Rosso

Allo stremo delle forze, piccolissimo, miagolante da spezzare il cuore, lo raccolsi vicino a un cassonetto delle immondizie.

Per fortuna era un maschio così potei aggiungerlo tranquillamente agli altri due trovatelli: Patanì e Batanda. Il primo grosso, bianco a larghe chiazze nere, fiero e dotato d'uno spirito d'indipendenza superiore al normale; il secondo di taglia un po' più piccola, candido dal primo all'ultimo pelo, sornione e ladro anche senza necessità. Ed ora l'ultimo arrivato che rimase di taglia piccola anche fatto adulto, piagnucolone ed affettuoso, con una sua fierezza, anche se meno forte e meno manifesta di quella di Patanì.

Non sforzammo le meningi per trovargli un nome, ispirandoci semplicemente al colore del suo pelo, non eccessivamente diffuso ma nemmeno tanto raro tra i gatti bastardi, ossia color carota un po' smorto. Forse sarebbe stato più giusto chiamarlo Carota, ma Rosso ci parve più gagliardo.

Patanì accolse il nuovo venuto molto male. Non aveva accolto bene nemmeno Batanda a suo tempo, ma forse, non essendo da molto con noi, non gli era ancora ben chiaro il concetto che è una gran bella cosa non dover dividere in troppe parti l'affetto e le attenzioni che un ambiente può offrire. Per questo accolse il primo senza soffermarsi troppo sul significato di una presenza in più; ma il nuovo arrivato, probabilmente, gli chiarì le idee accendendo in lui una grande ostilità contro il povero gattino, anche se non l'aggredì mai accontentandosi di mostrargli i denti minacciosi qualora non mantenesse le dovute distanze. Povero Patanì, del resto, dividere per due ancora ancora, ma dividere per tre dovette apparirgli veramente troppo.

Era sua abitudine restarsene assente anche quarantotto ore di fila e quando tornava era sempre affamato come un lupo. Se trovava il cibo non di suo gradimento (con tre gratti da sfamare si andava piuttosto per le spicce) lo annusava appena, quindi, con la fierezza di un cavaliere senza macchia e senza paura, se ne andava, non prima di aver gratificato i presenti di uno sguardo colmo di disprezzo. Qualora invece il cibo fosse di suo gusto se ne rimpinzava, badando nel contempo, a creare intorno a sé, con un atteggiamento che non lasciava dubbi sulle sue intenzioni, un cerchio ideale, la cui circonferenza tuttavia risaltava molto chiaramente, come fosse tracciata con un solco profondo; nessuno osava varcarne i confini. Una volta sazio giungeva a degnarsi di ringraziare con un robusto miagolìo, dopo di che andava ad acciambellarsi in qualche angolo fuori mano dove dormiva assai a lungo.

Per quanto concerne Rosso, con Batanda invece le cose andarono a gonfie vele. I due fraternizzarono subito giungendo persino a dormire letteralmente abbracciati, a mangiare nella stessa ciotola, a uscire e a tornare insieme non di rado.

Come abbiamo detto Batanda era un grande ladro; Rosso invece aveva un altro vizio non meno dannoso per noi. Appena gli era possibile amava divertirsi saltando sul tavolo di cucina per fare piazza pulita di ogni oggetto che vi si trovasse e che fosse adatto alle sue forze: a colpi di zampa, lento e metodico, spingeva l'oggetto sull'orlo fino a farlo rovinare al suolo. In tal modo capitò piuttosto spesso di dover raccogliere cocci di stoviglie e di bicchieri.

Il tempo intanto scorreva tranquillo, ma venne il giorno in cui tutto l'insieme si guastò.

Per primo se ne andò Patanì finito sotto le ruote di un'automobile. Lo trovammo con la testa fracassata a pochi metri dal nostro cancello, con inconfondibili impronte di pneumatici rosse che si prolungavano al di qua della sua pietosa, misera carcassa per un paio di decimetri o poco più. Visione orribile che ci accompagnò per lunghissimo tempo.

Dopo qualche mese toccò a Batanda lasciarci; ma stavolta il dolore fu più incisivo in quanto non lo vedemmo più tornare e nulla ci poteva garantire che la sua morte fosse stata presumibilmente rapida come quella del suo compagno. Non perdemmo subito la speranza di vederlo comparire, ma essa svanì presto; ci rimase soltanto il suo vivo ricordo accompagnato a quello di Patanì.

Ora Rosso era solo e la sua tristezza era così corposa ed evidente che ci stringeva il cuore. Stato di cose che durò fin troppo a lungo; pian piano comunque, alla fine il poveretto si acquietò riprendendo la sua vita normale di gatto.

Avvenne che, per una certa faccenda, avremmo dovuto assentarci tutti da casa per tre giorni. Il problema della bestiola era serio non potendo portarcelo appresso, inoltre era brutta stagione e non avevamo nessuno cui poterlo affidare. Avremmo potuto chiuderlo fuori improvvisando un riparo in terrazza, ma il cibo? Molti gatti vivevano nella zona e in un batter d'occhio avrebbero spazzato via tutto lasciando digiuno il povero Rosso.

