Da cosa nasce cosa. L'ebreo errante
di Eugène Sue
Ho qua tra le mani Il
cimitero di Praga di Umberto Eco (1), di cui ho testé finito la lettura. Ma
non voglio parlare di quest'opera; di essa citerò solo qualche riga che si
legge sul primo risvolto di copertina e poche altre parole più avanti.
"Ottimo materiale per un romanzo d'appendice ottocentesco, tra l'altro
illustrato come i feuilletons di quel tempo. Ecco di che contentare
il peggiore dei lettori. Tranne un particolare. Eccetto il protagonista tutti i
personaggi di questo romanzo sono realmente esistiti e hanno fatto quello che
hanno fatto."
Tale protagonista, è detto poi nel romanzo, frequenta
l'università retta dai gesuiti, ma, a suo dire, ha imparato più dai romanzi
d'appendice che da tali insegnanti. Fenomeno non solo circoscritto a lui, visto
che allerta quei religiosi, i quali "pongono una tassa di cinque centesimi
a numero ogni giornale che pubblicasse un feuilleton
a puntate. [In tal modo] le voci di coloro che avevano denunciato i mali
della società come Sue e Dumas, erano messe a tacere per sempre." (2)
Ma siamo in epoca di fermenti sociali e molti scrittori,
soprattutto francesi, riusciranno ugualmente a fare udire le loro voci. Ciò si
può evincere anche da uno studio di Giulia Deon (3),
per quanto il taglio a esso dato sia più religioso che sociologico.
A questo punto è arrivato il momento di giustificare il
titolo del presente scritto. Da che ho memoria ho sempre visto in casa, nella
traduzione italiana in cinque volumi, L'Ebreo
errante, di Eugenio Sue (4). Devo dire che mi capitò più di una volta di
passare davanti allo scaffaletto adibito ai libri
"di una certa età" che teniamo separati dagli altri, di allungare una
mano per prendere il primo volume di tale opera e iniziarne la lettura, ma sempre
la ritirai vuota, pur nella convinzione che, prima o poi "avrei compiuto
il mio dovere". Ed ecco come "è nata la cosa". L'opera di Eco si
snoda, almeno in parte, nell'ambito e nell'epoca in cui si muovono i personaggi
di Sue. Da ciò la voglia di affrontare lo scrittore francese, totalmente degno
di tale qualifica anche se i detrattori della sua epoca ricavarono un'arma, più
o meno in malafede, facendo di tutte l'erbe un fascio e definendo
"cottimisti" gli autori dei romanzi d'appendice.
Ma prima di addentrarmi nel romanzo che ci interessa vorrei
mutuare una notizia dal lodevolissimo, esaustivo
saggio di un emerito studioso, Riccardo Calimani (5).
Egli apre così la sua opera: "Ebreo [...]
la parola, nella Bibbia, è legata a 'avar, che significa passare.
Ebreo quindi è colui che passa, che
erra […]." Poco dopo lo
studioso si rifà alla leggenda ormai diffusissima, riportata da Sue stesso, sulla
quale, si può dire, poggia tutto il suo romanzo: l'umile ciabattino (al quale
Sue affianca Erodiade) costretto/i a errare
continuamente senza un minuto di pausa.
Questo episodio (di cui esistono svariate versioni più o
meno simili) fu conservato nella tradizione orale per centinaia d'anni e solo
intorno al VII secolo i monaci cistercensi lo fissarono sulla carta. In questa
prima versione l'Ebreo errante [espressione coniata dai francesi mentre in
Germania verrà detto l'eterno ebreo]
torna ogni cento anni nel luogo dell'incontro con Gesù, ma non lo trova ed
allora riprende ad errare in attesa di una condizione di riscatto [...]. Fu il
Romanticismo a trasformare questa figura dell'ebreo errante in un simbolo:
dapprima simbolo del ribelle contro la tirannia, poi dell'umanità sofferente,
del peccatore che cerca la redenzione. (6)
A proposito del ciabattino, Sue adotta la versione dell'uomo
con rughe profonde come cicatrici. "[...]
des sillons profonds qui lui barraient le visage comme autant des cicatrices."
