Incontro casuale
Fernán Caballero (1796-1877), è il
nome di un villaggio vicino a Cadice ed è stato assunto come pseudonimo dalla
scrittrice spagnola (di padre tedesco) Cecilia Böhl
de Faber. Sotto tale pseudonimo ella firmò la quasi
totalità della sua cospicua produzione letteraria. Il successo in patria fu
grandissimo, mentre all’estero fu un po’ meno conosciuta, anche se di lei
s’interessarono Edmondo de Amicis e Benedetto Croce;
la qual cosa mi pare tutt’altro che trascurabile.
Contrariamente a quanto si potrebbe evincere da questo
cappello non è nelle mie intenzioni fare della critica letteraria sulle opere
della Caballero; mi cimenterò invece nel tentativo di
attirare l’attenzione su alcune parti che mi hanno straordinariamente intrigato,
totalmente catturata durante la lettura del breve romanzo Un’estate a Bornos, che ella scrisse nel 1854, riportando però l’azione al 1850. Tale
opera fu tradotta e pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 1962. Edizione cui
faccio capo. Riporterò, giusto per dare un’idea del favore che incontrò la
scrittrice, una frase che possiamo leggere nell’Introduzione: «È [...] il primo
romanzo “par lettres” della letteratura spagnola.»
(pag. 8)
Per chissà quante persone ciò che intendo estrapolare
dall’opera citata non rappresenterà nulla di nuovo essendone già a conoscenza,
ma è mia convinzione che altrettante siano quelle cui giungerà nuova la fonte
dalla quale scaturisce il presente lavoro.
Tuttavia, prima di mordere il nocciolo di quanto desidero
esporre mi è d’uopo una breve digressione che funga da aggancio, che
giustifichi e supporti l’essere del presente scritto. Io faccio parte di quella
esigua, ahinoi!, schiera di persone che per tutta la vita hanno fatto
dell’amore per gli animali, della loro difesa uno scopo imprescindibile
adoperandosi sempre con l’esempio, che è la base precipua di ogni insegnamento
e con la parola anche scritta, affrontando spessissimo l’indifferenza e anche
il dileggio. Non so se tutti coloro che mi sono sodali in simile lotta impari condividano,
ma io considero i cosiddetti non umani gli unici esseri veramente innocenti che
hanno popolato, che popolano, che popoleranno la Terra. A questa mia asserzione
più di uno mi ha opposto: ma essi ti sbranano, ti avvelenano, tra loro stessi
si fanno lotte spietate... Ci fu addirittura un accanito pescatore “sportivo”
il quale asserì che i pesci, dopotutto, hanno possibilità di scelta: sta a loro
(sic!) abboccare o non abboccare. Mi pare che qui si tocchi l’acme dell’obnubilamento
mentale. Ricordo soltanto che rimasi senza parole.
Bene, per ognuna delle asinerie sopraddette esiste una
risposta più che logica che, puntuale e instancabile, mi sono sempre premurata di
offrire pur nella debilitante convinzione di gettare le perle ai porci; ma
ormai sono giunta all’esaurimento, aggravato dal pensiero che tutta la mia
semente sia caduta in squallida morena; per la qual ragione ho tirato i remi in
barca. Però sappiamo come le abitudini inveterate siano ben lunghe a morire
così che, qualora qualcuno riesca a sfondare la barriera del mio isolamento e
me ne offra il destro, trovo ancora fiato e lo uso anche se ormai è solo una
pallida eco di quello che fu: le delusioni hanno il potere di fiaccare ogni
spirito.
Purtroppo però nella mia specie di tebaide non c’è pace
perché non riesco a raggiungere quel beatifico stato di rassegnazione che può
sfociare nell’ambita atarassia. Il pensiero, con crudele caparbietà, corre
sempre in quella direzione. “[…] le sofferenze [...] soprattutto quelle degl’infelici
animali, quasi sempre senza lamenti, quasi sempre senza protezione, quasi
sempre inosservati alla maggior parte della gente […] [sono] il continuo
tormento dell’anima mia.” (pag.86)
Sofferenze, sia inflitte dall’uomo nel suo agire
delinquenziale, sia dalla Natura stessa che è ben cruda con le sue inesorabili
leggi che la regolano, le cosiddette leggi della giungla.
Consequenziale ecco la domandina urticante: qual è il premio
per gli animali onde ripagarli del loro patire?
L’uomo fortunato si rifugia nella confortante sfera fideistica:
di là sarò abbondantemente ripagato di tutte le mie pene. Ma le bestie? La
non-risposta data, più o meno in buona fede, è semplice: Non si può fare il
paragone perché l’uomo ha ricevuto un’anima mentre gli animali ne sono privi.
