Intervista all'arpista Vincenzo Zitello
7 febbraio 2009
Vincenzo, sei pioniere e primo divulgatore dell'arpa celtica
in Italia nonché concertista di livello mondiale. Vuoi raccontarmi i tuoi
inizi?
Vincenzo
Zitello durante il primo incontro della rassegna La Musica nell'uovo, libreria la Feltrinelli
Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
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Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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L'arpa è lo strumento con il quale, da subito, volevo
accostarmi alla musica, ma era considerato adatto solo alle bambine, perciò mio
padre mi avviò allo studio del violino. Verso i 14-15 anni cominciai le prime
sperimentazioni. Successivamente conobbi Franco Battiato che stimolò in me il
gusto della ricerca e mi invitò a far parte ‑ come violinista ‑ del
gruppo "Telaio Magnetico".
Tra le tue collaborazioni non c'è solo quella con Battiato.
Ci sono quella molto lunga con Ivano Fossati, quelle con
Fabrizio De Andrè e con tanti altri. Non si tratta solo di collaborazioni,
comunque, ma anche di persone che ‑ in alcuni momenti difficili ‑
mi sono state vicine.
Torniamo alla tua storia.
Nel 1974 ascoltai Renaissance de la harpe
celtique,
un album di Alan Stivell, che mi colpì
profondamente. Tra l'altro mi trovavo di fronte alla cosa che avevo sempre
voluto per me: un uomo che suonava l'arpa. Eravamo nel 1974 e mi misi subito alla ricerca dell'arpa celtica, che trovai nel
1976, quando – cioè – la professoressa Luciana Chierici della Civica Scuola di
musica di Milano fece importare venti arpe irlandesi da Waltons di Dublino. Mi misi in
contatto con Mara Galassi (diplomata in arpa moderna,
successivamente si dedicò alle arpe storiche) perché volevo studiare con lei, ma
non fu possibile. Allora cominciai a frequentare stage di cultura e di musica
bretone tenuti al "Ti Kendalc'h" da Dominig Bouchaud e da Mariannig Larc’hantec. Nel 1978 formai il duo d’arpa e oboe con Roberto
Mazza.
A quando risale il tuo perfezionamento con Alan Stivell?
Al 1980: mi perfezionai
in arpa bardica e in canto celtico.
Come continua la tua cronologia artistica?
Vincenzo Zitello all'arpa e Vittorio Sorrentino al suono. Primo incontro
della rassegna La Musica nell'uovo,
libreria la Feltrinelli Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
© Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Continua con la formazione
del duo "Asciara" assieme a Saro Cosentino nel 1985 e con la registrazione di un 45
giri prodotto da Franco Battiato per la EMI elaborando un brano tradizionale
irlandese cantato in gaelico. Nel 1987 pubblicai il mio primo album Et Vice Versa, interamente consacrato a
composizioni per arpa celtica con corde in metallo.
E, dopo il primo album, arrivarono il secondo, il terzo, il
quarto…
E su su fino all'ottavo. Ora sto lavorando al nono. Dunque, il
secondo, Kerygma,
risale al 1988: due anni dopo venne pubblicato negli Stati Uniti, in Canada e
in Australia con il titolo Euphonia. Nel 1994 uscì il terzo album, La Via, che fu pubblicato in Europa nel 1996 con il titolo Serenade. Nel
1998 arriviamo al quinto CD: Aforismi d’arpa. Nel 2001 è la volta di Concerto e nel 2005 di Solo,
interamente suonato con arpe celtiche e bardiche. Due
anni dopo giunge Atlas.
Abbiamo parlato di tre tipi di arpa: quella moderna, quelle
storiche e quella celtica. Se ti chiedessi di raccontarmi l'impatto emotivo che
ti provocano?