Pensa e ripensa alla fine ebbi un'idea che mi parve ottimale: avrei rinchiuso il gatto in cantina, ben illuminata e asciutta, fornendolo di tutto, segatura compresa. Provvidi anche a distribuire acqua e latte in più recipienti piccoli, poiché raccogliendo tutto il liquido in un solo recipiente grande, qualora la bestia l'avesse rovesciato, sarebbe rimasta al secco.

Dopo ciò partimmo in tutta tranquillità certi che, non appena tornati, il prigioniero avrebbe ripreso la sua vita normale dimenticando immediatamente quella che per lui doveva essere stata un'esperienza poco gradevole.

Naturalmente la prima cosa che feci al ritorno fu di liberare Rosso.

Mentre scendevo la scala della cantina ero convinta di trovare il solito lezioso micio coccolone che mi si sarebbe subito strusciato contro le gambe. Quale non fu quindi la mia sorpresa quando, appena aperto l'uscio, la bestia mi saettò davanti con un miagolìo inferocito, infilandosi subito fuori per correre a rifugiarsi sul ramo più alto del grosso fico che allignava di fianco alla porta lasciata aperta.

Lo seguii chiamandolo con tutti i toni di voce possibile, ma il gatto restò imperterrito a fissarmi con un cipiglio che trovai teneramente comico. Nel frattempo, la coda che spenzolava dal ramo, dritta in tutta la sua lunghezza, si dimenava con moto pendolare come un serpente pronto all'attacco.

– Sentimi, tu, carognetta, – sbottai alla fine, – quando t'è passata, scendi. –

E rientrai subito assorbita dalle molte faccende da sbrigare e decisa a non spendere per quel capriccioso nemmeno un pensiero. Ciò anche se, scendendo in cantina per pulire, notai che il cibo lasciato era quasi intatto.

La mia tranquillità durò fino al mattino seguente quando aprii la porta che dava sulla terrazza, sicura di trovare Rosso, acciambellato come sempre sullo zerbino, nell'attesa di entrare. Ma del gatto nemmeno l'ombra. Mi guardai attorno chiamandolo senza convinzione: la scena del giorno prima, di un Rosso così inaspettato, m'apparve ora rivestita di un triste presagio.

L'ansia si fece subito divorante. Era caduto nelle mani di…? Giaceva gravemente ferito, ammalato da qualche parte? Di tanto in tanto, come avevo fatto con Batanda, cercavo di pensare che, in fondo, non era impossibile una morte come quella di Patanì; mai accettabile, ma almeno preferibile a moltissime altre. Tuttavia la speranza di vedermelo comparire davanti da un momento all'altro, cadde stecchita: erano passate due settimane, ormai.

Ma ecco l'incredibile.

Una mattina sul tardi udii l'inconfondibile miagolare di Rosso, ma non volli crederci; però esso si ripetè, per cui corsi fuori e lo vidi.

Se ne stava tranquillamente seduto sul muricciolo che fa da base alla rete di recinzione, però dalla parte della strada. Appena mi vide miagolò di nuovo, ma non si mosse.

– Rosso, oh, Rosso, vieni! – quasi gridavo avvicinandomi a lui pur rimanendo al di qua della rete. Ero convinta che da un momento all'altro l'avrebbe scalata come aveva sempre fatto. Invece il gatto si limitava a guardarmi con occhi, direi, amichevoli, senza tuttavia muovere un muscolo. Allora aprii il cancello per uscire in strada e prenderlo in braccio; senonché, appena fui alla sua portata, Rosso fece un balzo mettendosi a correre lungo la via. Dopo aver superato tre o quattro metri si fermò e si girò a guardarmi miagolando nel suo modo lezioso. Cercai di rincorrerlo, ma fatti alcuni passi capii che sarebbe stato ridicolo. Infatti, appena l'animale vide che mi ero mossa, svelto come il fulmine guadagnò spazio sparendo oltre l'angolo.

L'ultima visione che ebbi di lui fu una piccola massa color carota smorto in movimento veloce.

Non mi restava che rientrare.

Amareggiata o rincuorata? L'uno e l'altro. E mentre mi soffermavo a stabilire questo fui convinta di aver trovato l'unica chiave di lettura di un comportamento tanto inconsueto. Rosso era venuto a tranquillizzarmi sulla sua sorte. Stava bene, potevo constatarlo, come quando era da me, ma il terrore che in avvenire avessi potuto privarlo nuovamente della sacra libertà segregandolo in una solitudine immeritata, era talmente forte che gli dava il coraggio di lasciarmi per sempre.

Dedussi che si era imbattuto in una famiglia che l'aveva accolto con amore e mi chiesi: in caso contrario, che cosa avrebbe avuto la meglio, la fame o il rischio di una nuova eventuale prigionia?

Dopo una quindicina di giorni Rosso tornò: stessa scena, soltanto che stavolta mi limitai a guardarlo restandomene in terrazza. Stava sicuramente bene e questo mi doveva bastare.

Non lo rividi più.

 

 

Dalla raccolta inedita Vivere con loro