Diciamo pure che questo è un risvolto del problema che può
essere considerato un’appendice trascurabile; e in certo qual modo lo è se
consideriamo il tutto da un punto di vista pratico; perciò non è facile
trovare, tra i cosiddetti animalisti, chi si sofferma su considerazioni del
genere, ecco perché qui, in coincidenza con alcune righe estrapolate, pongo
fine alla mia digressione.
Sin dall’inizio della lettura di Un’estate a Bornos ci si accorge di avere
a che fare con una che conosce il mestiere (romanticismo “obbligato” a parte),
e fin qua tanto meglio per il lettore; ma ecco che già dalle prime righe
dell’opera, subito dopo l’Introduzione (pagg. 24-25), m’imbatto in quello che
mi cattura, che mi coinvolge in modo diretto. Sono le considerazioni scambiate
per lettera da due adolescenti.
“[Viaggiando in carrozza ho] la disgrazia di provare una
dolorosa, veemente e profonda compassione per le povere bestie che ci servono e
che l’uomo compensa così iniquamente dei loro servigi, sia con il barbaro
trattamento che infligge loro, sia per il crudele abuso che fa della loro
forze. [...] Mi si spezza il cuore e mi indigna la mente il crudele cinismo che
si scatena qui da noi in Ispagna, senza che vi si
opponga qualche ostacolo che altro trafiletto su per i giornali ai quali nessuno
bada [...]. medito [...] profondamente su questo atteggiamento scandaloso e
vedo che tutti quanti i governi che si succedono non hanno fatto nè fanno nulla in questo campo di autentica e benintesa civiltà [...]. Sofferenza immeritata e senza compenso
alcuno! [...] Nel campo delle idee è un assurdo; in quello dei sentimenti è una
mostruosità, e non dovrebbe essere permessa nè dal
punto di vista religioso né da quello morale.”
Ecco, questo per me è un punto doloroso che lascia smarriti
e che implica, per una Caballero cattolica
inossidabile, un conflitto interiore non indifferente. Mi pare lecito dedurre
che ella non può fare a meno di farlo trasparire ma può solo accennarne
affrettandosi a sminuirne il potere conturbante lasciandolo lì, in sospeso,
poiché approfondendolo arrischierebbe di incappare in dubbi pericolosi.
Ma continuiamo a leggere la lettera di risposta a quella di
cui sopra, nella quale si parla di una persona di comune conoscenza. «[...]
ieri [fu il] primo giorno in cui assistette a una corrida, quando gli domandai che effetto gli aveva fatto: Sono
indignato – mi rispose – contro gli uomini e pieno di compassione per gli
animali”.» (pag. 69).
Poi l’autrice della lettera conclude: «[...] noi vogliamo
tutto quanto all’uso forestiero, e [...] soltanto per le barbare corride dei
tori conserviamo intatto il patriottismo e l’attaccamento a tutto ciò che è
nazionale. Che razza di aberrazione!» (pagg. 69-70)
Più avanti ricorda: «Ti rammenti di quella volta che volevi
fondare un’associazione femminile per la protezione degli animali, di quegli
esseri senza difesa al cui martirio assistiamo continuamente senza poterlo
alleviare in nessun modo; ti ricordi le beffe e gli scherni che ti indirizzarono
quelli che si radono?» (pag.71)
Naturalmente il romanzo non finisce qua, ma per assolvere il
compito che mi ero assegnato mi bastano queste righe. Esse sono
sufficientemente significative, sufficientemente atte a portare ad una
conclusione amarissima, bastante a smorzare ogni anelito al bene; a imporre di
issare bandiera bianca a coloro che combattono da questa parte della barricata.
Righe che sono state vergate ben centocinquantasei anni fa e che possiamo
leggere o ‑ adesso – udire pari pari ogni
giorno. Non ho certo la dabbenaggine di ritenerle le più “attempate”, dal
momento che pare che l’inarrivabile Leonardo abbia preconizzato l’arrivo di un
giorno in cui anche gli animali potranno godere degli stessi diritti dell’uomo.
Obiettivamente, guardando con attenzione, si può
intravvedere qualche fievolissima spia che ci
testimonia come quel grande fosse anche profeta, presa per certa la frase che
gli si attribuisce. Ma quanto ci corre da qui al rispetto, se non all’amore
totale per i nostri compagni di viaggio! La strada è ancora tutta in salita e
la buona volontà, gli sforzi dei pochissimi non sono certo mezzi idonei per
percorrerla con successo ed attingere ad un’utopica meta, se consideriamo poi
che anche le leggi che tutelano i diritti degli uomini sono fin troppo
sfacciatamente disattese.