(7). Mentre prima si legge: "Nel colloquio drammatico tra lui e il
Cristo la formulazione della condanna risulta collettiva e non più individuale
con il passaggio del "tu" tradizionale al "vous"
plurale:
Je vis Jésus
[...] il vint devant ma porte et voulant un peu se reposer j'ai dit [...] ces
paroles fort aigres: Allez, allez, allez-vous en de ma porte, je ne veux pas qu'un
Scélérat se repose là." D'aborde Jésus me regarda d'une mine triste et répondit:'Je vais et je reposerai; vous marcherez [...] jusq'au dernier jour du Jugement'. (8)
Ed ora una notizia di gran leggerezza che dà sul personale.
Sono del parere che l'espressione ebreo
errante abbia avuto tanta importanza da influenzare ogni immaginario, anche
se devo ammettere che, in questo caso, ciò che seguirà non è supportato dalla
conoscenza leggendaria o storica delle sue origini.
Nel dialetto bresciano si può trovare una rima talvolta
detta fine a se stessa, tal'altra a carico di uno sprovveduto che si ripara un
fianco contro eventuali attacchi, scoprendo l'altro: "Èl
fa cóme
l'ebrèo erànte, chè 'l sàrå sö i ös e 'l dèrf
le ànte." ("Fa come l'ebreo errante che
chiude gli usci e apre le ante", intendendo quelle delle finestre.) (9)
Per dirla sempre con Calimani:
"Greci e Romani, Assiri-Babilonesi e Persiani, popoli antichi di grande
civiltà e potenza, imperi ricchi e potenti non esistono più: solo il piccolo e
tenace popolo della Bibbia, vera e propria patria portatile, è riuscito a
superare tante tempeste e tante trasformazioni. Come è stato possibile tutto
ciò?" (10). E per rispondere a questa domanda ripercorre puntigliosamente
e puntualmente la storia di questo popolo come minimo singolare. "Nel
celebre romanzo di Eugène Sue, Le juif errant (pubblicato tre
anni prima del Manifesto di Marx) l'ebreo è il campione degli oppressi e della classe
lavoratrice. L'opera di Sue ebbe tale popolarità e diffusione che molti conoscono
la leggenda solo in questa versione." (11)
E infine un altro brevissimo cenno sul nostro Autore.
Sue Marie-Joseph, detto Eugène
[...] in crisi finanziaria lasciò Parigi ed iniziò la serie di romanzi a sfondo
sociale e umanitario che, pubblicati a puntate e seguiti da un vasto pubblico,
gli procurarono enorme successo. Tra i suoi numerosissimi romanzi in cui il
verismo non senza efficacia scade a volte nella ricerca superficiale
dell'effetto, i più celebri rimangono Les mystères de Paris (I misteri di Parigi, 1842-43); Le juif errant (L'ebreo
errante, 1844-45); Les sept péchés capitaux (I sette peccati capitali, 1847-49).
(12).
Giudizio non certo pregnante data l'impostazione dell'opera
che lo riporta, ma non del tutto fuori luogo (anche se preferirei "realismo"
a "verismo"). Difatti non si può negare che l'intreccio, con ricorso
a mezzucci, alle "combinazioni combinate", soprattutto la reiterata
descrizione dei personaggi e dell'ambiente in cui vivono (dal lusso sfrenato
alla miseria più nera - maggiore attenzione a questa che a quello)
appesantiscano la lettura. Ma non dobbiamo dimenticare che ci troviamo di
fronte a un romanzo d'appendice che ha le sue regole e i suoi tempi; e un
lettore appena un poco attento riesce con facilità a discernere il grano dal
loglio. E il grano è abbondante oltre che essere di prima qualità.