L'arpa moderna è uno
strumento mentale, che non permette evoluzione e questo lo si vede molto bene a
livello storico: tutto sommato pochi l'hanno affrontata e quei pochi l'hanno
fatto in modo canonico e scarsamente creativo. È uno strumento di falegnameria,
non di liuteria: le arpe moderne sono fatte per suonare quel certo tipo di
musica e basta. Pensa invece al violino: è suonato ovunque, un po' da tutti
(compresi gli indiani, gli tzigani…) ed è in continua evoluzione. Il fatto che Harpo Marx accordasse l'arpa in
un modo del tutto personale dimostra che siamo di fronte ad uno strumento
vecchio, rimasto indietro, con una creatività – cioè – legata al suo tempo
storico. Al contrario dell'arpa celtica, che è fortemente creativa: possiamo a
buon diritto parlare di innovazione della sonorità e del modo di collegarsi
all'arpa tradizionale. Sto sottolineando che l'arpa moderna è uno strumento che
risente del mondo conservatore in cui si colloca: è usata solo in modo
filologico. Persino Beethoven la trovava inutile! È vero che scrisse le Variazioni su un'aria svizzera per arpa
sola, ma gliele avevano commissionate. Insomma, ciò che non mi interessa è fare
un recupero storico, perché lo ritengo un'operazione falsa: non si sa neppure
che cosa e come davvero si suonava! Ci sono falsi storici che hanno preso piede
e, purtroppo, di queste sedicenti verità ci si riempie la bocca.
Quindi, quale ruolo affideresti all'arpa, oggi?
La
locandina di Vincenzo Zitello dietro una delle sue
arpe. Primo incontro della rassegna La
Musica nell'uovo, libreria la Feltrinelli Libri e Musica di Monza, 11
gennaio 2009.
©
Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Quello della
sperimentazione, della contaminazione. Oggi l'arpa è lo strumento della
creatività perché è questo il bisogno che si avverte. Facciamo un paio di
esempi. Il jazz applicato all'arpa m'interessa (come idea, non come
linguaggio): ci sono molti musicisti di fine Novecento che hanno cominciato a
muoversi su territori inusuali e che continuano su questa rotta, guidati dalla
propria identità creativa. La New Age, invece,
ritengo che avesse in nuce
buone idee, che poi si sono impoverite e commercializzate: se dovessi
definire ciò che la New Age è diventata, non esiterei
a dire che ci troviamo di fronte al supermercato del vacuo.
Occorre essere
sempre alla ricerca di esperienze nuove perché questo stimola la creatività e –
cosa non da poco ‑ aiuta a trovare punti di forza nella vita. È su questa
scia che sostengo l'importanza dell'imparare ad ascoltarsi. Nei momenti in cui
si è troppo presi dagli altri o da se stessi, non si riesce: ma è quando ti
ascolti che diventi fecondo come artista.
Stai mettendo l'accento sull'ascolto del tuo uomo interiore,
dato che ‑ prima dell'artista ‑ viene l'uomo?
Esatto. L'arpa
celtica e quella bardica fanno crescere il
compositore proprio perché gli permettono di ascoltarsi. Da questo consegue
un'attenzione verso le cose, i flussi delle sensazioni, le risonanze interiori.
Tutto ciò non avviene con l'arpa accademica.
Possiamo affermare che l'accademismo è di nicchia?
Certo che possiamo.
Le arpe celtica e bardica stanno colmando un bisogno:
quello di ascoltare il mondo in un modo diverso. È così che si coglie la magia
delle cose.
Possiamo fare un'incursione in uno dei temi che hai affrontato
in Atlas, il
tuo ultimo CD: il tema del tempo?
Ti riferisci al
quarto brano, Kronos?
Sì.
Vincenzo Zitello durante il primo incontro della rassegna La Musica nell'uovo, libreria la Feltrinelli
Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
© Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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È un brano che mi
piace molto perché, quando lo ascolti, sembra che ti stia perdendo, ma ad un
certo punto ecco che ti ritrovi: si tratta di una cellula che ti collega
all'infinito. Il tema finale ha in sé un nucleo forte. C'è chi non ha esitato a
definire Kronos
un capolavoro.
L'idea di perdita e
di ritrovamento è, in un certo senso, legata all'idea dell'imparare ad
ascoltare e ad ascoltarsi, cui accennavamo prima. Ascolti il tempo della
creatività e quello in cui le creazioni sedimentano. E pensi. Il pensiero è
fondamentale: quello che pensi, diventi. Tutto ciò vale sia nella musica sia
nella vita.
Nel libretto che correda Atlas citi ‑ a commento di Kronos ‑
Allen Ginsberg: "[…] gettavan
gli orologi giù dal tetto per dare il proprio volto all'Eternità fuori del
tempo", tratto da Howl.
Nel 1995 scrissi le musiche
per lo spettacolo teatrale The Beat
Generation realizzando un CD per l’attore Massimo
Arrigoni e, in occasione del tributo a Fernanda
Pivano a Conegliano Veneto, accompagnai Ginsberg ‑
un personaggio davvero particolare ‑ in un suo reading. La citazione da Howl sottolinea che, se l'uomo si lega ad un
momento particolare, ad un lasso di tempo chiuso, diventa prigioniero di quel
momento e non si troverà mai nelle condizioni di andare costantemente avanti.