Tutti sappiamo che la regola principale di un simile tipo di
narrativa è quella di tenere il lettore legato alle pagine con il fiato
sospeso. Tuttavia Sue, oltre che tener presente ciò, si pone un fine ben più
nobile. Lo sintetizzerà appena prima della parola fine controbattendo, punto
per punto, le accuse dei suoi detrattori spinti da bassi interessi non certo
letterari. "Il nostro impegno è compiuto, la nostra opera è finita. Sappiamo
quanto quest'opera è imperfetta [...] quanto allo stile, al concetto, alla
favola. Ma crediamo poterla chiamare opera onesta, coscienziosa, sincera… Durante la pubblicazione l'hanno vituperata con
odio ingiusto, implacabile." (13)
[...] Sì, abbiamo detto, e lo ripetiamo che l'uomo laborioso
e probo ha diritto ad un lavoro che
gli frutti un salario sufficiente. Abbiamo [...] cercato di dimostrare la
crudele insufficienza del salario delle donne e le orribili sue conseguenze
[prostituzione, malattie, morte precoce]. Abbiamo chiesto nuove guarentigie
contro la facilità con la quale chiunque può essere rinchiuso in un ospizio di
pazzi. [...] (14)
Nonostante ciò, o forse a causa di ciò, possiamo venire a
conoscenza di quanto segue: "[...] lorsque
Eugène Sue entra au Constitutionnel, ou il devait publier Le juif errant ,la vente du journal passa brusquement de
3000 à 40000 exemplaires. [et] toucha 100000 F (= 400000 F actuels)"
(15). "[...] la soumission aux necessité du
feuilleton – romanesque, teâtral, artistique, litteraire
– a trasformé quelques grands écrivains en tâcherons." (16)
Purtroppo gli interessi e i privilegi delle classi alte sono troppo forti e saranno sempre difesi con ogni mezzo, per questo "La Revolution de '48 [a] incité la droit à se persuader que le
peuple avoit eté provoqué à
de tels excès par la mauvaise litterature:
romans-feuilletons à la Sue. [Il] est obligé de s'exilier
en Savoie, ou il mourra." (17)
***
E ora eccoci pronti ad affrontare l'opera di Sue, di
notevole mole, suddivisa in cinque volumi, come abbiamo detto, e consistente in
millecinquecentocinquantanove facciate, scritte a caratteri piuttosto minuti,
quindi direi congestionate, dove la media degli "a capo" va dal due
al tre per ogni facciata.
A questo punto vorrei aprire una parentesi: di mano in mano
che procedevo nella lettura la mia sorpresa aumentava dato che la trascuratezza
nel lavoro l'ho sempre ascritta agli ultimi decenni dove in qualsiasi campo non
ci si sente (o non si è costretti a sentirci) responsabili, professionali.
Difatti raramente (forse solo nei quotidiani o periodici di oggi) mi sono
imbattuta in un lavoro tipografico così trasandato. Ossia, doppie dove non
devono stare e viceversa; punteggiatura (soprattutto i puntini di sospensione)
come capita capita in quanto a numero; virgolette e
trattini per scandire i dialoghi usati in modo bizzarro (dubito che sia una
scelta dell'Autore). Ma dopo il primo impatto ci ho ripensato: l'editore
italiano, nello specifico, stampò per il cosiddetto popolo, anzi, per una misera
parte di esso dato che l'analfabetismo di allora era elevato; deficienza che
oggi prende l'aspetto della scarsa voglia di lettura. Stante tutto ciò quindi
sarebbe stata inutilmente dispendiosa un'accurata revisione delle bozze di
stampa: questo tipo di lettori va di fretta e non si sofferma certo a
considerare gli svarioni del proto, i quali, oltretutto, con ogni probabilità
non riesce nemmeno ad individuare.
A questo proposito forse pochi ricorderanno che i romanzi
d'appendice uscivano periodicamente, di solito, in fascicoli e la loro lettura
si basava sul prestito: Tizio lo prestava a Caio il quale lo passava a
Sempronio in una catena magari lunga venti o trenta anelli. Tale modo di
"acculturarsi" fu in auge fino verso la fine della seconda guerra
mondiale.
Entrando nel vivo del lavoro inizierò con il trascrivere
parte della dedica che Sue scrive "Al signor C.P." (due righe sotto
lo chiamerà Camillo):
[...] Io non dimenticherò giammai quanto le eccellenti
vostre imprese, frutto di lunga ed abile esperienza, m'hanno giovato a rilevare
e porre in atto qua e là [...] alcuni fatti consolanti o terribili connessi
mediatamente o immediatamente colla questione dell'organizzazione del lavoro, questione fatale, che presto soverchierà
tutte le altre imperciocchè per le moltitudini ella
sia questione di vita o di morte. [...] il tenero e rispettoso affetto che per
voi nutre la moltitudine di operai che voi impiegate, e di cui migliorate ogni
giorno la condizione morale e materiale, è una delle rare e gloriose eccezioni
che rendono ancor più deplorabile lo stolto egoismo cui è spesso impunemente
sacrificato un popolo di artieri onesti e laboriosi.
Parigi, 25 giugno, 1844 Tutto vostro
Eugène Sue
Più avanti nella lettura del romanzo, quando incontrai il
signor Francesco Hardy, imprenditore
"illuminato" che costruì la casa
comune per i suoi dipendenti, pensai subito con stima: dunque, almeno per
questo personaggio, possiamo constatare che Sue non "inventa" un
"buono" ma ne ha riscontro nella realtà. Casa comune che richiama alla mente il familisterio
realizzato nel 1859 (variazione del falansterio rimasto sempre un'utopia), il
quale però fallì non molto dopo pur avendo ottenuto un certo successo. Ogni
commento è inutile!
Il povero Francesco Hardy, figura
tragica già di per sé, per di più appartiene alla stirpe maledetta dei Rennepont. Sono costoro un gruppetto di sette persone,
assai disuguali, che hanno la disgrazia di essere coeredi di una ricchezza
immensa, troppo appetibile per i gesuiti il cui mal operare, però, è sempre
"ad maiorem dei gloriam".
"[...] le tonache nere sono implacabili e il loro potere è grande."
(18) Uno dei tanti sfoghi, e dei meno incisivi, di cui l'opera di Sue abbonda.
Insaziabili, diabolici, decisi a ogni delitto, a ogni turpe azione, maestri ineguagliabili
nel plagio e nel tendere la rete onde catturare coloro che decidono di
spogliare dei beni. I disgraziati che hanno la sfortuna di incapparvi, o anche
i gesuiti stessi che contano meno in questo loro mondo oscuro diventeranno
"perinde cadaver".
Sue lo spiega bene, con insistenza, dati storici alla mano (19).
Anche il nostro Autore, come tutti gli esseri umani, chi più
chi meno, conta nelle componenti del suo carattere, la contradditorietà,
la giustapposizione di elementi contrastanti tra di loro, che però, potremmo
dire, si uniscono in una costante: da una parte l'effervescenza che trascina,
di immaginazione e di fantasia, passaporto per un sano sentimentalismo;
dall'altra una visione chiara della realtà data da una mente razionale. Infatti
lo vediamo giocare abilmente con i mezzi più fantasiosi per trarre in salvo, da
pericoli mortali, i suoi personaggi o per trovare sempre altre falle nel corso
già tortuoso della sua trama al fine di trovare nuovi spunti onde tenere
agganciato il lettore. Per questo lo si può vedere, carta e penna alla mano,
impegnato in conteggi su investimenti finanziari (20); nella fatica di
conciliare un salario vergognosamente miserabile in cambio di dodici-quindici ore di lavoro quotidiano, con l'acquisto di
ciò che è il limite minimo per la sopravvivenza (21); infine, come un
imprenditore non esoso (Hardy), pur facendo vivere
bene i suoi dipendenti con le loro famiglie, possa ricavare dal capitale
impegnato il 5% d'interesse.(22) Naturalmente questo tasso dovrebbe essere comparato
con i tempi attuali per poter dare una giusta valutazione.