La concezione che ho voluto esprimere in Kronos è quella dello schiudersi
del tempo in un divenire continuo, passo dopo passo, sempre avanti, aprendo una
porta dopo l'altra.
Il brano – si legge sul libretto ‑ è dedicato "ai
ragazzi del 1974 di Bottanuco, Pinuccio, Nunzio,
Fabrizio, e alle sere e al tempo passato a suonare in cascina".
La dedica non ha il
solo fine di indirizzare Kronos ai tre ragazzi, ma anche quello di
concretare la mia concezione con un esempio. Pinuccio, Nunzio e Fabrizio,
fumavano e si drogavano: il loro problema era di non riuscire a gestire quel
lasso di tempo chiuso di cui di ti parlavo prima.
Legati al contingente, non riuscivano ad uscire dalla
prigione, a proiettarsi oltre?
Sì, proprio così.
Nella mia concezione Chronos è il tempo in divenire,
ma anche (o proprio per questo) il tempo personale che hai per scoprirti e per
realizzarti. Io ho una figlia di quattro anni e mezzo, Anna. Verso una cert'ora
smetto di studiare o di fare ciò che sto facendo e mi metto a giocare con lei e
con lei vivo il mio tempo.
Mi pare un tempo di qualità che perderesti, se non lo vivessi
appieno ora. È alla tua bimba che hai dedicato Ninna Anna, in Atlas.
Sì: è una lullaby delicata
– come spiego nel libretto ‑ dove l'ocarina bassa imita il tubare delle
tortore, che accompagnava i suoi primi sonni pomeridiani.
Nel libretto scrivi anche: "Quando ti ho nelle mie
braccia salgo in cima alla scala infinita che porta alle stelle."
Tu concepisci, quindi, un tempo dal quale hai eliminato
qualsiasi risvolto negativo, peggiorativo (tempo che imprigiona, tempo che
schiavizza, tempo che porta a dimenticare…).
Sì, per me il tempo
è un'entità positiva. È un tempo in cui puoi: non so come esprimerlo
altrimenti, il mio punto di vista.
Non farlo: è una definizione chiarissima, così.
Oggigiorno ognuno ha
il diritto di provarci. Ci sono molti strumenti che aiutano le relazioni, la
ricerca, la creatività. Pensa anche soltanto al computer. Con queste mie
affermazioni non sto, comunque, individuando un'epoca in cui si sta meglio e
una in cui si sta peggio. Intendo solo sottolineare che ognuno ha il diritto di
assecondare il proprio sentire e la propria creatività e, quindi, di produrre
ciò che ritiene giusto. Non m'interessa stravolgere la musica solo per far
parlare di me (gli artisti che – passami l'espressione – "se la tirano",
non mi piacciono): io compongo secondo una concezione musicale che risponde al
mio sentire e lascio che gli altri giudichino. Insomma: faccio qualcosa che mi
piace ‑ tutto qui – e probabilmente questo viene colto. Prendi, ad
esempio, l'incontro che ho tenuto presso la Feltrinelli Libri e Musica di
Monza, lo scorso 11 gennaio.
Il tuo è stato l'incontro di apertura della rassegna La Musica nell’uovo (direttore artistico
Michele Sangineto), che continuerà fino al 19 luglio.
Michele
Sangineto, a sinistra, e Vincenzo Zitello, a destra, durante il primo incontro della
rassegna La Musica nell'uovo,
libreria la Feltrinelli Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
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Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Ti ricordi quanta
gente c'era?
Certo che me lo ricordo: il piccolo spazio in cui ti esibivi
con le tue arpe (celtica e bardica) era gremito.
Era gente venuta in
libreria per fare acquisti, che si è fermata ad ascoltare. Dopo l'incontro,
nella mia casella di posta ho ricevuto tantissime e-mail.
Molte persone erano letteralmente rapite dalla tua musica.
Penso tu abbia aperto, per loro, una finestra emozionale.
Vincenzo Zitello alle prove del suono. Primo incontro della
rassegna La Musica nell'uovo,
libreria la Feltrinelli Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
© Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Lo penso anch'io.
Del resto è questo il mio compito. Me ne rendo conto quando sono sul palco:
comprendo che il mio posto è lì e che sto facendo qualcosa che mi appartiene.
Vincenzo, spesso nei tuoi concerti suoni con due arpe (celtica
e bardica). Perché?