È chiaro che anche una mente di grande mole non può
conoscere tutto lo scibile umano; così come è chiaro che uno scrittore si
cerchi i suoi mentori che lo illuminino nei dettagli in campi specifici. E
quando ciò accade egli dimostra il serio impegno con cui s'imbarca nella fatica
di scrivere onde offrire all'eventuale lettore il frutto onesto di un onesto
lavoro.
A proposito di casa
comune il lettore odierno forse dovrà spendere un paio di secondi per far
mente locale. La parte dell'edificio riservata ai bambini non è un asilo nido
per i figli delle madri lavoratrici; non bisogna dimenticare che siamo ancora
all'epoca in cui i bambini lavorano. In quest'isola felice essi vengono usati
per incombenze adatte alla loro età, ma utili all'andamento dell'insieme, sotto
la guida di due persone adulte che si avvicendano . In tal modo i lavori
pesanti possono essere svolti più proficuamente dalle persone maggiorenni
anziché dai piccoli che si rendono utili ugualmente. Ciò perché, al tempo, la
"ricchezza" del proletario consisteva nelle braccia della sua prole
considerate forza lavoro.
Mai come in queste pagine le tendenze al socialismo
utopistico di Sue si evidenziano in modo così chiaro. Non si può mettere in
dubbio la sua buona fede, ma nemmeno si può non sentirci presi da una
disagevole perplessità: per un uomo tanto "navigato" (23), che vede
nell'alto clero una temibile potenza pronta a stringere la mano al trono e al
danaro; per un uomo che, inoltre, lungo questo suo intero romanzo,dimostra una
profonda conoscenza dei suoi simili, nella maggioranza, come creature fragili e
fin troppo facilmente corruttibili, credere nell'avvento di un socialismo
pacifico, utopistico appunto, basato sulla filantropia, sulla mano al cuore,
sorprende. Tuttavia nessuno può negare che gli ottimisti esistono, beati loro!
E chi può dire che non sia proprio questo modo di pensare, questo ostinarsi
inconsapevole a voler vedere sempre il levante rosato da un'aurora foriera di gioie
anche quando la tramontana incombe in modo innegabilmente devastante a dare la
possibilità alla nostra pallina che trotterella nell'universo di continuare a
farlo? Mah! Oramai i termini positivo e negativo sono entrati legalmente nel
linguaggio di tutti i giorni. Le parole per l'intercomunicabilità quotidiana
cambiano, diventano più sofisticate senza tuttavia cambiare i concetti che
rimangono cocciutamente sempre gli stessi. Nel caso specifico potremmo
semplicemente sintetizzare: se sei un fatalista allora abbraccia il carpe diem e
vivi leggero, buon per te; se non lo sei e ti fasci la testa avanti che si
rompa, arrangiati come ti vien meglio, tanto non potrai cambiare niente.
***
Sue è cattolico credente, cristiano convinto nonostante il
suo acceso antigesuitismo poiché la Compagnia di Gesù è solo un ramo della
Chiesa, ma enorme e ben attaccato al tronco se si pensa che i gesuiti furono
banditi da molti stati europei e che nel 1773 Clemente XIV soppresse la
Compagnia, ristabilita però, già nel secolo XIX da Pio VII. Queste brevissime
noterelle non vogliono certo rappresentare la storia della fondazione di Loyola, (Parigi, 1534); esse vogliono soltanto dimostrare
come il pensiero di Sue sia chiaro, senza ambiguità. I gesuiti quindi, con il
loro comportamento indifendibile non intaccano la purezza e la forza della fede
che si può trovare nel basso clero, nel "prete secondo Cristo", quel
Cristo che è solo amore. I due erranti sempre chiesero perdono con sentito
pentimento e finalmente il loro insopprimibile desiderio di riposo viene
soddisfatto poiché possono constatare con gioia che sono invecchiati d'un
tratto, quindi la morte – il vero riposo – è vicino prima che la condanna
primitiva sia totalmente espiata, ossia prima del Giorno del Giudizio Universale.
A questo crede Sue e lo dimostra aprendo e chiudendo il
libro con un segno inequivocabile: la Croce.
Nel Prologo, dove
forse si concentra la poesia della sua penna, leggiamo: "Sia opera del
caso o della fatalità, sotto la suola ferrata dell'uomo [l'ebreo errante] sette
chiodi sporgenti formano una croce [segue disegno]. Dappertutto costui lascia
una traccia del suo cammino." (24)
Siamo sulla sponda siberiana dello Stretto di Bering. Al di
là, su terra d'America, sta una donna molto bella; entrambi si guardano e
mentre lui è inginocchiato "stendeva le braccia verso l'America con
espressione di sconforto, di disperazione immensurabile. [Lei] rispondeva al
gesto desolato [...] additandogli il cielo." (25)
Questo l'inizio. Quasi alla fine, nella torretta della casa
piombata sita in via San Francesco, n. 5, a Parigi, vedremo lo stesso tipo di
croce (anche qui viene riportato lo stesso disegno identico al primo) ma
stavolta sono sette fori praticati nel rivestimento che imprigiona il
belvedere. In questa casa, sigillata da centocinquant'anni,
giace l'immensa ricchezza appartenente agli eredi di Mario di Rennepont. Sette persone che i gesuiti sopprimono con mezzi
sottilmente diabolici, i quali cambiano ogni volta, per impadronirsi della loro
favolosa eredità, naturalmente sempre ad maiorem dei gloriam.
È il cerchio che si chiude. Un cerchio metaforico che dà
l'idea agghiacciante del rigorosamente circoscritto invalicabile.
"[La stanza riceveva] luce da una torretta o belvedere
quadro; ma i vetri di quelle quattro facciate di quella specie di lanterna
erano nascosti da lastre di piombo forate ciascuna da sette buchi formanti una
croce." (26)
In Sue esaltazione del cristianesimo e dell'antigesuitismo
vanno di pari passo. In più momenti lo scrittore si servirà di Gabriello – bellissimo, biondo, con gli occhi azzurri – uno
dei personaggi principali nonché appartenente al gruppetto degli eredi di Rennepont. Il giovane, a differenza degli altri sei, verrà
risparmiato perché già da tempo completamente preda della Compagnia di Gesù che
prima lo convince, con un inganno, a farsi prete, poi lo convince a cederle la
propria enorme eredità. Atto che, del resto, lui compie con assoluta
noncuranza. Risparmiato come vita ma non dall'ostracismo più vile, purtroppo.
Incontriamo per la prima volta il giovane Gabriello in dimensione onirica ad opera delle gemelle
Bianca e Rosa Simon, "le orfanelle". Abbastanza presto tuttavia gli
incontri si faranno più frequenti, ma sarà l'incarnazione fedele dell'oggetto
dei sogni delle gemelle.
Gli incontri avverranno nelle situazioni più disparate e
disperate (come del resto avviene con tutti i personaggi principali); alla fine
lo lasceremo per sempre dopo aver letto una sua lunga lettera permeata di amara
malinconica rassegnazione. "[Non certo possiamo essere bene accetti
dall'alto clero] noi poveri preti delle campagne, o curati di città, proletari
del clero, semplici operai della vigna del Signore." (27)
I personaggi di questo romanzo, tra importanti e meno,
superano la trentina. La maggior parte di essi gioca un ruolo di primo piano,
ma anche i meno importanti, quelli che potremmo definire comparse, non si può
dire che vengano trascurati, circoscritti in un ambito ristretto come comporta
il loro ruolo, dall'abile penna del loro creatore. Un esempio: mamma Arsene, la
venditrice di carbone, latte, legumi in un bugigattolo di via Clodoveo, n. 4. Pochi tratti e qualche battuta ed eccola
viva davanti a noi, nella sua dignitosa, miserabile solitudine; persino quando
la intravvederemo ormai cadavere, attraverso gli
occhi della Regina Baccanale, vittima, come altre migliaia del colera, in
attesa di sepoltura, riuscirà ad imporsi alla nostra attenzione. (28)
È solo un personaggio minore, abbiamo detto, appena un poco
più individuabile degli scioperati al seguito della Regina Baccanale, o a
quegli altri che cercano di stordirsi nella sconvolgente Mascherata del colera. (29). Là è l'individuo anonimo che fa parte
della massa anche nella solitudine; qui è la pluralità che diventa massa, mai
compatta fino in fondo, ma sempre pronta a disintegrarsi al minimo soffio di
vento contrario.