Negli anni Settanta
la musica minimale, reiterativa era quella che mi
attraeva di più. A questo proposito ricordo vividamente Philip Glass, nel 1973,
in un concerto d'organo a Lugano. Fui colpito in modo molto profondo da quel
musicista, mentre altri lo ritenevano un buffone e lo liquidavano con un:
"Ci prende in giro: insiste su un'unica nota!" Suonare con due arpe è
un'idea nata dalla musica reiterativa (che – ammetto
– è un po' di nicchia): quando lo faccio è perché decido di scegliere un modo
ossessivo per veicolare qualcosa di profondamente mio. Ad esempio nel mio pezzo
Gaelik (Raga) c'è un
bordone che tiene il ritmo.
In questa nostra chiacchierata siamo partiti
dall'idea del divenire, del tempo che lascia liberi di far fluire la propria
creatività e di realizzarsi come uomini e come artisti e siamo approdati al
concetto di reiterazione, di insistenza, di ossessione dalla quale lasciarsi
scavare, prima di poter portare qualcosa allo scoperto. Trovo che si tratti di
un'antitesi solo apparente, perché un passaggio c'è, forse addirittura un
elemento unificatore: l'energia vitale.
Sì, esistono energie
che veicolano il pensiero, lasciandolo libero di percorrere il suo cammino, di
fermarsi (di scavare come hai detto tu), di riprendere. Alla fine il pensiero
lo ritrovi…
… a raccolto fatto, con qualcosa da porgere alla pubblica
fruizione.
Vincenzo&Vincenzo. Primo incontro della rassegna La Musica nell'uovo, libreria la Feltrinelli
Libri e Musica di Monza, 11 gennaio 2009.
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Foto Gloria Chiappani Rodichevski
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Eh, sì. Certe
creazioni sono possibili perché esistono dei pozzi intergalattici (se vogliamo
definirli così) da cui attingere pensieri ed energie. Le cose, i fatti, i gesti
comunicano fra loro e fanno scaturire una forza alla quale è possibile
accedere. Voglio prendere un esempio molto concreto. Durante alcuni miei
concerti tu hai scritto una serie di poesie che hai, successivamente,
strutturato in una silloge.
Rammento bene la prima volta. Il brano d'apertura del tuo
concerto fu Serenade.
Dopo le prime note infilai la mano nella borsetta, dove tengo sempre la penna e
un blocchetto di carta, e cominciai a scrivere versi ispirati dalla tua musica.
Le tue sono
rappresentazioni di ciò che l'intuito ti detta. La tua poesia è scaturita dalle
frequenze del suono. La musica era lì, è vero, ma era lì che c'eri tu: la
poesia che hai composto è un patrimonio che ti appartiene, tuo e soltanto tuo.
Io suonavo e ho notato che – seduta in prima fila – tu scrivevi; la musica, con
le frequenze dei suoi suoni, era indirizzata a tutti i presenti e tutti l'hanno
apprezzata e anche amata, ma solo tu hai vibrato in quel modo particolare.
Sono relazioni tra
le cose, complesse e – contemporaneamente ‑ semplici, che si instaurano
spontaneamente. È il pensiero che fluisce. Si può parlare di intelligenza della
mano. È chiaro che la mano, in sé, non è intelligente, però il cervello che
l'aiuta a muoversi sembra quasi permetterle una vita propria. Ci sono magie che
fanno sì che le cose si cerchino, si trovino, si tocchino. Siamo di fronte a
sinergie: una cosa che spinge l'altra…
Certo, non è solo giustapposizione ‑ ascolto un brano e
poi, a caldo, scrivo una poesia che lo commenti ‑. È contatto emozionale,
comunicazione non verbale, un legame intuìto,
l'analisi e la sintesi al tempo stesso (capacità proprie della poesia).
Ecco la vera
sinergia. Tu sei come una medium che ‑ entrando in contatto diretto con
le cose che l'arte smuove ‑ aggancia le cose stesse l'una all'altra e le
fa interagire. Questa tua caratteristica la si coglie subito, guardandoti.
Vincenzo, ti ringrazio per aver sostenuto anche con le tue
parole la mia ricerca di sinergie. L'ultima parte della nostra conversazione mi
ha sollecitato un omaggio ad Atlas, che ti lascio:
Sommovimento
della goccia che colora la zolla
alternando
salteri a fujara.
Rinascimenti
e ventoflauto
sopra il monte.