Nel suo libro Sue segue la falsariga d'obbligo in questo
tipo di narrativa. I "cattivi" (prendiamo fra tutti il gesuita Rodin, che grandissima parte ha nella vicenda ed è
l'essenza pura della malvagità più diabolica) sono brutti, magari deformi,
antipatici, scostanti, sudici nell'abito e nella persona; e durante l'intero
romanzo queste qualità verranno ripetute spesso, in parte o in blocco. Tutte le
qualità contrarie invece sono riservate ai "buoni"per i quali vale la
stessa tecnica narrativa. Prendiamo, come prototipo, Adriana di Cardoville. (30)
A questo cliché, tuttavia, esiste qualche eccezione; la più
appariscente è la povera Maddalena, conosciuta da tutti – ella stessa
consapevole e ormai abituata – coma la Mayeux
(aggettivo dispregiativo per una persona gobba e sgraziata). Ella rappresenta
la bontà, la lealtà, la purezza, la generosità fino ad abnegarsi, nonché la
rassegnazione tanto più sudata in quanto priva del supporto della fede in un
dio qualsiasi essendo miscredente.
Perché non pensare che Sue, con questo personaggio di grande
spicco nell'economia del romanzo, non abbia voluto richiamare l'attenzione che
la fede pura e semplice, non rende buoni se non lo si è già? Anzi, se un credente
non si autoanalizzasse spesso, potrebbe cadere
nell'egoismo più sordido trincerandosi dietro la certezza che basta affidare sé
e gli altri a Dio il quale pensa a tutto. Illazioni gratuite che lasciano il
tempo che trovano oppure motivo di riflessione.
Una trentina e passa di personaggi, magari inverosimili come
inverosimili sono le situazioni in cui vengono a trovarsi, ma tutti fedeli a se
stessi dal principio alla fine, tutti dotati di coerenza tra pensiero ed
azione. L'analisi saputa, profonda della psiche di ciascuno di loro, che
interagiscono in dimensioni logistiche e temporali tanto varie, non possono che
creare intrecci da capogiro; intrecci che si diramano intorno ad una trama già
tanto complessa di per sé. Il tutto però riesce a camminare con passo sicuro,
su suolo solido poiché il filo che li unisce è tracciato da una grande penna ed
è fatto di solida logica.
È risaputo che nessuno scrittore riesce a esimersi dal
concedersi, nei suoi lavori , almeno qualche cenno autobiografico. Sue è vissuto
da dandy per parecchi anni
frequentando la Parigi bene. Forse da qui il compiacimento di una descrizione
tanto dettagliata delle abitazioni, delle abitudini, del modo di abbigliarsi e
di comportarsi (quanto di vero in questa antedannunziana
atmosfera?) di Adriana di Cardoville, ricchissima,
bellissima, generosissima, spirito indipendente, colta con spiccato senso del
bello e fiera sia da vincitrice sia da perdente (più questo che quello facendo
parte del gruppetto erede di Rennepont).
Siamo alla fine della storia che l'Autore affida ad una
lettera, di cui già si è detto, mandata da Gabriello
a Giuseppe, un parroco amico carissimo. "[...]. Dunque dopo avervi
proibito di vedermi il vostro vescovo proibisce anche di scrivermi? [...].
Poiché lo vogliono anche questa lettera sarà l'ultima, addio o mio amico; addio
un'altra volta, e per sempre addio ... Mi si spezza il cuore..." (31)
Questa lettera è molto lunga e serve da resoconto perché lo
scrittore adempia all'obbligo che si è assunto verso i suoi lettori, i quali,
dopo pagine e pagine di colpi di scena e di cuore sull'aspo, hanno il diritto
di sapere "come va a finire". Ma non è un finale smaccato dove le
agnizioni riparano alle ingiustizie subite dai derelitti, dai diseredati, dai
bastardi perché i "buoni" possano vivere "felici e
contenti".
Anche qui la famiglia Baudoin (che
tutta intera fa parte dei personaggi principali , soprattutto il capostipite Dagoberto che entra in scena quasi subito) vive serena, ma
la sua serenità è una conquista quotidiana poiché se la miseria più nera è
stata bandita, la povertà rimane ed è fatta di duro lavoro, di sacrifici, di
rinunce. Una famiglia in seno alla quale è ritornato anche Gabriello
(il bambino abbandonato che la buona Francesca, moglie del soldato Dagoberto, aveva accolto e allevato amorevolmente assieme
al suo Agricol). Nel gruppo vive anche l'infelice Mayeux (ne fece sempre parte pur non convivendo) la quale
si accontenta di assistere alla felicità che il bravo Agricol
vive con la moglie legittima. Quell'Agricol che ella
amò sempre perdutamente in silenzio.
In genere il romanzo d'appendice reca un messaggio unico:
"Finalmente giustizia è fatta. Chi semina vento raccoglie tempesta".
Per L'ebreo errante, ugualmente
nobile ma più fattibile, meno chimerico, il messaggio è questo:" L'amore
vince (quasi) ogni ostacolo".
NOTE
(1) Umberto Eco, Il
cimitero di Praga, Milano, Bompiani, 2010.
(2) Ibidem, pag. 97.
(3) Giulia Deon, Momenti della fortuna dell'Ebreo errante in
Francia, Milano, Cisalpino – Istituto Editoriale Universitario, 1993.
(4) Eugenio Sue, L'ebreo
errante, Milano, presso Giuseppe Reina, 1849.
(5) Riccardo Calimani, La storia dell'Ebreo errante, Milano,
Rusconi, 1987.
(6) Riccardo Calimani, op.cit., pagg. 13-15.
(7) Giulia Deon, op. cit., pag.89.
(8) Giulia Deon, op. cit., pag. 77.
(9) Celeste Chiappani Loda, Studio dialettologico della Bassa bresciana, sezione Proverbi, modi di dire, similitudini,
metafore, dattiloscritto, pagg. 73-476.
(10) Riccardo Calimani, op.cit., pag. 9.
(11) Riccardo Calimani, op.cit., pag. 15.
(12) Enciclopedia
Universale Fabbri, vol.XII, Milano, Fabbri
Editori, 1971.
(13) Eugenio Sue, op. cit., vol. V, pag. 311.
(14) Eugenio Sue, op. cit., vol. V,pagg. 313-314.
(15) Max Milnel, Le Romantisme I,
1820-1843, Parigi, Arthaud, 1973 – pag. 37.
(16) Claude Pichois, Le
Romantisme II, 1873-1869, Parigi, Arthaud, 1979, pag.209.
(17) Claude Pichois , op. cit., pag. 249.
(18) Eugenio Sue, op. cit., vol. V, pag. 16.
(19) Eugenio Sue, op. cit., vol. V., pagg. 68-73.
(20) Eugenio Sue, op. cit., vol. III, pag. 17.
(21) Eugenio Sue, op. cit., vol. I., pag. 263.
(22) Eugenio Sue, op. cit., vol. IV, cap. Centesimoquinto e relative note.
(23) Sue fu, da giovane, chirurgo sulle navi.
(24) Eugenio Sue, op. cit., vol. IV, pag. 10.
(25) Eugenio Sue, op. cit., vol. I, pag. 12.
(26) Eugenio Sue, op. cit., vol. V, pag.293.
(27) Eugenio Sue, op. cit., vol. I, pag. 105.
(28) Eugenio Sue, op. cit., vol. III, pag. 112.
(29) Eugenio Sue, op. cit., vol. IV – pag. 187 e segg. e
note
(30) Eugenio Sue, op. cit., vol. II, pagg. 12-18 e vol. V,
pagg. 269-277.
(31) Eugenio Sue, op. cit., vol. V, pag. 307.